L'OTTOCENTO POST-HEGELIANO

A cura di Diego Fusaro




INDICE
INTRODUZIONE GENERALE
DESTRA E SINISTRA HEGELIANE
IL POSITIVISMO
L'EVOLUZIONISMO

INTRODUZIONE GENERALE

Con la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, si apre una questione di gran rilievo per la storia del pensiero: il sistema hegeliano, organico ed estremamente compatto, trova nel fatto stesso di essere un sistema un punto di forza ma anche di debolezza. Infatti, non appena ne "crolla" una parte, anche il resto entra inevitabilmente in crisi. Ed è proprio quel che avviene negli anni Trenta dell'Ottocento; sorge dunque, presso il "popolo degli intellettuali", l'assillante quesito: "come comportarsi nei confronti del sistema hegeliano?". L'Hegelismo si manifesta pertanto, dopo la scomparsa del filosofo che l'aveva elaborato, in differenti forme e correnti, di cui se ne possono individuare essenzialmente tre. La prima corrente è quella che si muove, sia pur criticamente, nell'ambito dell'hegelismo, rimanendo fedele ad esso. Questa corrente seguace del sistema hegeliano si dividerà, a sua volta, in Destra e Sinistra hegeliana. Il motivo di tale scissione tra i sostenitori del sistema hegeliano sarà essenzialmente dato dal fatto che in Hegel convivono tranquillamente la sfera rivoluzionaria ( ciò che è razionale è reale ), secondo la quale tutto ciò che è giusto deve essere realizzato, e la sfera conservatrice ( ciò che è reale è razionale ), secondo la quale le cose così come sono vanno bene, in quanto manifestazioni di una razionalità profonda. La Sinistra coglierà nella filosofia di Hegel il continuo cambiamento dialettico della realtà, leggendo in chiave progressista e spesso rivoluzionaria il motto 'tutto ciò che è razionale è reale'. La Destra, invece, guarderà con maggior simpatia al motto 'tutto ciò che è reale è razionale', dandone una lettura fortemente stagnante e conservatrice, ostile a cambiamenti di ogni sorta. E' però opportuno ricordare che la scissione tra Destra e Sinistra nacque, ancor prima che sul versante politico, su quello religioso: la Destra, legata ai valori della religione e della Chiesa, tenterà di fondare una scolastica hegeliana, ovvero un tentativo di apologizzare la religione cristiana attraverso i concetti dell'hegelismo. Hegel aveva, infatti, insistito sul fatto che i contenuti della sua filosofia e quelli della religione cristiana coincidessero; e, tuttavia, aveva anche sottolineato la superiorità della filosofia sulla religione, sostenendo che la filosofia esprime gli stessi contenuti della religione cristiana, ma ad un livello incommensurabilmente superiore. Ed è su questo che si basa la Sinistra hegeliana, convinta che ormai la religione fosse stata definitivamente superata dalla filosofia. Abbracceranno la causa della Sinistra hegeliana pensatori del calibro di Feuerbach, Engels e Marx, sicchè non è sbagliato affermare che il marxismo è una sorta di "eresia" dell'hegelismo. Ma, accanto a questa corrente (divisa in Destra e Sinistra) che segue criticamente gli insegnamenti di Hegel, vi è anche un nutrito gruppo di pensatori che si ribella al panlogismo hegeliano, alla sua esasperata ricerca della razionalità, rivendicando la natura irrazionale della realtà: aderiranno a questa corrente di pensiero Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche. Sul versante opposto, vi è poi un anti-hegelismo di stampo razionalistico: in sostanza, questa terza corrente di pensatori rinfaccia ad Hegel di aver elaborato una filosofia razionale in cui però la ragione in questione non è quella della scienza di tipo illuministico, ma è quella dialettica, in grado di dimostrare solo e soltanto che " il vero è l'intero " o che " il negativo è insieme anche positivo ". Questo terzo filone costituirà quella corrente di pensiero passata alla storia con il nome di Positivismo: tesi portante di questa corrente è l'identificazione totale della ragione e, in generale, di ogni conoscenza, con la scienza (a cui Hegel non aveva dato molto peso), come se ciò che esula dalla scienza non potesse costituire in alcun modo la conoscenza. Ricapitolando, le tre correnti che si affacciano sulla scena filosofica successiva ad Hegel possono essere così riassunte:

  • prosecutori dell'hegelismo, seppur criticamente: Destra e Sinistra.

  • anti-hegeliani sostenitori della superiorità della scienza in ogni ambito: Positivismo.

  • anti-hegeliani avversi ad ogni forma di razionalità: Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche.

