LA FRODE



Esamineremo ora la frode, notando fin da ora come essa abbia una dimensione meno oggettiva rispetto a quella del potere e della forza: certo, anche il potere, nella sua origine, si configura come azione violenta, ma poi, nel suo consolidamento e nella sua istituzionalizzazione, esso diventa sempre più oggettivo. Con la frode, invece, si resta più legati ad un ambito di azione connesso a quello che Habermas definiva “agire strategico”, in cui quel che conta è solo il fine da raggiungere. La frode è innanzitutto inganno: questa è la prima sinonimia che la nostra mente evoca e quando parliamo di inganno pensiamo immediatamente alla menzogna. In questa prospettiva, viene a delinearsi una netta distinzione tra la coppia concettuale di forza/potere e quella frode/menzogna: mentre il potere si esercita attraverso l’utilizzo della forza, la frode si esprime mediante la menzogna. Il potere mira a disciplinare e a vincolare il comportamento esteriore (mentre l’autorità aspira ad influenzare anche quello interiore): essendo innanzitutto comando, il potere è il linguaggio più antico, come rileva Elias Canetti. Il primo comando è rinvenibile già nel mondo animale nel momento stesso in cui un animale ne aggredisce un altro e in quest’ultimo scatta un dispositivo che lo induce alla fuga. E Canetti arriva a sostenere, a tal proposito, che il comando è costituito da due elementi: da un lato, v’è l’impulso, nella misura in cui il comando ha come effetto il produrre un certo comportamento (la fuga dell’animale); dall’altro lato, v’è la “spina”, ossia il conficcarsi del comando stesso nell’individuo, in maniera tale da permanervi stabilmente (resta per sempre in chi ha eseguito il comando). Con quest’ultimo punto, Canetti vuol sottolineare come il potere non sia soltanto un atto di volontà istantaneo, ma come sia anzi qualcosa che viene interiorizzato, cosicché chi ha obbedito una volta finisce poi per essere incline ad obbedire ancora. Da ciò si evince come il potere agisca sugli individui, penetri in loro come una spina e ne plasmi la volontà, incidendo sul movimento dei loro corpi. Quando invece tentiamo di definire la frode, l’inganno e la menzogna ci muoviamo invece sul più difficile terreno dei processi mentali, ossia in una dimensione che coinvolge direttamente e primariamente il sapere di un individuo. Proprio a ciò sono connessi la menzogna e l’inganno, che si presenta innanzitutto come un indurre in errore il prossimo: non si tratta più di un comando impartito a qualcuno, perché altrimenti ricadremmo nell’ambito del potere o - nel caso vi fosse opposizione a tale comando - della potenza; si tratta piuttosto di indurre qualcuno ad un comportamento sottraendogli delle possibilità di conoscenza e, pertanto, facendolo cadere in errore. Possiamo addurre un esempio di inganno: immaginiamo che ad una manifestazione di protesta si verifichino episodi di vandalismo e che arrivi un agente di polizia per catturare chi ha commesso tali atti di vandalismo; supponiamo che l’agente domandi informazioni a un individuo e che questi, anziché dire all’agente che chi ha compiuto tali atti, si è diretto verso destra, gli dica che si è diretto verso sinistra. Siamo così di fronte ad un caso di inganno. La frode, oltre che sulla menzogna, può anche poggiare sulla reticenza: se la menzogna consiste nel dire intenzionalmente ciò che non è, la reticenza è il non dire intenzionalmente ciò che è. Il discorso deve però essere adeguatamente inquadrato nella cornice della politica, ossia in una cornice di contingenza e di esistenza pratica: per riesumare una terminologia leibniziana, possiamo dire che la politica ha a che fare non già con le “verità di ragione”, bensì con le “verità di fatto”. E, com’è noto, le verità di fatto non sono cogenti, ma sono piuttosto asserzioni su eventi le quali pretendono di essere vere: se dico che “oggi splende il sole”, esprimo una verità di fatto poiché accade che oggi ci sia effettivamente il sole. Per farci una prima idea della menzogna e della frode, possiamo pensare alle grandi manipolazioni delle informazioni messe in atto dai regimi autoritari (ma anche, in certa misura, da quelli democratici), nei quali non è ammessa la critica e sono fabbricate false verità di fatto comode per il regime stesso; così il Nazionalsocialismo tedesco fece incendiare il parlamento e poi, grazie alla menzogna, accusò i comunisti di aver compiuto tale atto. Quella inerente alla frode è una questione di importanza filosofica perché ci rimanda ad una facoltà umana senza la quale la menzogna sarebbe impossibile: si tratta della facoltà dell’immaginazione. Come dietro al potere c’è la volontà umana di cambiare il mondo, così dietro alla frode e alla menzogna sta l’immaginazione, come nota lucidamente Hannah Arendt nel suo saggio La menzogna in politica. Qui ella scrive:

 

una caratteristica dell’azione umana è di dare continuamente inizio a qualcosa di nuovo […]. Per fare spazio alla propria azione, qualcosa di nuovo deve essere distrutto […], un cambiamento del genere sarebbe impossibile se non potessimo spostarci mentalmente da dove siamo fisicamente e immaginare che le cose potrebbero anche essere diverse da come in realtà sono […]. In altri termini, la deliberata negazione della verità fattuale e la possibilità di cambiare i fatti sono interconnesse, devono la loro esistenza alla stessa origine: l’immaginazione”.

 

Con l’immaginazione – nota Arendt - l’uomo può fantasticare realtà diverse da quella esistente e, sull’onda di ciò, negare deliberatamente la verità di fatto. Per meglio capire l’entità della frode, può essere utile fare riferimento alla realtà giuridica: possiamo a tal proposito individuare una serie di diverse posizioni assumibili nell’ambito di un processo e tutte legate al rapporto tra il sapere e il dire. Così possiamo ipotizzare un soggetto che sappia e che dica ciò che sa: in questo caso, si ha un testimone. Possiamo però anche supporre un soggetto che sappia ma che non dica: in questo caso, abbiamo a che fare con un reticente. Se poi il soggetto sa ma dice il falso, si ha il caso di un mentitore. Ci può poi essere chi non sa e non dice (l’ignorante) e, infine, chi non sa ma dice (stupido).

