DALLA VIOLENZA ALLO STATO |
Max Weber ci aiuta a capire in che maniera, ancorché nel potere ravvisiamo un’origine violenta (come testimoniano le vicende di Caino e di Romolo), all’interno della tradizione occidentale la violenza si tramuti in potere istituzionalizzato e dia vita agli Stati. Il concetto di Stato è tipicamente moderno: non furono Stati né la poliV greca né la res publica romana, che nella sua fase imperiale si avvicinò piuttosto ai grandi imperi orientali caratterizzati dal “potere patrimoniale”. È solo la modernità, lungo un periodo che va dal Medioevo e giunge a compimento nel Novecento, a conoscere in senso pieno lo Stato. Per comprendere il complesso processo di istituzionalizzazione del potere, dobbiamo pertanto capire preventivamente la formazione degli Stati moderni. Nel definire il potere, Weber ne mette in luce la verticalità – ossia la dinamica gerarchica, per cui c’è un comandante e un obbediente – e la continuità nel tempo (in quanto si tratta di una disposizione mentale all’obbedienza): dal concetto di potere, possiamo risalire a quello di “gruppo di potere” immaginando una relazione fra più individui costituenti una collettività. Scrive Weber in Economia e società: “gruppo di potere si ha quando si forma una collettività i cui membri sono sottoposti, in virtù di un ordinamento, a relazioni di potere”. In questa definizione, si sottolinea l’elemento collettivo e il fatto che l’obbedienza sia legata alla presenza di un ordinamento giuridico: e a costituire una novità che distingue il potere in quanto tale da quello “di gruppo” è proprio la nozione di “ordinamento”, la quale esprime l’idea secondo cui il potere non è soltanto forza, ma è una somma di forza e di diritto, o - se preferiamo - di forza e di leggi, ossia di norme che avanzano una pretesa di legittimità. Un “gruppo di potere” può poi, secondo Weber, essere ulteriormente definito come “gruppo politico” nel caso in cui “la sua sussistenza e la validità dei suoi ordinamenti, entro un dato territorio, vengono garantite continuativamente mediante l’impiego e la minaccia di una coercizione fisica da parte dell’apparato amministrativo”. Rispetto alla precedente nozione di “gruppo di potere”, si aggiungono, con il “gruppo politico”, l’elemento del territorio (implicante per sua natura una limitazione spaziale), dell’apparato amministrativo e della coercizione. Ciò ci permette di distinguere, sulle orme di Platone (Repubblica, I) tra uno Stato e una banda di briganti, ad esempio un’associazione mafiosa: anche un’organizzazione mafiosa è indubbiamente un “gruppo di potere”, giacchè ha i propri ordinamenti e la sua coercizione, e ambisce a diventare “gruppo politico”; affinché ciò avvenga, le manca tuttavia il controllo del territorio, che resta saldamente nelle mani dello Stato. Quest’ultimo rientra pertanto a pieno titolo nel novero dei “gruppi politici”, al pari dell’Impero persiano o della Repubblica romana. Scrive significativamente Weber: “per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico in cui e nella misura in cui l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima in vista dell’attuazione degli ordinamenti”. Con questa definizione, sono introdotti nuovi concetti che distinguono lo Stato da ogni altro “gruppo politico”: tali concetti sono quelli di impresa, istituzione, monopolio della coercizione, legittimità. “Per impresa si deve intendere un agire continuativo di specie particolare diretto ad uno scopo”: con queste parole, Weber sta dicendo che il carattere dell’azione dell’impresa è razionale rispetto allo scopo e che dunque lo Stato è sempre un gruppo politico di tipo razionale. “Per istituzione si deve intendere un gruppo sociale i cui ordinamenti sono imposti con successo ad ogni agire che rivesta determinate caratteristiche”: ciò significa che un gruppo sociale è istituzionale nella misura in cui i suoi membri non ne fanno parte volontariamente, come quando si sale e poi si scende su un mezzo pubblico. In questo senso, opposto al concetto di istituzione è quello di unione, che si riferisce a individui che scelgono volontariamente di far parte di un gruppo in forza di una stipulazione che avviene con un “ingresso personale” nell’unione stessa. Evidentemente lo Stato – nella misura in cui non si sceglie di appartenervi - non è un’unione: esso è piuttosto un’istituzione, giacché facciamo parte di esso fin dalla nascita. Abbiamo prima sostenuto che, tra le prerogative dello Stato, v’è il monopolio della coercizione: in realtà, tuttavia, le cose non sono sempre state in questi termini, e se, ad esempio, volgiamo lo sguardo all’età medievale, notiamo che sussisteva una forte rivalità tra il potere imperiale e quello papale e che il primo, a sua volta, era a livello locale contrastato da poteri minori. Norbert Elias, un sociologo che si colloca sulla scia di Weber, ha sostenuto - nella sua opera Il processo di civilizzazione (1936-39) – che la civilizzazione nasce non solo con l’avvento dello Stato, ma anche con l’affermarsi delle buone maniere, del controllo delle pulsioni, della moderazione del proprio comportamento. E dietro a tutti questi processi – nota Elias – sta la monopolizzazione del potere militare e del potere fiscale: nel momento stesso in cui si afferma il primo, coi suoi ingenti costi, subito si rende necessario l’affermarsi anche del secondo, in forza del quale lo Stato può estrarre dalla collettività le risorse finanziarie adeguate per mantenere il monopolio militare; quest’ultimo, proprio perché legittimo, è accettato senza opposizione. Un altro sociologo del Novecento, di nome Albert Hirschman, ha definito tre categorie fondamentali per cogliere le relazioni che si possono instaurare all’interno di un gruppo. La prima categoria è quella della loyalty, ovvero della “lealtà”: essa non è che la disposizione ad obbedire ai comandi in maniera spontanea e, in tal senso, corrisponde alla “legittimità” di cui parla Weber. La seconda categoria fatta valere da Hirschman è quella della voice, cioè della “voce”: corrisponde alla capacità di dissentire dall’ordinamento vigente pur restando al suo interno; è ciò che fanno quanti propongono politiche alternative a quelle in atto, facendo così sentire la loro voce. L’ultima categoria è quella dell’“uscita” (exit) dal gruppo: quando i caratteri di incompatibilità con esso sono a tal punto marcati da rendere inutile una politica alternativa, si esce dal gruppo cercandone un altro. Queste tre categorie però sono applicabili soltanto se riferite a unioni (come ad esempio un partito), mai alle istituzioni: supponiamo che ci si iscriva per libera scelta a un dato partito politico e che, a un certo punto, ci si trovi in disaccordo con certe decisioni da esso prese; si muoveranno delle critiche al partito, auspicando che i suoi membri ci ascoltino. Nel caso in cui ciò non avvenisse, allora non resterebbe che uscire dal partito e cercarne un altro. Naturalmente un processo di questo tipo non è attuabile nel caso in cui si avesse a che fare con lo Stato anziché con un partito. In questo caso, quali sono i confini del riconoscimento della legittimità di un ordinamento? E che cosa significa criticare? Vuol dire fare opposizione? O significa anche fare delle rivoluzioni? Di sicuro non è possibile l’opzione della “uscita” (exit) dallo Stato, se non tramite le emigrazioni per ragioni politiche (come nel caso dei Padri Pellegrini emigrati in America) o per ragioni economiche (come gli Italiani emigrati in America).