    E' curioso che, proprio quando Hegel riteneva di aver chiuso definitivamente la storia del pensiero ( la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo ) sostenendo che con l'autotrasparenza della realtà attuata nella sua filosofia terminasse la filosofia stessa e cominciasse la sofia, fioriscano ben tre correnti diverse che riaprono da capo il discorso che Hegel riteneva chiuso. Karl Löwith, nell'opera " Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo " ha scorto nella filosofia che da Hegel giunge fino a Nietzsche e alla fine dell'Ottocento un processo rivoluzionario e di "rottura"; tuttavia, dice Löwith, se è vero che dalla filosofia di Hegel muoveranno i loro passi filosofi che prenderanno le distanze dal "maestro" ed elaboreranno pensieri tra loro opposti, è anche vero che in questo processo di frattura rivoluzionaria vi è un filone unitario, che accomuna i vari pensatori. Il fatto stesso che per tutti questi filosofi Hegel resti il punto di riferimento avvalora la tesi di Löwith: infatti, per i Positivisti e per gli "irrazionalisti" Hegel costituisce (per motivi opposti) un bersaglio contro cui scoccare i propri dardi velenosi, mentre per gli hegeliani alla Marx, il filosofo del Sistema resta un maestro a cui ispirarsi, un maestro di cui si può magari anche compiere il parricidio, come aveva fatto Platone con Parmenide, ma non è questo ciò che conta. Affiora bene, in sostanza, come Hegel resti al centro della riflessione filosofica a lui successiva: anche per chi lo rifiuta e lo disprezza cordialmente, egli resta pur sempre l'idolo negativo combattendo il quale si costruisce la propria filosofia. Si può poi ravvisare un elemento di unitarietà, oltre che nel fatto che Hegel resti il punto costante di riferimento, anche nel senso della concretezza che pervade le filosofie tra loro opposte di questi pensatori. Se nella terminologia hegeliana, per "concretezza" si doveva intendere il privilegiamento per il saper cogliere le cose nelle loro relazioni reciproche, cosicchè il pensiero era più concreto della materia, la ragione più dell'intelletto, ora tale termine si colora di un nuovo significato, al quale anche noi siamo abituati: e così, paradossalmente, tutti i pensatori successivi ad Hegel possono accusarlo di "astrattezza", quasi come se leggendo Hegel si avesse l'impressione che egli non stesse parlando di cose reali. Il termine "astratto" passa cioè a designare ciò che è sganciato dalla realtà, ciò che non è "concreto". E' quasi come se si attuasse un capovolgimento dialettico dei termini, per cui l'accusa infamante di "astrattismo" che Hegel muoveva all'Illuminismo, ora si ritorce contro di lui, seppur in una nuova accezione. Per citare degli esempi, in Marx "concretezza" vorrà dire che, pur accettando egli la dialettica hegeliana, la criticherà per il fatti di poggiare " sulla testa ", cioè sulle idee: si tratta pertanto, dice Marx, di mantenerla valida così come è, rigirandola però in modo tale che poggi non sulla testa, ma sui piedi, ovvero sulle condizioni materiali ed economiche; ne scaturirà un processo dialettico che non si realizzerà astrattamente sulle pagine dei libri, come l'aveva inteso Hegel, ma, al contrario, si svolgerà concretamente e in modo rivoluzionario sulle piazze. Discorso simile sul versante positivistico, dove si esalta la concretezza del sapere scientifico e del dato di fatto ( ecco perchè "Positivismo": dal latino positum , "ciò che è posto", ovvero il dato di fatto); si tratta di una contrapposizione netta al pensiero di Hegel, il quale, nella Fenomenologia dello spirito , aveva posto il dato di fatto ( da lui definito certezza sensibile ) al gradino più basso. Anche tra gli irrazionalisti serpeggia l'aspirazione alla concretezza e, per addurre un esempio, Schopenhauer insiste sul fatto che l'uomo non è " una pura testa alata d'angelo ", cioè non è puro spirito disincarnato, ma è essenzialmente un corpo e la natura di tale corpo consiste, soprattutto, nella volontà, nei desideri, negli istinti e nelle passioni, quelle cose, cioè, che Freud avrebbe più tardi definito come "pulsioni"; da notare che la rivendicazione che Schopenhauer fa della concretezza è in antitesi all'astrattezza hegeliana, come pure alla ragione, tanto cara ai Positivisti. Anche Feuerbach rivendica la matrice materiale e "concreta" dell'uomo, arrivando a sostenere che " l'uomo è ciò che mangia ", facendosi latore di un materialismo di rottura, per alcuni versi molto provocatorio. Nel caso di Kierkegaard (che rimprovera a se stesso la sua breve adesione iniziale alla filosofia di Hegel dicendo " Io, stupido hegeliano! "), poi, la ricerca esasperata della concretezza tenderà a manifestarsi come rivendicazione dell'esistenza singola: in Hegel si ha sempre l'impressione che, anche quando parla dell'uomo, in realtà non stia parlando di noi, sostiene Kierkegaard; da qui emerge il suo interesse per l'io come singolo, ovvero per l'io concreto, sganciato dalla nebulosa astrattezza in cui l'aveva avvolto Hegel. Del resto, osserva Kierkegaard, checchè ne pensi Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come umanità e spirito. Ed è con queste riflessioni maturate in Kierkegaard che comincia ad affiorare, seppur timidamente, il netto contrasto tra la concretezza dell'esistenza (l'io singolo) e l'astrattezza dell'essenza (l'umanità, lo spirito), contrasto già prospettato da Pascal e destinato a diventare centrale nella filosofia del Novecento con l'Esistenzialismo. Si può poi fare un breve cenno a Nietzsche, il quale in gioventù aderì alle tesi di Schopenhauer e, anche quando se ne distaccò, mantenne con esse un forte legame: infatti, il perno della sua filosofia è la volontà (concetto tipicamente schopenhaueriano) abbinata alla vitalità, contrapposte duramente al pensiero e, più in generale, alla ragione. Sempre Nietzsche rivendica anche quell'individualità già sostenuta da Kierkegaard: ed è per questo che Nietzsche è l'ultimo anello della catena che sancisce la frattura col pensiero di Hegel e, al tempo stesso, la sintesi delle concezioni più disparate emerse nel periodo post-hegeliano. Egli, da un lato, critica l'astratto in favore del concreto, salutando con entusiasmo la vitalità e la volontà di Schopenhauer (da lui cambiata nell'essenza e ribattezzata "volontà di potenza"), dall'altro lato pone l'accento sul problema dell'individuo sollevato da Kierkegaard, portandolo alle estreme conseguenze ed elaborando il mito del superuomo (con una bislacca commistione di elementi darwiniani). Tutte le riflessioni dei pensatori a lui precedenti, convivono in Nietzsche (spesso dando ibridi esplosivi quali il superuomo o la volontà di potenza) sotto un unico denominatore: la vitalità, il " ritorno alla terra" che egli caldeggia così spesso nei suoi scritti, contrapponendosi bruscamente all'astrattismo hegeliano. Tuttavia, oltre agli aspetti che in qualche modo legano tra loro questi pensatori post-hegeliani, bisogna saper anche cogliere le numerose differenze che li separano: per dirne una, se Kierkegaard rivendica la concretezza come individualità, Marx, invece, molto più hegelianamente, la rivendica come umanità, come classe sociale. Sarebbe pertanto sbagliato ritenere che questi pensatori abbiano concezioni del tutto uguali tra loro; come sarebbe anche sbagliato illudersi che le loro filosofie maturino tutte dopo la morte di Hegel. In realtà, alcuni di questi filosofi cominciano ad elaborare le loro filosofie mentre Hegel è ancora in vita. La prova lampante di ciò è data da Scopenhauer, il quale compone la sua opera più famosa ( Il mondo come volontà e rappresentazione ) nel 1819, in un clima di pieno trionfo dell'hegelismo: ed è sintomatico il fatto che le idee di Schopenhauer hanno fatto breccia presso il pubblico solo dopo la morte di Hegel, tant'è che la prima edizione de Il mondo (composta quando Hegel era ancora in vita) andò al macero. Si può, tra l'altro, ricordare come Schopenhauer desiderasse tenere le sue lezioni universitarie in contemporanea ad Hegel, ma tuttavia non potè farlo per il semplice motivo che non aveva studenti: tutti, infatti, andavano ad ascoltare con entusiasmo Hegel, non tenendo in alcuna considerazione Schopenhauer.