 

Sa + dice = testimone

Sa + non dice = reticente

Sa + dice il falso = mentitore

Non sa + non dice = ignorante

                                                 

 

 

 

 

             

 

 

Nel caso di colui che non sa ma dice si ha a che fare con l’ignoranza e con la stupidità: Carlo Maria Cipolla ha scritto un pamphlet intitolato Allegro ma non troppo in cui prende in esame la stupidità umana e, nel fare ciò, individua quattro posizioni distinte. C’è chi è intelligente, ossia chi sa agire realizzando l’utile proprio e, insieme, quello altrui; si tratta però di una posizione assai minoritaria. C’è poi il brigante, ovvero colui il quale agisce profittevolmente per sé ma a danno degli altri; in terzo luogo c’è lo stupido, che agisce danneggiando se stesso e gli altri; infine, lo sprovveduto è quello che non danneggia gli altri ma se stesso. Se volgiamo lo sguardo all’antichità, il problema della frode traspare, tra le tante opere, anche nel De officiis di Cicerone, che, pur non essendo un pensatore originalissimo, ha il grande merito di saper esporre con una chiarezza eccezionale le dottrine altrui: il De officiis è un’opera particolarmente interessante perché, oltre a trattare in vari punti la tematica della frode, è lo scritto da cui prende le mosse Machiavelli nel tracciare la distinzione tra la ragione e la forza, tra la volpe e il leone. Scrive infatti Cicerone nel cap.34 del libro I:

 

Due sono i modi di combattere, 1'uno per via di discussione, 1'altro con la forza, ed il primo è proprio dell'uomo, il secondo delle bestie; bisogna ricorrere a questo se non è possibile usare il primo”.

 

Addirittura, nel cap.41 del libro I Cicerone dice:

 

Due poi sono i modi con i quali si fa ingiustizia: con la violenza e con la frode; la frode è propria della volpe, la violenza del leone; sia l'una che l'altra è contraria alla natura umana, ma la frode desta maggior repulsione”.

 

Si può allora dire che Machiavelli in certo senso plagi Cicerone, anche se, pur partendo dalle sue tesi, finisce poi per sostenerne altre diversissime e anzi antitetiche: se per Cicerone le due stelle polari dell’agire umano sono l’utile e l’onesto e, tra esse, esiste quasi un accordo naturale tale per cui solo perseguendo ciò che è onesto si può raggiungere l’utile (come già era in Socrate), Machiavelli percorre una strada diversissima, mettendo in luce come quelle che per Cicerone erano vizi possano essere utili al principe. Per perseguire la propria utilità, occorre pertanto “saper entrare nel male, necessitato” (Il principe, cap XVIII), ossia far ricorso, quando è necessario, alla frode: tra utile e onesto non v’è continuità, ma frattura. Al contrario, tutti i tre libri del De officiis illustrano minuziosamente le componenti dell’utile e dell’onesto per far vedere come essi convergano e si integrino. In particolare, nel libro II, dedicato al problema dell’accordo dell’utile con l’onesto, Cicerone riconosce come le azioni in cui entrano in gioco la frode e la violenza siano ricorrenti e anzi maggioritarie nell’agire umano, mettendo però in luce come esse non raggiungano l’utile. Analizzando la frode e la violenza, Cicerone tocca sia il tema della menzogna sia quello della reticenza, la quale ha a che fare con la simulazione e con la dissimulazione:

 

Se la simulazione e la dissimulazione sono frode [dolus malus], pochissime sono le azioni in cui tale frode non entri”.

 