    DESTRA E SINISTRA HEGELIANE

    Come abbiamo accennato poc'anzi, la Destra e la Sinistra hegeliane nascono all'indomani della scomparsa del filosofo: un esponente dell'hegelismo, Strauss, definirà le due correnti opposte nate nell'ambito dell'hegelismo come "Destra" e "Sinistra" richiamandosi esplicitamente al parlamento francese. La Destra hegeliana, detta anche dei "vecchi" per il carattere marcatamente conservatore che la contraddistinse, si opponeva alla "Sinistra", detta anche dei "giovani" hegeliani in virtù del fatto che a comporla erano per lo più giovani progressisti: il primo motivo che portò le due "fazioni" a scontrarsi fu di materia religiosa. Hegel aveva, infatti, sostenuto che la filosofia e la religione esprimessero gli stessi concetti, ma aveva anche aggiunto che la filosofia li esprime in maniera decisamente migliore. Dall'ambiguità del discorso hegeliano, nasce la spaccatura tra Destra e Sinistra: la prima, tende a sottolineare l'identità di contenuti della filosofia e della religione, avvalorando in questo modo la religione; la Sinistra, dal canto suo, sottolinea come la filosofia sia per natura superiore alla religione, poichè quest'ultima, come aveva detto Hegel, può solo esprimersi attraverso narrazioni mitologiche. In altri termini, la Destra approva la religione poichè ne sottolinea l'identità di contenuti con la filosofia; la Sinistra, invece, è contraria alla religione poichè ne sottolinea l'inferiorità della forma rispetto alla filosofia. Ne consegue inevitabilmente che i seguaci della Sinistra si dedicheranno assiduamente all'indagine filosofica, mentre invece gli esponenti della Destra arriveranno ad anteporre la religione alla filosofia, cosicchè i loro contributi alla storia del pensiero sono pressochè irrilevanti. Ma la questione religiosa non è la sola a creare disaccordi tra gli hegeliani: se in Hegel convivevano ambiguamente la superiorità della filosofia rispetto alla religione in ambito formale e l'uguaglianza tra le due in ambito contenutistico, è anche vero che nel filosofo trovavano il loro spazio anche due concezioni della realtà contrapposte; da una parte, infatti, egli diceva che tutto ciò che è giusto perchè razionale deve essere realizzato, dando così una veste progressista al suo pensiero; dall'altra parte, invece, sosteneva che la realtà, così come è, è razionale e, in ultima istanza, giusta, dando così una colorazione conservatrice alla sua filosofia. Ora, come per quel che riguarda la religione, anche qui si crea una spaccatura: la Destra sostiene che tutto ciò che esiste è razionale e, pertanto, non deve essere cambiato; la Sinistra, invece, è del parere che tutto ciò che è razionale debba essere fatto diventare anche reale, in una prospettiva progressista e, talvolta, rivoluzionaria. Ricapitolando, i due punti di "disaccordo" tra Destra e Sinistra sono:

  • il rapporto religione-filosofia

  • il rapporto tra razionale e reale

    Sul versante religioso, merita di essere ricordato DAVID FRIEDRICH STRAUSS (1808-1874), convinto sostenitore della Sinistra, il quale dà del cristianesimo e della figura di Gesù un'interpretazione molto particolare: nell'opera Vita di Gesù (1835), recante lo stesso titolo di quella pubblicata a suo tempo da Hegel, egli sostiene, in netto contrasto con la tradizione, che la figura di Gesù sia il frutto dell'elaborazione mitologica dei cristiani. Strauss non mette in dubbio l'esistenza di Gesù, ma ciononostante è convinto che, paradossalmente, sia Gesù come elaborazione mitologica a derivare dal cristianesimo e non viceversa, come invece aveva sempre sostenuto concordemente la tradizione. Con queste riflessioni, Strauss può a pieno titolo rientrare nella sfera della Sinistra hegeliana, rivelando, tra l'altro, una certa tendenza (che sarà meglio espressa da Feuerbach) a naturalizzare il concetto di spirito, a riportarlo ad una dimensione immediata e calata concretamente nell'umanità. Altro grande esponente della Sinistra, fu BRUNO BAUER (1809-1882), curiosamente partito da posizioni proprie della Destra: nonostante le posizioni iniziali, egli si "converte" alla Sinistra ed espone la sua concezione della religione in La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo (1841). Con quest'opera, pubblicata anonimamente, egli attua una finzione letteraria, presentandosi come pensatore iper-conservatore e religioso e polemizzando aspramente con Hegel, accusato di essere ateo e anticristo. Con questo gioco intellettuale, Bauer vuole mettere in luce le tesi della Sinistra, facendo notare come se si vuole essere hegeliani non si può essere religiosi, poichè ciò che dice Hegel è inaccettabile per la religione: è dunque impossibile essere al contempo hegeliani e religiosi, come invece fanno gli uomini della Destra, ed è per questo che Bauer si dichiara apertamente ateo. Del problema politico si occupano soprattutto Ruge e Heine, i quali sottolineano (riprendendo concezioni illuministiche) come la Sinistra privilegi l'idea di una razionalità che deve a tutti i costi diventare reale: in quest'ottica, viene anche recuperato Fichte (molto più rivoluzionario di Hegel) e la sua concezione dinamica della realtà come tensione costante. Il succo del discorso di Ruge e di Heine è che se la Germania ha già fatto una rivoluzione sul piano intellettuale con il percorso che da Kant giunge fino ad Hegel, ora non resta che fare la rivoluzione sul piano politico ed è per questo che i pensatori della Sinistra guardano con particolare simpatia al liberalismo e alla democrazia, in un periodo particolarmente oppressivo e conservatore (siamo all'incirca nei foschi anni che di poco precedono il rivoluzionario 1848). Ed è curioso ricordare che, quasi sempre, gli esponenti della Sinistra furono emarginati dalle università, poichè il mondo accademico tedesco restava saldamente nelle mani degli hegeliani di Destra: non potendo esporre il loro pensiero nelle università, i filosofi della Sinistra si scatenarono (Ruge in prima persona) nella pubblicazione di riviste e giornali, per coinvolgere in modo democratico la società; ed è in questo contesto che muove i suoi primi passi il giovane Marx. La più serrata critica alla religione e uno dei più sentiti inviti ad abbracciare la causa democratico-rivoluzionaria in questi anni provengono da FEUERBACH (1804-1872), convinto sostenitore della Sinistra. Il punto da cui egli muove è la filosofia hegeliana e, soprattutto, il momento della "coscienza infelice" (Fenomenologia), dell'uomo medioevale che si sente radicalmente contrapposto a Dio e ne soffre. Feuerbach estende quest'infelicità all'intera religione (e non solo a quella medioevale), criticandola aspramente. Verso Hegel stesso egli è critico, poichè non può in alcun modo accettare che con Hegel termini la storia della filosofia: si propone pertanto di presentare una "filosofia dell'avvenire", ponendosi come superamento dialettico di Hegel stesso. Con queste considerazioni sullo sfondo, Feuerbach scrive la sua opera più importante, L'essenza del cristianesimo (1841): Schleiermacher aveva ragione, egli dice, a considerare la religione come sentimento di dipendenza dell'uomo nei confronti dell'Assoluto; ma tale Assoluto altro non è se non l'umanità stessa alienata. Infatti, non è vero (come invece afferma il cristianesimo) che Dio crea l'uomo a propria immagine e somiglianza; al contrario, è l'uomo che crea Dio a propria immagine e somiglianza, il che vuol dire (essendo Dio una "produzione" dell'uomo) che la teologia, cioè la scienza di Dio, è un'antropologia, ovvero una scienza dell'uomo. E perchè l'uomo "produce" un Dio a propria immagine e somiglianza? Feuerbach dice espressamente che l'uomo è dotato di qualità quali la potenza (il poter amare, agire, conoscere) e sente l'esigenza di prenderne coscienza; ma l'uomo di cui parla Feuerbach non è il singolo, ma è, molto hegelianamente, l'umanità, poichè l'uomo è davvero tale solamente in rapporto con gli altri, quasi come se, restando solo, egli non fosse davvero "uomo". Quelle facoltà che riferite ad un uomo erano finite, se estese all'intera umanità si moltiplicano all'infinito, cosicchè l'umanità, volendo prendere coscienza di sè e delle proprie infinite facoltà, si deve oggettivare, deve cioè proiettare fuori di sè le proprie caratteristiche per poterle così osservare come oggetto. Ed è con questo processo di oggettivazione (per molti versi simile al confronto tra autocoscienze tratteggiato da Hegel) che l'uomo crea Dio. Dunque, Agostino sbagliava a dire che nell'uomo si possono trovare tre nature poichè in Dio vi sono tre nature; al contrario, è corretto affermare che in Dio ci sono tre nature poichè nell'uomo vi sono tre nature: in altri termini, la somiglianza tra Dio e uomo si spiega nel fatto che l'uomo crea Dio. Ma la religione, nota Feuerbach, è stato un momento necessario nella storia dell'uomo e, proprio in quanto necessario, è stato giusto, anche perchè ha permesso all'uomo di prendere coscienza di sè. Tuttavia, il lato negativo di tutto ciò risiede nel fatto che l'oggettivazione è anche alienazione, vale a dire che l'uomo, creando Dio, è come se si fosse privato delle proprie facoltà, poichè ciò che viene dato a Dio viene inevitabilmente tolto all'uomo. Il problema che il pensiero moderno deve dunque affrontare consiste nel recupero della dimensione antropologica della religione, partendo dall'alienazione originaria con cui si è creato Dio. Una tendenza in questo senso, Feuerbach la scorge a partire dalla Riforma Protestante: con Lutero, infatti, Dio cessa di essere importante in sè, e diviene importante per ciò che è per l'uomo. La storia di riappropriazione della dimensione antropologica, avviatasi con Lutero, prosegue e culmina in Hegel, che però non è stato in grado di riconoscere l'autentica natura dell'umanità, bensì si è limitato a parlare di spirito o, tutt'al più, di umanità in termini troppo astratti. Feuerbach, invece, è ostile ad ogni astrattismo e quando parla di umanità, si riferisce non all'umanità spiritualizzata di Hegel, bensì a quella caratterizzata dall'esistere concretamente, quella cioè da cui siamo circondati e con cui abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana. Ed è per questo che Feuerbach può affermare in modo provocatorio che " l'uomo è ciò che mangia ", come recita il titolo di un suo scritto: bisogna recuperare l'uomo materiale e sensibile, non alienato in Dio, e la sensibilità stessa assume un valore gnoseologico profondo, poichè attraverso il corpo e il contatto con esso, dice Feuerbach, si penetra nell'essenza delle cose e delle persone. Il bisogno di rapportarsi materialmente con gli altri è naturale a tal punto che la dimensione sensibile diventa sensoriale, come se coi sensi si potesse conoscere profondamente la realtà, cosicchè nel rapporto "io-tu" che si instaura materialmente per recuperare l'umanità smarrita in Dio, il contatto fisico gioca un ruolo fondamentale e l'amore fisico diventa anch'esso una forma di conoscenza. Si potrebbe obiettare a Feuerbach il fatto che egli si sforzi di cercare la concretezza per poi fermarsi all'umanità, senza pervenire ai singoli individui (come faranno Kierkegaard o Stirner); la risposta a questa possibile obiezione è molto semplice: se Feuerbach avesse concentrato la sua attenzione sui singoli e non sull'umanità (che comunque egli intende nel più concreto dei modi possibili), non avrebbe potuto spiegare l'oggettivazione dell'uomo in Dio. Infatti, perchè vi sia un'oggettivazione in qualcosa di infinito (Dio), è necessario che ad oggettivarsi sia qualcosa di infinito, come è appunto la somma infinita delle facoltà dell'umanità, facoltà che se considerate finitamente nel singolo non potranno mai oggettivarsi in qualcosa di infinito. Non c'è poi da stupirsi se un acceso rivale della religione come è Feuerbach, finirà per dare una veste religiosa alle proprie idee: infatti, l'oggetto della sua religiosità resta sempre e comunque l'umanità concreta (mai Dio), immanente nella realtà, quasi come se l'oggetto della teologia diventasse l'umanità nel suo complesso. Le considerazioni religiose di Feuerbach si intrecciano con quelle politiche: egli sottolinea, infatti, il carattere pericolosamente conservatore della religione; in essa, l'uomo tende a diventare schiavo, a sentirsi dipendente da un'entità superiore, e uno schiavo incatenato nel "mondo delle idee" diventa inevitabilmente anche schiavo nella realtà materiale, quasi come se oltre ad essere schiavo di Dio diventasse anche schiavo di un padrone materiale. Ne consegue che la liberazione politica dell'uomo dovrà passare per l'eliminazione della religione: infatti, solo dopo la scomparsa della religione l'uomo cesserà di essere schiavo di Dio e, successivamente, dei padroni materiali. Diametralmente opposta sarà la concezione di Marx, secondo la quale " la religione è l'oppio del popolo " : secondo Marx, infatti, l'uomo ricorre alla religione perchè materialmente insoddisfatto e trova in essa, quasi come in una droga ("oppio"), una condizione artificiale per poter meglio sopportare la situazione materiale in cui vive. Per Marx, dunque, non è la religione che fa sì che si attui lo sfruttamento sul piano materiale (come invece crede Feuerbach), ma, al contrario, è lo sfruttamento capitalistico sul piano materiale che fa sì che l'uomo si crei, nella religione, una dimensione materiale migliore, nella quale poter continuare a vivere e a sperare. Ne consegue che se per Feuerbach per far sì che cessi l'oppressione materiale occorre abolire la religione, per Marx, invece, una volta eliminata l'oppressione, crollerà anche la religione, poichè l'uomo non avrà più bisogno di "drogarsi" per far fronte ad una situazione materiale invivibile. Si può anche fare un cenno al rapporto che intercorre tra Hegel, la Sinistra hegeliana e Marx: se Hegel vedeva i processi meramente a livello ideale, con la Sinistra hegeliana si afferma la convinzione che le idee servono per trasformare la realtà, nella convinzione che il razionale debba diventare reale; in altri termini, con la Sinistra la rivoluzione ideale diventa premessa per la rivoluzione materiale. Marx, invece, sostiene che si debba dialetticamente cambiare non il mondo delle idee (poichè, cambiate le idee, le condizioni materiali non cambiano), bensì bisogna cambiare il mondo materiale e, cambiandolo, cambieranno anche le idee. Marx non è d'accordo con quella che definisce "ideologia tedesca" (cioè con quel mondo che parte da Hegel e giunge fino alla Sinistra), poichè secondo lui le idee, di per sè, non sono in grado di cambiare le cose: al contrario, bisogna prima cambiare le cose, e poi cambieranno pure le idee; e il primo atto filosofico per costruire una "filosofia dell'avvenire" consiste nel mutare il mondo con la rivoluzione a mano armata, grazie alla quale spariranno le vecchie idee (tra cui la religione) e ne nasceranno di nuove. Ecco perchè Marx può dire che " fino ad oggi i filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo, si tratta ora di cambiarlo " e che " bisogna sostituire alle armi della critica la critica delle armi ", nella convinzione che l'unica vera critica la si fa con le armi sulle piazze. Al di là delle posizioni appena tratteggiate, troviamo anche chi scorge nell'individuo la massima espressione della concretezza ed arriva a sostenere posizioni anarchiche: in questa prospettiva, troviamo le figure di MAX STIRNER (1806-1856) e MICHAIL BAKUNIN (1814-1876), accomunati dal concetto di "individualismo"; entrambi respingono tanto l'astratto spiritualismo hegeliano, quanto l'umanità di Feuerbach e la classe di Marx, ritenute anch'esse troppo astratte. Nelle filosofie di Bakunin e Stirner aleggia la convinzione che, in fin dei conti, a contare e ad aver diritti sia solo il singolo, per cui non ha senso parlare di "Stato etico" superiore ai singoli (come aveva fatto Hegel) o di "umanità" (come fa Feuerbach). Al contrario, solo il singolo individuo ha diritti ed è degno di essere indagato filosoficamente: se Bakunin si qualificò sempre come anarchico e partecipò perfino alla Prima Internazionale, Stirner, invece, non si è mai occupato di politica in senso stretto, anche se la sua filosofia ha ispirato maggiormente le ali di estrema destra per via delle posizioni accesamente individualistiche da lui propugnate. L'anarchia può infatti essere appannaggio tanto delle sinistre quanto delle destre ed è per questo che se la Sinistra, ispirandosi a Bakunin, mira all'individualismo come estrema libertà, la Destra, invece, (ispirandosi a Stirner) tende all'individualismo come superiorità del singolo sulle masse. In L'unico e la sua proprietà (1844), Stirner arriva a sostenere che ad esistere è solo l'individuo e ciò che per lui conta è, paradossalmente, solo lui stesso; tutto il resto (le cose, gli animali e perfino gli altri uomini) è solo uno strumento per l'affermazione di sè. Il mondo stesso viene concepito come strumento volto ad attuare la realizzazione del singolo. Sull'altro versante, Bakunin elabora anch'egli un anarchismo individualista, ma rimane nell'alveo dell'anarchismo di ispirazione socialista (proponendo, ad esempio, l'autorganizzazione), ma rispetto a Marx nutre molti sospetti verso la dittatura del proletariato, temendo che essa possa trasformarsi in stato autoritario. Infatti, Bakunin sostiene che bisogna abolire, anche violentemente, lo Stato, in quanto sinonimo di dominio coercitivo e di disuguaglianza; tutto ciò, portava Bakunin a privilegiare il sotto-proletariato, del tutto disorganizzato e per ciò in grado di agire spontaneamente in chiave rivoluzionaria e di rovesciare lo Stato. Marx, che nutriva profonda antipatia per Bakunin (peraltro cordialmente ricambiata), non esitò a definire utopistico tale progetto, contrapponendo ad esso il proprio, incentrato sulla dittatura del proletariato. Ma Bakunin ebbe ragione a temere una degenerazione autoritaria della dittatura del proletariato: la dittatura staliniana ne fu la conferma.