Egli è pienamente consapevole di come l’agire sociale sia intessuto di frode e menzogna, di simulazione e di dissimulazione. Nell’opera, compare anche una sintetica quanto efficace definizione della frode attribuita da Cicerone a Caio Aquilio: “per frode intendo il fingere una cosa e il farne un’altra”. In questa maniera, si aggiunge una nuova e importante determinazione concettuale: la discrepanza tra l’actum e il simulatum. Oltre a ciò, Cicerone insiste non soltanto sulla componente attiva della menzogna, ma anche su quella passiva della reticenza: ancora oggi si tende a distinguere tra “giustizia attiva” (la violenza, il non dare a ciascuno ciò che gli spetta, il frodare con la menzogna) e “giustizia passiva”, cioè quella che si commette non già con le azioni, bensì con le omissioni (la reticenza); quest’ultima è sicuramente meno tematizzata e più problematica perché è assai difficile trattare con azioni che, non compiute, implicano ingiustizia. Come esempio, Cicerone adduce quello di un uomo che vende una casa senza segnalare all’acquirente il fatto che essa è malsana e ha le fondamenta marce: egli sa e non dice e, pertanto, la sua è un’azione fraudolenta nel senso della reticenza. Proprio a tal proposito, Cicerone specifica che, nel caso della reticenza, “il nascondere non consiste già nel tacere una cosa qualsiasi, ma nel volere che, per tuo esclusivo vantaggio, quello che tu sai sia ignorato da quelli a cui tornerebbe utile il saperlo”. Si è così introdotta un’ulteriore determinazione, quella della manipolazione del sapere per proprio esclusivo vantaggio e a danno degli altri. Dobbiamo ora concentrarci sulla nozione di menzogna, che da sempre è oggetto privilegiato della riflessione filosofica (da Platone e Aristotele in avanti): nel 395 Agostino compone un’opera recante il significativo titolo De mendacio, ovvero Sulla menzogna e, molti secoli dopo, Kant si troverà a discutere animatamente con Costant sulla liceità del mentire. Cerchiamo dunque di toccare i tratti essenziali della questione, notando in primis come vi sia una netta frattura tra il mondo antico e quello cristiano/moderno. È infatti il cristianesimo a moralizzare il problema della menzogna facendo di essa un vizio di una gravità sconosciuta al mondo greco, che pure l’aveva in buona parte condannata. Nel mondo dei Greci, la valutazione della gravità della menzogna è legata alla posizione sociale occupata da colui che mente e da colui al quale la menzogna è rivolta, cosicché si tende a condannarla nella misura in cui è rivolta da un uomo di rango inferiore a uno di rango superiore; se invece avviene il contrario, ovvero se a mentire è un superiore, essa è valutata come lecita. Sicché possiamo affermare che i Greci hanno dato del problema della menzogna una valutazione classista, ma anche razzista e sessista. Infatti, i più autorevoli pensatori greci riconoscono la liceità del mentire, oltre che nel caso in cui il medico mente al paziente sull’entità della malattia che lo affligge, anche nel caso in cui il governante mente ai sudditi. Così, nel libro III della Repubblica, Platone, che pure detesta l’impiego della menzogna poetica, parla di una “nobile menzogna” di cui i governanti si avvalgono per mantenere l’ordine sociale, riconoscendo per questa via la funzione positiva del mentire in sede politica. Accanto alla legittimazione in ambito politico, i Greci ammettono tendenzialmente anche il ricorso alla menzogna nel caso dei rapporti con popolazioni barbare e selvagge: un’efficace raffigurazione di questa prospettiva xenofoba del mentire ci è offerta dall’episodio, cantato nell’Odissea, di Odisseo e il ciclope Polifemo. Il greco Odisseo mente al barbaro Polifemo su più fronti, perfino sul proprio nome, e si sottrae dalla sua spelonca ricorrendo allo scaltro stratagemma delle pecore: la menzogna così prodotta è intesa come espediente legittimo partorito dalla mhtiV di Odisseo e del mondo greco ai danni del primordiale e rozzo mondo dei Ciclopi. Il fatto che per i Greci il mentire sia considerato ora come legittimo, ora come illegittimo è testimoniato anche dal loro modo di rapportarsi alle divinità olimpiche: gli dei possono ingannare gli uomini a piacimento, ma nel caso in cui siano gli uomini ad ingannare gli dei sono previste pene durissime, ancorché a mentire siano esseri anfibi tra l’umano e il divino come i Titani o come Prometeo. L’altro fronte in cui la menzogna è riconosciuta dai Greci come lecita è quello delle relazioni col sesso femminile: all’uomo è concesso mentire alla donna, ma quest’ultima non può farlo nei confronti dell’uomo. Da quanto detto si evince facilmente come il mondo antico sia incline ad un utilizzo selettivo della menzogna: in una tale prospettiva, diventa decisiva la qualificazione dell’“altro” a cui la menzogna è destinata ed è proprio da quest’“altro” che dipende la liceità o l’illiceità del mentire. Sicché per i Greci la menzogna non è dunque l’inganno intenzionale in quanto tale, ma è piuttosto l’ingannare chi è dello stesso livello sociale: così Ulisse che mente a una donna, al Ciclope o ad un uomo a lui inferiore non sta mentendo o, meglio, sta mentendo legittimamente, poiché la menzogna non è stigmatizzata se rivolta a chi è inferiore. Quando si dà questo caso, infatti, si ha a che fare, secondo l’immaginario greco, con un mezzo legittimo di agire strategico: per esprimere questa forma di agire, i Greci usano il termine mhtiV, che significa tanto “astuzia” quanto “intelligenza intuitiva” dispiegata nelle difficoltà e tale da saper escogitare soluzioni e rimedi anche a danno degli altri. Della mhtiV troviamo un’ampia documentazione in Omero, nell’Iliade e soprattutto nell’Odissea, il cui protagonista, Odisseo, è il polumhtiV per eccellenza. Nel XXIII libro dell’Iliade, Omero ci presenta una competizione sui carri tra Antiloco, figlio di Nestore, e Menelao: Antiloco sa bene di avere cavalli meno rapidi di quelli di Menelao e il padre Nestore gli dice che l’elemento della forza e della strumentazione non è decisivo, poiché si può anche vincere con mezzi inferiori se si fa uso della mhtiV, ossia dell'intelligenza escogitatrice di inganni. Perciò Antiloco, quando il suo carro e quello di Menelao giungono in prossimità di una strettoia, taglia la strada al suo rivale e raggiunge per primo il traguardo, compiendo una scorrettezza che un ipotetico arbitro avrebbe sicuramente richiamato. L’ambito della mhtiV è appunto quello in cui mancano regole o arbitri che le facciano rispettare. In mancanza della forza fisica, si deve far ricorso all’astuzia sleale e alla premeditazione: sicché la mhtiV è un qualcosa che implica, a differenza dell’impulsività della violenza, pianificazione e calcolo. Due antichisti francesi, M. Detienne e J.P. Vernant, nella loro opera Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, hanno eseguito un’eccellente ricostruzione della mhtiV, mettendo in luce come la cultura greca tenda ad associare sempre le virtù a determinati animali. Così Oppiano di Anazarbo compone un trattatello in cinque libri intitolato Alieutika, ossia Sulla pesca, in cui si dilunga nel descrivere la rana di mare e il polipo: quest’ultimo, con i suoi tentacoli innumerevoli e flessibili, simboleggia la doppiezza, la vigilanza e la duttilità della mhtiV, poiché sa mimetizzarsi sui fondali per poi sferrare gli attacchi alle sue prede; e doppiezza e vigilanza Oppiano ritrova anche nel pescatore, il quale deve esser dotato delle stesse caratteristiche del polipo, deve cioè essere agile, dissimulante, deve saper vedere senza essere visto, deve avere l’occhio sicuro e cogliere il momento opportuno per muoversi. È anche significativo il fatto che i pensatori antichi si domandassero con una certa insistenza se i pesci dormissero oppure no: molti ritenevano che essi non dormissero affatto e che perciò rappresentassero un’intelligenza sempre vigile e invincibile per la potenza del sonno. Ancora Plutarco, autore di uno scritto sull’Intelligenza degli animali, va sostenendo che la caccia al polipo sviluppa l’intelligenza umana. Di tutt’altro avviso era Platone, il quale – nella Repubblica e nelle Leggi – parla male della caccia e della pesca, perché convinto che esse sviluppino quella doppiezza e quell’inclinazione