    IL POSITIVISMO

    Affermatosi già nella prima metà dell’Ottocento, ma sviluppatosi irresistibilmente soprattutto nella seconda, il Positivismo è un movimento culturale che, nato presso un gruppo elitario di intellettuali, tende sempre più a prendere piede presso la borghesia, a tal punto da caratterizzarsi come corrente di pensiero “di massa”; ma proprio quando comincerà a diventare un modo di pensare comune presso gli strati sociali più bassi, il popolo degli intellettuali l’avrà già abbandonato, preferendogli l’irrazionalismo e il decadentismo. Il paradosso di questa ambiguità culturale per cui le masse pensano in modo positivistico e gli intellettuali prediligono l’irrazionalismo verrà a galla nel concetto di razza, affermatosi prepotentemente nella seconda metà dell’Ottocento: si tenterà infatti di spiegare in modo assolutamente razionale (ricorrendo alla biologia) un qualcosa come la “razza” che, in realtà, sfugge ad ogni sorta di razionalità, e anzi si oppone ad essa. I tre eroi del pensiero positivistico sono il francese Auguste Comte (1798-1857) e gli inglesi John Stuart Mill (1806-1873) e Herbert Spencer (1820-1903): i Paesi d’origine sono particolarmente significativi se teniamo conto che l’uno è all’avanguardia sul piano industriale (l’Inghilterra) e l’altro sul piano dello sviluppo scientifico (la Francia) e il Positivismo altro non è se non la filosofia della rivoluzione industriale e della scienza. In particolare, nella Francia napoleonica era fiorita la scuola politecnica, caratterizzata da un orientamento spiccatamente tecnico-scientifico: in sostituzione alla Sorbona, che aveva il suo asse portante nell’insegnamento di teologia, era stata fondata l’Ecole normale e, in un secondo tempo, fu istituita l’Ecole politechnique, concernente le discipline fisiche. A testimonianza dei grandi successi ottenuti dalle scienze, si possono addurre parecchi esempi: il piemontese Joseph-Louis Lagrange (1736-1818) si era servito (in Meccanica analitica , del 1811) del calcolo infinitesimale per attuare una compiuta matematizzazione della meccanica, riformulando i concetti di velocità, accelerazione, forza e via discorrendo nei termini di derivate e integrali di funzioni; grandi conquiste furono anche realizzate da Joseph Fourier (1768-1830), il quale diede una formulazione matematica, attraverso equazioni e funzioni di coordinate spaziali e temporali, della propagazione del calore attraverso i corpi e il vuoto. La termodinamica, come calcolo della quantità di lavoro ottenibile da determinate quantità di calore, ricevette una sua prima formulazione da parte di Sadi Carnot (1796-1832), il quale individuò il presupposto del cosiddetto “primo principio della termodinamica”, ovvero il fatto che la trasformazione del calore in energia meccanica comporta una dispersione termica. Sul concetto di corrente elettrica come quantità misurabile, André-Marie Ampère (1775-1836) pose i fondamenti dell’elettrodinamica con la sua Teoria dei fenomeni elettrodinamici (1828). Particolarmente interessante e significativa, poi, è la figura di Pierre Simon de Laplace (1749-1827), il quale (in Esposizione del sistema del mondo , del 1796) elaborò, parallelamente a Kant, l’ipotesi dell’origine del sistema solare a partire da una nebulosa primitiva; alla base della sua cosmologia, basata sulla non-necessità di ricorrere all’ipotesi di un Dio che intervenga nel mondo, vi è una concezione rigidamente meccanicistica, secondo la quale ogni stato o evento dell’universo è conseguenza di stati ed eventi precedenti e, a sua volta, causa di quelli successivi; sicchè se si conoscesse lo stato di materia nell’universo in un dato momento, si potrebbero ricostruire meccanicamente tutti i momenti successivi e precedenti della materia. Ma Laplace è anche stato il fondatore moderno del calcolo probabilistico, il che sembrerebbe una contraddizione: come è possibile che, dopo aver sostenuto che tutto procede secondo il più rigido meccanicismo, egli ripieghi (in Teoria analitica delle probabilità , del 1812) su un calcolo basato non sulla certezza ma sulla probabilità? Tutto si spiega se teniamo presente che il meccanicismo e la conoscenza impeccabile che ne dovrebbe derivare funzionerebbe solo se fossimo dotati di una mente super-potente in grado di raccogliere e contenere tutti i dati possibili sullo stato della materia; ed è in assenza di questo strumento che bisogna accontentarsi non di verità inconfutabili, ma di probabilità. In altri termini, la necessità di formulare previsioni probabili dipende esclusivamente dall’ignoranza dei dati necessari per una previsione certa. Molto diverso sarà l’atteggiamento che assumerà su queste questioni il fisico novecentesco Heisenberg, il quale elaborò il “principio di indeterminazione”: esso prescrive che non si può calcolare contemporaneamente con precisione sia la posizione sia lo stato di movimento di una data particella. Ne consegue che se per Laplace tutto avviene in maniera rigorosamente meccanicistica ma si deve ricorrere al calcolo probabilistico perché non si hanno a disposizione strumenti adatti, per Heisenberg, invece, è assolutamente impossibile determinare insieme i due stati (posizione e movimento), indipendentemente dalle nostre facoltà. E Laplace, con la sua esasperata fiducia nel determinismo e nella scienza, rappresenta il modello positivistico e la formulazione più compiuta del meccanicismo come forma di conoscenza certa; è da queste considerazioni di carattere scientifico che muove i suoi passi il Positivismo, così battezzato da Comte (anche se il termine fu per la prima volta impiegato da Saint-Simon nel Catechismo degli industriali , del 1822). Il termine “Positivismo” viene con Comte a rivestire diversi significati, il che però non esclude la loro sostanziale convergenza: la polisemia del termine “positivo” non esprime altro che le differenti valenze, miranti tuttavia ad un unico scopo, del pensiero positivistico. In Discorso sullo spirito positivo (1844) Comte scrive che, nella sua accezione più antica e comune, “ la parola positivo designa il reale, in opposizione al chimerico ” , con la certezza (e per molti versi quasi l’illusione) che vi siano dati immediati assolutamente certi forniti dall’esperienza. Non a caso, il termine “positivo” deriva dal latino “ positum ”, participio passato del verbo porre e pertanto fa riferimento ai dati sensibili immediati, quelli contro i quali, nella Fenomenologia dello spirito , Hegel ci aveva messo in guardia, facendo notare come la certezza sensibile, ovvero il dato di fatto, se scavato un po’ più in profondità, è tutt’altro che una certezza. Quando percepisco una cosa, la mente non ha ancora cominciato a lavorarci sopra (e quindi non mi ha ancora potuto ingannare) e dunque parrebbe essere una vera e propria certezza. Tuttavia, fa notare Hegel, quando percepisco qualcosa, non posso ancora dire che percepisco una penna o una matita, ad esempio, ma devo limitarmi a dire che percepisco “un questo”, ovvero una singola cosa non meglio identificata: dire che percepisco una penna significa fare un passo avanti, significa inquadrare con l'intelletto quel qualcosa in una categoria. Potrò dire, per restare nella certezza sensibile, che percepisco “un questo” e nulla più: se ne evince che la conoscenza che in apparenza era la più solida ricca, si rivela invece, se meglio analizzata, esattamente il contrario, una vuota percezione. Ma i positivisti non sono affatto d’accordo con Hegel, e anzi vogliono porsi come recupero della scienza intellettuale illuministica, e non accettano la “banale” razionalità hegeliana. Nell’ambiente positivistico aleggia la convinzione che l’unico sapere valido sia quello scientifico e la scienza in questione è quella di matrice galileiana e newtoniana. Galileo stesso, del resto, aveva sottolineato come ci si dovesse occupare degli oggetti indagabili con certezza, rinunciando all’indagine di quegli aspetti della realtà non investigabili con altrettanto rigore: e i Positivisti, seguendo alla lettera l’insegnamento galileiano, dirigono le loro indagini sull’unico sapere certo possibile: la scienza, basata sui dati di fatto. Pertanto nel Positivismo è costante la fede (respinta da Hegel) nel dato di fatto, e proprio in virtù di questa fede si caratterizza per essere, in qualche misura, una filosofia un po’ ingenua e pronta ad accettare acriticamente il sapere scientifico. Ma il termine “positivo”, precisa Comte, designa anche il contrasto tra utile ed inutile: la filosofia positivistica, egli dice, deve essere volta “ al miglioramento continuo della nostra vera condizione, individuale o collettiva, invece che alla vana soddisfazione di una sterile curiosità ” . Con queste considerazioni, Comte riprende l’idea baconiana secondo cui “sapere è potere”, ovvero è del parere che un sapere, per essere degno di tale nome, debba dare certezze e che le uniche certezze conquistabili siano quelle della scienza (in questo, Comte rivela una certa adesione alle tesi cartesiane). Positivo, dunque, sarà anche ciò che è preciso e non vago: si dovranno pertanto rifiutare in modo sistematico tutti i concetti vaghi, che significano tutto e il contrario di tutto; ed era stato proprio Bacone stesso a mettere in luce come uno dei maggiori rischi per la conoscenza umana sia la vaghezza di certi termini del linguaggio comune. Infine, in una quinta accezione, il termine “positivo” viene da Comte contrapposto a quello “negativo”, facendo riferimento ad una forte valenza sociale: il compito fondamentale della filosofia, secondo il filosofo francese, è quello di organizzare la società e non di distruggerla, come credono altre correnti filosofiche. Anche in questo si può scorgere una netta antitesi rispetto all’hegelismo dilagante in quegli anni: se alcuni pensatori (Marx ed Engels) avevano reagito alle eccessive astrazioni di Hegel riducendo la dialettica ad un ambito meramente materiale, e altri (Schopenhauer in primo luogo) si erano opposti al panlogismo arrivando paradossalmente a negare ogni valore conoscitivo alla scienza, i Positivisti, dal canto loro, rivendicano il primato della scienza; il loro atteggiamento tende addirittura a sfumare nello “ scientismo ”, ossia nella convinzione che la scienza sia l’unico sapere valido. Naturalmente, non si tratta dell’atteggiamento scientifico di chi riconosce la fondamentale importanza della scienza, pur ammettendo altre forme di sapere: per i Positivisti l’unica forma di sapere è inequivocabilmente la scienza. Proprio in questo risiede l’opposizione positivistica a tutte le filosofie romantiche maturate in quegli anni e la forte simpatia per l’Illuminismo e per il suo interessamento per le conoscenze utili e precise. Tuttavia, vi è una differenza nettissima: sia l’Illuminismo sia il Positivismo sono espressioni filosofiche di quella borghesia tutta affaccendata nella produzione industriale e scientifica ( L’Enciclopedia degli illuministi si configurava, per molti aspetti, come una raccolta di dati tecini), tuttavia dal 5° significato (Positivo = organizzazione della società) del termine “Positivo” scaturisce l’inconciliabilità dei due movimenti. L’Illuminismo, infatti, era una filosofia radicalmente critica e rivoluzionaria, sempre pronta a mettere in discussione la società presente (e la Rivoluzione Francese ne è l’esempio lampante); viceversa, il Positivismo è funzionale alla società cui è contemporaneo, non vuole criticarla per guardare al futuro. Ecco perché Comte è, contemporaneamente, conservatore in politica e progressista sul piano scientifico: egli è il portavoce della borghesia del suo tempo, che dopo aver realizzato la sua rivoluzione, si era cristallizzata nel conservatorismo e nulla desiderava più del mantenimento delle forme politiche in vigore. In altri termini, tutte e due sono filosofie della borghesia, ma la borghesia del Settecento è, marxianamente, rivoluzionaria e interessata a spodestare l’aristocrazia, mentre la borghesia dell’Ottocento, realizzata quella rivoluzione tanto agognata e salita al potere, ha perso ogni spinta rivoluzionaria. E la condizione materiale della borghesia si riflette sulle filosofie che ne esprimono i valori: l’Illuminismo è rivoluzionario, il Positivismo è un illuminismo conservatore, che accetta acriticamente la società esistente (questo vale soprattutto per Comte). Merita di essere meglio analizzato il rapporto con le filosofie romantiche: quando Comte asserisce che il Positivismo è affermazione del reale in opposizione al chimerico, il chimerico in questione è proprio quello delle filosofie romantiche; tuttavia, nonostante l’accesa intenzione di distaccarserne, il Positivismo è pur sempre un figlio dell’era romantica e lo si può evincere dalla fede costante nell’Assoluto, inteso non come l’avevano inteso (in modo metafisico) Fichte, Schelling e Hegel; al contrario, l’Assoluto a cui aspirano i Positivisti è la scienza, che, non a caso, viene da loro assolutizzata e tende a scivolare nello scientismo che, come la religione, finisce per essere una fede. Resta da chiedersi quale posto occupi per i Positivisti la filosofia: avendo vivamente sostenuto che all'infuori della scienza non vi è vera conoscenza, pare che essi siano costretti dal loro stesso pensiero a sancire il rifiuto della filosofia in quanto sapere non scientifico. Il Positivismo in generale, sotto questo profilo, è una filosofia, per così dire, suicida, giacchè, nel proclamare la scienza unica forma di sapere, non fa altro che delegittimare il sapere filosofico. In realtà, quasi tutti i Positivisti, chi più e chi meno, riconoscono qualche campo di indagine alla disciplina filosofica (campo che varia da pensatore a pensatore), anche se, generalmente, si tratta di un margine piuttosto ristretto e subordinato alla scienza, di cui finisce per essere un completamento. Gli atteggiamenti adottati in merito dai Positivisti, sebbene piuttosto variegati, possono essere considerati tre. Il primo è quello proposto da Comte, secondo cui la filosofia altro non è se non una classificazione e una storia della scienza (ed è proprio ciò che egli fa nei suoi scritti), con l'inevitabile conseguenza che la filosofia si riduce ad epistemologia (studio della scienza e riflessione su di essa). E' una concezione piuttosto riduttiva della filosofia, ma tuttavia si mantiene nell'alveo della tradizione platonico-aristotelica: ad esempio, se la matematica lavora coi numeri, spetta alla filosofia indagare sulla loro essenza. Del secondo atteggiamento è vessillifero John Stuart Mill: si tratta di un atteggiamento abbastanza simile a quello di Comte, ma comunque caratterizzato da una maggiore attenzione per i problemi logico-metodologici: la filosofia viene cioè ridotta a pura logica e metodologia, ovvero è tenuta a riflettere sui metodi e sulla logica dell'opera scientifica (e non è un caso che la principale opera di Mill si intitoli Logica ). Il terzo ed ultimo