all’inganno che stanno agli antipodi delle virtù che la poliV richiede ai suoi cittadini (temperanza, fortezza, saggezza, giustizia). Dal canto suo, Odisseo è il polutropoV per antonomasia, è cioè l’uomo “dalle mille risorse” intellettuali ed è nell’Iliade contrapposto ad Achille: questi è l’eroe a tutto tondo, che, nella sua esteriorità passionale, quando gli viene sottratta la serva Briseide si ritira dalla battaglia; è, in definitiva, un eroe tutto muscoli e niente cervello. Sull’altro versante, Odisseo è la complicazione, l’interiorità: ha sì un braccio assai robusto, ma la sua forza non è lì; sa rapportare l’espressione esterna a quella interna, sa escogitare grandi macchinazioni, come il cavallo con cui i Greci espugnano Troia, e non a caso è spesso rappresentato seduto, nell’atto di pensare e con gli occhi abbassati non già perché egli sia umile o incerto, bensì perché concentrato nella progettazione di nuovi stratagemmi. Egli sa tacere, fingere, trattenersi, pazientare: e nell’ultimo libro dell’Odissea, quando regola i conti con i Proci, di fronte al figlio Telemaco che lo incalza a intervenire, Odisseo gli dà una lezione sulla virtù del silenzio e del “frenare la mente”. In generale, l’uomo odisseico usa la menzogna e la reticenza come strategie di autotutela verso l’ignoto: Odisseo, infatti, preclude a se stesso e ai suoi compagni l’abbandono alla rete di quella comunicazione discorsiva che finisce per impigliare gli uomini distogliendoli dai loro obiettivi e facendo loro smarrire la bussola. Il cavallo che, su suo consiglio, i Greci abbandonano sulla spiaggia di fronte a Troia è vuoto al suo interno, proprio come la parola, la quale non garantisce la presenza della cosa (mentendo, infatti, dico una cosa, ma questa non è nelle mie parole): il cavallo è allora anche metafora dell’inganno verbale, al pari dell’episodio dell’incontro con Polifemo. Qui vengono prospettati addirittura cinque elementi di frode e di menzogna: 1) la dichiarazione di essere naufraghi, quando in realtà Odisseo e i compagni si trovano sull’isola del Ciclope per esplorarla; 2) il ricorso al vino per ubriacare il Ciclope; 3) la menzogna verbale riguardante il nome, quando Odisseo dichiara di chiamarsi “Nessuno”; 4) l’accecamento (se l’astuzia si presenta come occhiuta e addirittura dotata di tanti occhi, la vittima della frode ne è priva); 5) il camuffamento di se stesso e dei compagni quando escono avvinghiati ai ventri delle capre: quest’ultimo aspetto denota il fatto che, quando si ricorre alla frode, si entra automaticamente nella dimensione ferina, simboleggiata appunto dal camuffamento con le pecore. Abbiamo in precedenza notato come, da Cicerone fino a Machiavelli e oltre, la volpe sia il simbolo per eccellenza dell’astuzia: essa infatti ha tane con più uscite, in modo tale da poter fuggire per diverse vie; inoltre caccia abbandonandosi come morta sull’erba, in maniera tale che gli uccelli si avvicinino per carpirla e diventino sue prede. Anche la modernità si interroga con interesse sulla menzogna: così Martha Nussbaum, nel suo La fragilità del bene, fa delle acute riflessioni su come la tragedia greca abbia molto da insegnarci in merito. La problematica è affrontata anche nella Teogonia di Esiodo in forma di mito, ma, come si sa, dei miti circolano spesso più versioni fra loro incongruenti, cosicché nella tragedia esso ritorna ma con significati e in forme assai diverse. Esiodo ci presenta Metis come la dea compagna di Zeus, dalla quale il padre degli dei aspetta un figlio, ma temendo che il nascituro possa usurpargli il posto ingoia la moglie incinta; da Metis ingoiata nascerà Atena, che esce già adulta dal capo di Zeus. Questo mito sta a significare che, nel consolidamento del potere di Zeus minacciato dalle sue stesse opere (il figlio), il potere stesso tenta di difendersi, consapevole di come occorra sottomettere non solo le potenze che incarnano la forza bruta, ma anche quelle intellettuali dell’astuzia e della frode, che devono essere introiettate (Zeus che divora Metis) facendole proprie come modalità di esistenza. La sovranità dunque si accompagna sempre alla mhtiV, giacché questa consente di vincere la resistenza senza dover sempre fare ricorso alla violenza. Sull’altro versante, Esiodo, prima nel Prometeo incatenato, poi nel Prometeo liberato, ci dà una versione del mito assai diversa: nella prima opera, Zeus fa incatenare Prometeo da Efesto, l’artigiano che esprime la forza materiale al servizio del potere sovrano. Egli ha due aiutanti, i cui nomi - KratoV (potere) e Bia (violenza) – stanno a significare il fatto che la summa potestas poggia sull’esecutore (Efesto) a sua volta spalleggiato dal potere della violenza. Prometeo, dal canto suo, è incatenato perché colpevole di ubriV nei confronti di Zeus e perché portatore di mhtiV e di inganno. Nelle sue vicende si vede bene l’intreccio tra l’inganno (doloV) e la tecnica (tecnh), giacché Prometeo inganna Zeus rubando il fuoco e donandolo agli uomini, facendo cioè ad essi il più ambiguo dei doni: la tecnica. Ciò sta a significare che l’inganno perpetrato da Prometeo è doppio, in quanto rivolto ai danni sia del padre degli dei sia della natura, dal momento che col fuoco e con la tecnica l’uomo può ingannarla e sottometterla in modo obliquo, ossia usando stratagemmi, non frontalmente. Incatenato alla montagna con le aquile che gli rodono perennemente il fegato, Prometeo reagisce con violenza e insolenza alla pena inflittagli da Zeus e ciò fa presagire che alla fine il padre degli dei dovrà scendere a patti con lui. Questo si verifica nel Prometeo liberato e avviene in forza del fatto che il potere sovrano ha bisogno di integrare al suo interno l’astuzia, deve cioè consolidare il suo potere puntellandolo con l’astuzia, con l’intelligenza pianificatrice e calcolante. Il nesso intercorrente tra il potere sovrano di Zeus e l’astuzia di Prometeo suggerisce anche il fatto che la politica sia originariamente prometeica, dal momento che Prometeo significa in greco “colui che vede prima” (promhqeuV), o anche “colui che riflette in anticipo”. Com’è noto, Prometeo ha un fratello, di nome Epimeteo, che in greco significa “colui che vede dopo” (epimhqhV), ossia a cose fatte: se la politica è per sua natura prometeica, la filosofia si presenta invece come epimeteica, giacché – per dirla con Hegel – spicca il suo volo sul far della sera, ovvero non può insegnare come il mondo debba andare, ma deve limitarsi ad indagare su ciò che è già compiuto, poiché solamente là si manifesta pienamente il razionale. Dobbiamo ora esaminare le posizioni sostenute dai filosofi nei confronti della menzogna, partendo dalla Repubblica di Platone e, in particolare, dalla fine del libro II e dall’inizio del III. Lo spunto per avviare il discorso ci viene da quanto abbiamo detto prima circa il mito, in quanto la posizione platonica si configura come altamente critica e polemica nei confronti di esso. Essendo la Repubblica un’opera innanzitutto finalizzata all’educazione dei cittadini e dei governanti, non stupisce il fatto che Platone attacchi i miti veicolati dalla tragedia greca, ravvisando in essi qualcosa di fortemente diseducativo: come è noto, questi contribuivano all’identificazione collettiva dei cittadini, poiché nelle rappresentazioni pubbliche si acquisiva la consapevolezza di essere una collettività, di avere origini comuni e della costante minaccia della guerra e proprio in ciò era racchiusa la funzione della tragedia attica, ancor prima della funzione catartica in essa individuata da Aristotele. A tal proposito, Platone esprime senza mezzi termini il suo dissenso, notando come le modalità attraverso le quali si persegue l’identità collettiva, cioè i miti, siano assolutamente fallimentari, giacché provocano ciò che dovrebbero scongiurare: il conflitto, la stasiV, la disunione. Essi finiscono dunque per alimentare nell’animo umano quei sentimenti di odio e di discordia che dovrebbero invece allontanare. Proprio sul finire del II libro, dopo aver diffusamente parlato della ginnastica e della musica, Platone tratta delle menzogne elaborate dall’arte, avvalorando quello che sarà poi il presupposto di Hannah Arendt, secondo cui il mentire è reso possibile dall’immaginazione:

 

«Ma nella nostra educazione non cominceremo prima dalla musica che dalla ginnastica?»

«Come no?»

«Nella musica», chiesi, «includi le opere letterarie oppure no?»

«Certo».
«Ed esse sono di due specie, l'una vera, l'altra falsa?»

 «Sì ».
«Allora l'educazione deve svolgersi in entrambi i campi, ma prima in quello falso?»

 «Non capisco cosa vuoi dire», rispose.
«Non capisci», ripresi, «che ai bambini raccontiamo innanzitutto delle favole? Ciò nel suo complesso è una
menzogna, che però contiene anche un fondo di verità. E noi insegniamo ai bambini le favole prima che la ginnastica».
«è così ».
«Ecco perché dicevo che bisogna praticare la musica prima che la ginnastica».
«Giusto», disse.
«E non sai che in ogni opera l'inizio è di fondamentale importanza, tanto più se si tratta di una creatura giovane e
delicata? È soprattutto a quell'età che ciascun individuo viene plasmato e segnato con l'impronta che gli si vuole
imprimere».
« Proprio così ».
«E permetteremo così , a cuor leggero, che i bambini ascoltino favole di bassa lega plasmate da persone qualsiasi e ricevano nell'anima opinioni per lo più contrarie a quelle che, a nostro giudizio, dovranno avere quando saranno divenuti adulti?»

«No, non lo permetteremo in nessun modo».
«Perciò, a quanto pare, dobbiamo innanzitutto sorvegliare i creatori di favole, scegliendo quelle composte bene e
scartando quelle composte male. Poi convinceremo le balie e le madri a raccontare ai bambini le favole che abbiamo approvato e a plasmare le loro anime con le favole molto più di quanto plasmino i loro corpi con le mani; ma bisogna rigettare la maggior parte delle favole che si narrano ai giorni nostri».
«Quali?», domandò.
«Nelle favole maggiori», risposi, «vedremo riflesse anche le minori. Infatti sia le une sia le altre devono avere la stessa impronta e produrre lo stesso effetto. Non credi?»

«Sì », disse. «Ma non capisco che cosa intendi per favole maggiori».
«Quelle che ci hanno cantato Esiodo, Omero e gli altri poeti
. Sono loro che hanno composto miti falsi e li hanno narrati, e li narrano tuttora, agli uomini».
«Quali sono», chiese, «e che cosa critichi in essi

«Ciò che bisogna criticare più d'ogni altra cosa», risposi, «tanto più se le menzogne narrate non sono neanche belle».
«E cioè

 «Quando nel racconto si dà una cattiva rappresentazione della natura degli dèi e degli eroi, come un pittore
che dipinge immagini per nulla simili a quelle che voleva riprodurre».      

 

Il raccontare favole è una pratica che si utilizza con i bambini – nota Platone -, cosicché è opportuno domandarsi se sia giusto oppure no raccontarle anche agli adulti, come hanno fatto Omero ed Esiodo: in tale ottica, Platone prende posizione per una rigida censura e non è un caso che in lui Popper scorga uno dei grandi nemici della “società aperta”. Le favole colme di menzogne narrate dai poeti non devono essere ascoltate dai giovani, al massimo possono udirle in segreto pochissimi uomini, giacché esse costituiscono un cattivo esempio nella misura in cui presentano gli dei come intenti a complottare o a guerreggiare fra loro; l’idea stessa di un Olimpo in cui regna la discordia e l’invidia non fa che infiammare nei cittadini l’odio e l’ira. È senz’altro curioso il fatto che Platone non si domandi se quelle raffigurazioni degli dei siano per davvero un’immagine dei complotti divini o se piuttosto non siano una proiezione dei conflitti umani, secondo quella posizione tematizzata da Feuerbach in L’essenza del cristianesimo, per cui la teologia non è se non un’antropologia ingigantita. Platone pone costantemente in risalto l’influsso negativo delle rappresentazioni poetiche e, facendo ciò, getta le basi per quella teologia razionale che tanto sarà apprezzata dagli autori cristiani. Che senso ha – egli si chiede – raffigurare gli dei come litigiosi, quando in realtà la divinità, nella sua bontà, non può in alcun modo danneggiare e far del male?

 

«Ora, se la divinità è realmente buona, non va definita in questi termini?»

«Come no?»

«Ma nulla di ciò che è buono è dannoso. O no?»

 «Mi pare di sì ».
«Quindi ciò che non è dannoso non arreca danno?»

«In nessun modo».
«E ciò che non arreca danno compie qualcosa di male?»

«Neanche questo».
«E ciò che non compie alcun male può essere causa di un male?» «E come potrebbe?» «Ma ciò che è buono non è forse utile?»

«Sì ».
«Ed è causa di benessere?»

«Sì ».
«Dunque ciò che è buono non è la causa di tutto, ma è responsabile solo del bene, non del male».
«Precisamente», disse.

«Quindi la divinità», proseguii, «essendo buona, non sarà la causa di tutto, come dice la gente, ma sarà responsabile di poche vicende umane, non di molte, perché i beni che noi possediamo sono molto minori dei mali; e mentre la causa dei beni non va ricondotta ad altri che alla divinità, per i mali si deve ricercare una causa diversa»

 

Da queste rapide battute affiora bene come la divinità non possa essere responsabile del male imperante nel mondo: in ciò è facile scorgere una netta differenza tra la teologia platonica e aristotelica, da un lato, e quella cristiana, dall’altro, nella misura in cui la prima imputa a Dio soltanto il bene del mondo. Ai tempi di Platone circolava facilmente la doxa, veicolata per bocca dei poeti tragici, secondo cui gli dei sarebbero causa tanto dei beni quanto dei mali, dispensati in maniera imperscrutabile e intelligibile per la mente umana. Da questo punto in avanti Platone comincia a parlare della menzogna in quanto tale, distinguendo in prima battuta tra menzogna reale e menzogna verbale:

 

« […] l'ignoranza insita nell'anima di chi è ingannato si può benissimo chiamare vera menzogna, poiché quella che si manifesta nelle parole è una copia dello stato in cui versa l'anima e un'immagine che nasce in un secondo tempo, non la menzogna pura. Non è così ?»

«Senz'altro», rispose.
«Perciò la vera menzogna è detestata non solo dagli uomini, ma anche dagli dèi».
«Mi sembra di sì ».
«E quella che si manifesta nelle parole? Quando e a chi è tanto utile da non meritare odio? Non lo diventa forse, come un farmaco, a scopo dissuasorio, quando i nemici e quelli che consideriamo amici cercano di compiere un'azione malvagia per un attacco di follia o per stoltezza? E nelle favole mitiche di cui abbiamo appena parlato, dato che ignoriamo come si sono veramente svolti i fatti antichi, non rendiamo utile la menzogna modellandola il più possibile sulla verità?»          

 

La menzogna reale è ignoranza dell’anima di chi è stato ingannato, ha uno statuto ontologico e profondo; la menzogna verbale, invece, è soltanto un’imitazione dello stato dell’anima e non una menzogna del tutto pura. Inoltre, la prima è rifiutata con pari forza da uomini e dei, mentre alla seconda, anch’essa estranea alle divinità, gli uomini ricorrono spesso. Proprio a questo punto il dialogo si interrompe e riprende nel libro III, anche se in un contesto un po’ diverso, dal momento che Platone attacca nuovamente i poeti tragici che sostengono cose false e inutili per la città. Abbiamo in precedenza visto come il mondo greco ammetta un uso selettivo della menzogna: ciò è vero anche in Platone, il quale, giocando sull’ambivalenza della menzogna verbale, introduce la possibilità di un mentire utile ai fini politici. La menzogna, infatti, può essere utile come farmakon, per usare una terminologia medica. Oltre al mentire del medico al paziente, Platone cita il caso della menzogna perpetrata dai governanti per fini politici: “a chi governa la città si addice mentire di fronte ai nemici o ai cittadini in funzione della città”. Sicché la menzogna è legittimata non solo coi nemici per agire strategicamente, ma anche coi concittadini in funzione del bene; resta però vero il fatto che se a mentire è un privato nei confronti dei governanti, si verifica allora una colpa assai più grave di quella del mentire del medico al paziente o del marinaio che non dice la verità sulla condizione della nave al capitano. Platone ricorre poi a un mito per rappresentare la condizione in cui si trova la poliV: fa riferimento [414 D] alla favola fenicia dei metalli di cui sono costituite le classi sociali che compongono la società, legittimando in tal maniera la comune derivazione di tutti i cittadini dalle “viscere della terra”.

 

Cercherò di persuadere innanzitutto i governanti stessi e i soldati, poi anche il resto della città, che essi avevano l'impressione di ricevere tutta l'educazione fisica e spirituale impartita da noi come in un sogno che accadesse attorno a loro, ma in realtà in quel momento erano plasmati ed educati nel seno della terra, essi, le loro armi e il resto del loro equipaggiamento già bell'è fabbricato; e quando furono interamente formati la terra, che era la loro madre, li portò alla luce. Per questo ora devono provvedere alla terra in cui vivono e difenderla come loro madre e nutrice, se qualcuno muove contro di essa, e considerare gli altri cittadini come fratelli nati anch'essi dalla terra».
«Non a torto», esclamò, «prima ti vergognavi a proferire questa menzogna!».
«E ne avevo ben donde!», risposi.

«Tuttavia ascolta anche il resto del mito. Voi cittadini siete tutti fratelli, diremo loro continuando il racconto, ma la divinità, plasmandovi, al momento della nascita ha infuso dell'oro in quanti di voi sono atti a governare, e perciò essi hanno il pregio più alto; negli ausiliari ha infuso dell'argento, nei contadini e negli altri artigiani
del ferro e del bronzo. Dal momento che siete tutti d'una stessa stirpe, di solito potete generare figli simili a voi, ma in certi casi dall'oro può nascere una prole d'argento e dall'argento una discendenza d'oro, e così via da un metallo all'altro. Ai governanti quindi la divinità impone, come primo e più importante precetto, di non custodire e non sorvegliare nessuno così attentamente come i propri figli, per scoprire quale metallo sia stato mescolato alle loro anime; e se il loro rampollo nasce misto di bronzo o di ferro, dovranno respingerlo senza alcuna pietà tra gli artigiani o i contadini, assegnandogli il rango che compete alla sua natura. Se invece da costoro nascerà un figlio con una vena d'oro o d'argento, dovranno ricompensarlo sollevandolo al rango di guardiano o di aiutante, perché secondo un oracolo la città andrà in rovina quando la custodirà un guardiano di ferro o di bronzo.

 

Platone racconta dunque una “nobile menzogna” nel momento in cui parla di tre diverse stirpi di uomini (d’oro i governanti, d’argento i guerrieri, di bronzo i lavoratori), tutte partorite dalla stessa terra e, per ciò, tutte tenute a proteggere il suolo della patria come se dovessero proteggere la loro madre. Pur riconoscendo una ferrei gerarchia sociale alla base della città, Platone ammette l’importanza dell’educazione per favorire la circolazione sociale all’interno della poliV, in maniera tale che anche i figli dei lavoratori possano diventare governanti. In questo modo, egli riconosce la validità, in sede politica, della menzogna o di quella che, in età successive, sarà chiamata “ideologia”. Passiamo ora da Platone ad Agostino, autore di uno scritto significativamente intitolato De mendacio: mentre la classicità greca fa della menzogna un uso selettivo, con la tradizione cristiana, che giunge fino alla modernità e trova un continuatore d’eccellenza in Kant, essa è messa definitivamente al bando e rifiutata in ogni sua forma. Il De mendacio è un’opera giovanile di Agostino, risalente al 395 d.C. e scritta per ragioni di ordine etico ed ermeneutico, anche al fine di arginare l’uso molto diffuso tra i cristiani dell’epoca – condizionati dalla cultura pagana – della menzogna, anche alla luce del fatto che l’Antico Testamento la presenta come ricorrente nella vita sociale. La posizione che affiora da questo testo è la seguente: per Agostino la menzogna dipende dall’intenzione dell’animo e non dalla verità o falsità delle cose; sicché è bugiardo non già chi dice il falso (poiché potrebbe dirlo anche l’ignorante), bensì chi agisce con doppiezza. Il tema della doppiezza della frode e di chi la compie, affrontato da Agostino, resta saldamente nella tradizione cristiana e moderna; ancora Dante così caratterizza la frode (Inferno XVIII, versi 7 e seguenti), impersonificata dal mostro Gerione:

 

E quella sozza immagine di froda

Sen venne, ed arrivò la testa e ‘l busto,

ma ‘n su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era faccia d’uom giusto,

tanto benigna avea di fuor la pelle,

e d’un serpente tutto l’altro fusto.

 

  Nel paragrafo 3 dell’opera, si dice significativamente che “non chiunque dica il falso mente, se crede vero ciò che dice”. Sulla scia di questa riflessione, Agostino procede a distinguere tra credere e opinare: talvolta ci accorgiamo di ignorare ciò in cui crediamo, ma, pur consapevoli della nostra ignoranza, non dubitiamo dell’oggetto in questione (Dio); al contrario, chi ha opinione crede di sapere quel che in realtà non sa.

 

Mente chi pensa una cosa e afferma con le parole qualcosa di diverso. Perciò si dice che chi mente ha un cuore doppio, ossia un doppio pensiero: ha un pensiero della cosa che sa o ritiene vera e che non dice, e un pensiero di quella che sa o ritiene essere falsa e dice al posto del primo”.     

 

È dall’intenzione dell’anima che bisogna giudicare se uno mente oppure no: questa riflessione, oltre a farci vedere come col cristianesimo invalga un’universale riprovazione del mentire, ci porta a focalizzare l’attenzione sulla volontarietà della menzogna. Essa si verifica infatti quando si sa una cosa ma non la si dice, e non la si dice perché non la si vuole dire; oppure quando si dice una cosa falsa perché la si vuole dire. Il tema della volontarietà, cardinale all’interno del cristianesimo, era stato in certo senso inaugurato da Paolo di Tarso, ma, nell’antichità classica, era stato ampiamente trattato da Aristotele stesso. All’inizio del libro III dell’Etica a Nicomaco [1110 A], egli distingue tra azioni volontarie e azioni involontarie: le seconde sono compiute per ignoranza, quando cioè il soggetto non sa quel che sta facendo, oppure per forza, ovvero sotto costrizione, e dunque il principio dell’agire è esterno, cosicché chi agisce in realtà sta subendo e non concorre al compimento dell’azione, è come se trascinato; Aristotele è in dubbio se annoverare tra le involontarie anche le azioni compiute per paura. E tanto la virtù quanto il vizio rimandano alla dimensione della volontarietà: sotto questo profilo, il sistema etico aristotelico getta le basi per pensare il comportamento fraudolento a partire dalla volontarietà, ancorché quest’ultima sia, nell’immaginario greco, poco accentuata, poiché non poggiante su quel modello creazionistico cristiano che tanto peso dà alla volontarietà. In una tale prospettiva, lo Stagirita dedica una trattazione alquanto ristretta alla menzogna (IV, cap.7): dopo aver trattato alcune virtù, egli parla della sincerità e, come è solito fare, tratteggia tale virtù specificando che essa è intermedia rispetto a due vizi configurantisi come eccessi; in particolare, la sincerità è mediana rispetto alla millanteria e all’ironia. Il millantatore – nota Aristotele – è colui il quale fa mostra di titoli di merito che non possiede, esagerando il suo controllo del mondo di cui in realtà è privo. D’altro canto, l’ironico è colui che nega e nasconde i titoli di merito di cui dispone attenuandoli: è, in altri termini, chi fa pratica di understatement al fine della captatio benevolentiae. Tra questi due estremi – l’ironico e il millantatore – si colloca la sincerità, che trova il suo opposto nella menzogna. Ciò che affiora da questa analisi aristotelica è la distinzione tra la “menzogna strumentale” e la “menzogna fine a se stessa”: la prima è funzionale a qualcos’altro (ad esempio, si mente per acquisire ricchezza o potere), mentre la seconda è fine a se stessa, è il mentire per il mentire. Leggiamo ora per intero il passo aristotelico:         

 

Pressappoco nel medesimo campo sta anche la medietà tra millanteria e ironia: ma anche questa è anonima. Non è poi tanto male esaminare anche tali disposizioni: anzi, conosceremo meglio ciò che riguarda il carattere, conducendo un esame particolareggiato, e saremo più persuasi che le virtù sono delle medietà, vedendo con uno sguardo d’insieme che è così in tutti i casi. Di coloro che nella vita di relazione impostano i loro rapporti in funzione del piacere e del dolore si è già parlato. Parliamo ora di coloro che sono veraci o mentitori allo stesso modo sia nelle parole sia nelle azioni, sia in ciò che pretendono di essere. Come si ritiene comunemente, dunque, il millantatore è uno che fa mostra di titoli di merito che non possiede o di più grandi di quelli che possiede; l’ironico, al contrario, nega i titoli di merito che ha o li attenua: infine, chi sta nel mezzo, schietto com’è, è sincero sia nella vita sia nelle parole, riconoscendo i titoli di merito che possiede, senza aumentarli né diminuirli. Ma in ciascuna di queste disposizioni è possibile agire sia per qualche scopo sia per nessuno scopo. Quale ciascun uomo è, tali sono le cose che dice e fa, cioè tale è il modo in cui vive, a meno che non agisca in vista di un qualche fine particolare. Per se stessa, poi, la falsità è cattiva e biasimevole, mentre la verità è per se stessa bella e lodevole. Così anche l’uomo sincero, poiché sta nel mezzo, è lodevole, mentre gli uomini falsi, in entrambi i sensi suddetti, sono biasimevoli, ma è più biasimevole il millantatore. Parliamo ora dell’uno e dell’altro, e per primo dell’uomo sincero. Non parliamo, infatti, di chi è sincero nei rapporti d’affari, né nelle situazioni pertinenti all’ingiustizia o alla giustizia (questo infatti riguarderà un’altra virtù), ma di chi è sincero nelle cose in cui, non avendovi lui alcun interesse, è sincero sia nelle parole sia nella vita, solo perché per intrinseca disposizione è fatto così. Si riconoscerà, poi, che un uomo simile è virtuoso. Infatti, colui che ama la verità ed è sincero in ciò che non ha importanza, sarà ancor più sincero in ciò che ha importanza: si guarderà infatti come da qualcosa di brutto dalla menzogna, che egli eviterebbe d’altra parte anche per se stessa: ed un uomo simile è lodevole. Egli, poi, inclina piuttosto verso l’attenuazione che non verso l’esagerazione della verità: questo, infatti, è più conveniente, per il fatto che gli eccessi sono spiacevoli. Colui, poi, che pretende di avere meriti più grandi di quelli che gli competono, senza avere alcun fine in vista, è simile ad un uomo dappoco (altrimenti non godrebbe del falso), ed è manifestamente più fatuo che cattivo: se invece ha in vista un fine particolare, chi lo fa in vista della gloria o dell’onore non è troppo biasimevole (è il caso del millantatore), ma chi lo fa per denaro o per ciò che procura denaro, è più vergognoso (d’altra parte il millantatore è tale non sulla base di una potenzialità, ma sulla base di una scelta: egli, infatti, è millantatore come conseguenza di una sua disposizione, cioè perché è fatto così). Così anche il mentitore: uno è tale perché gli piace la menzogna in sé, l’altro perché desidera fama o guadagno. Coloro che si vantano per desiderio di gloria fingono di avere meriti tali da suscitare lodi o felicitazioni, quelli invece che lo fanno per desiderio di guadagno fingono di avere meriti da cui il prossimo può trarre vantaggio e di cui è possibile tenere nascosta la mancanza; per esempio, l’essere indovino, sapiente, medico. Per questa ragione i più simulano tali cose e se ne vantano, perché in loro ci sono le caratteristiche suddette. Gli ironici, invece, poiché dicono meno della realtà, sono manifestamente più raffinati nei loro costumi: si ritiene, infatti, che non parlino in vista di un guadagno, bensì per evitare l’ostentazione. E, soprattutto, costoro negano di possedere titoli di merito, come faceva, per esempio, anche Socrate. Coloro, poi, che negano di possedere anche meriti piccoli ed evidenti sono chiamati impostori e sono più spregevoli. E talora si tratta manifestamente di millanteria, come, per esempio, nel caso dell’abbigliamento degli Spartani, giacché sia l’eccesso sia l’esagerato difetto sono segni di millanteria. Coloro, invece, che usano l’ironia con misura e che dissimulano meriti che non sono troppo comuni ed evidenti, sono manifestamente dei raffinati. Infine, è il millantatore che manifestamente si contrappone all’uomo sincero, perché è peggiore dell’ironico.

 

 


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