atteggiamento, proposto da Spencer, è quello che più di tutti dà peso alla filosofia, ma che tende anche di più a ridurla a scienza: in definitiva, per Spencer e per gli altri Positivisti che la pensano come lui, la filosofia è una specie di super-scienza; ciascuno di noi, infatti, ha le sue esperienze quotidiane e tende a generalizzarle per trarne delle regole di comportamento (e la scienza fa la stessa cosa, in maniera sistematica, per quel che riguarda la natura), ma poi, al di là delle leggi relativamente generali, è possibile individuare leggi generalissime che non valgono per un campo della realtà piuttosto che per un altro, ma, viceversa, valgono per tutta quanta la realtà. Proprio di queste leggi generalissime, valide per l'intera realtà, si occupa la filosofia. E proprio in virtù di questa concezione, Spencer e quelli del suo seguito tendono ad essere riduzionisti, ovvero a nutrire la convinzione che tutte le scienze siano riconducibile ad una sola scienza, la filosofia. Sono riduzionisti, in altre parole, perchè nutrono la convinzione che vi siano leggi generalissime valide per ogni realtà di cui le leggi studiate dalla scienza sono derivazioni particolari, come se, in ultima istanza, tutte le scienze fossero derivazioni particolari della super-scienza filosofia. La filosofia come la intendono questi pensatori , pertanto, svetta tra tutti i saperi, ma, qualitativamente, non è diversa dalle altre scienze. Con Spencer, poi, affiora l'elemento che forse più contraddistingue il Positivismo rispetto al razionalismo seicentesco e settecentesco: se è vero che in comune hanno il marcato interesse per le scienze (a tal punto da arrivare a considerarle spesso come unico sapere valido), tuttavia è diverso il tipo di scienza a cui fanno appello. Infatti, quando la filosofia prende come modello di indagine la scienza, tende sempre a scegliere quella più in voga al momento, cosicchè se ai suoi tempi Platone si era servito della scienza medica di matrice ippocratea, i filosofi del Seicento e del settecento, invece, avevano preferito la fisica matematizzata di stampo galileiano e newtoniano, e il "Discorso sul metodo" di Cartesio ne è una prova lampante, poichè il pensatore francese afferma esplicitamente di aver ravvisato nella matematica il vero modello conoscitivo. Spencer e i Positivisti, dal canto loro, vivono in un'epoca in cui sulla fisica newtoniana è prevalsa la biologia, maggiormente in sintonia con gli slanci vitalistici tipici dell'età romantica: ecco perchè, a differenza dell'Illuminismo e del razionalismo, il Positivismo sceglie la biologia e, in particolare, Spencer estende l'evoluzionismo biologico all'intera realtà. Finora abbiamo concentrato la nostra attenzione sul panorama positivistico francese; ma, come accennato, anche al di là della Manica la nuova corrente di pensiero andava sempre più affermandosi, tuttavia con un'enorme differenza: in Inghilterra il passaggio da Illuminismo a Positivismo è, più che da ogni altra parte, diretto. Certo, anche lì si era assistito al sorgere del movimento romantico, ma non in modo così radicale come sul continente: in tutta l'Europa continentale, infatti, il Romanticismo era nato come reazione all'illuminismo e al suo culto della ragione e, a sua volta, il Positivismo si era, hegelianamente, presentato come "negazione della negazione", ossia come ripristino dell'Illuminismo ad un livello superiore (benchè, in realtà, l'Illuminismo fosse per molti aspetti, poc'anzi illustrati, superiore al Positivismo). Tutto ciò in Inghilterra è vero solo in parte, dove è come se dall'Illuminismo si saltasse direttamente al Positivismo, bruciando la tappa romantica. Questa continuità di pensiero che in Inghilterra lega le due età, quella dei lumi della ragione con quella dello scientismo, può anche essere scorta nelle vicende familiari di John Stuart Mill: suo padre, James Mill (1773-1836), vive a cavallo tra il Settecento e l'Ottoccento ed elabora una teoria della conoscenza come associazione di idee che inciderà in modo determinante sul pensiero del figlio. Un altro grande pensatore di quegli anni, Jeremy Bentham (1748-1832), dà una piena formulazione di quello che sarà uno dei capisaldi del Positivismo: l' utilitarismo . Esso altro non è se non quella tesi etico-politica basata sull'idea che il fondamentale valore etico da perseguire sia la ricerca della felicità, intesa come somma dei piaceri; per raggiungerla, occorre effettuare, in una maniera che evoca l'antico epicureismo, un calcolo dei piaceri. Ma l'utilitarismo non implica puramente la ricerca del piacere immediato (ed è in questo che si distingue dall'edonismo), bensì sostiene la ricerca del piacere differito e, soprattutto, la felicità come somma di piaceri non viene intesa su un piano esclusivamente individuale, ma, al contrario, come felicità collettiva, destinata al maggior numero possibile di persone (quest'idea era vivissima anche nell'Illuminismo di Beccaria, ad esempio). In altre parole, si deve cercare di agire in maniera tale da promuovere la felicità massima per il maggior numero possibile di uomini ed è per questo che i sostenitori dell'utilitarismo si rifanno, oltrechè all'Illuminismo, al liberalismo. Si tratta però di un liberalismo concepito in maniera diversa da autore ad autore: il pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834), dopo aver sostenuto, a seguito di una lucida analisi, il crescente divario in atto tra la crescita demografica e quella delle risorse per la sussistenza, si faceva portavoce di un liberalismo radicale e sfrenato, secondo cui ogni singolo individuo è e deve essere libero e privo di assistenza e solidarietà, in modo tale che a prevalere siano i più forti, a soccombere i più deboli. Negli stessi anni di Malthus, un altro celebre pensatore, David Ricardo (1772-1823), era in disaccordo con l'estremismo del pastore anglicano e metteva in forse le teorie eccessivamente liberiste di Adam Smith: "sarà poi vero che esiste quella mano invisibile (ipotizzata da Smith) che, anche se ciascuno persegue legittimamente i propri interessi personali, alla fine aiuta tutti?" sembra chiedersi Ricardo. Da ultimo, John Stuart Mill presenta il liberalismo sotto una luce più progressista (e più umana), pur senza accostarsi al socialismo (che anzi criticherà aspramente): Mill nutre, infatti, la convinzione che si debbano orientare il mercato e la società in una direzione che possa realizzare la maggiore felicità possibile per il maggior numero di uomini (e le tesi di Malthus non spingono certo in tale direzione). In altre parole, l'economia, secondo i dettami del liberismo più genuino, va lasciata al suo corso affinchè produca il più possibile; ma poi, in ambito politico, bisogna invece intervenire per realizzare una più equa distribuzione delle ricchezze.

    L'EVOLUZIONISMO

    Il grande impulso ricevuto dallo sviluppo delle scienze tra Sette e Ottocento non interessò soltanto le scienze esatte, come la matematica, la fisica, l’astronomia e la chimica, ma anche l’ambito delle scienze della vita: a questo sviluppo delle scienze naturali è strettamente connesso uno dei dibattiti scientifici che maggiormente influirono sulla cultura filosofica ottocentesca: la discussione sulla trasformazione della specie, ovvero il dibattito sull’evoluzionismo. E quando si parla di evoluzionismo, salta subito alla mente quello formulato da Darwin, ma in realtà si tratta di un qualcosa di più generale che investe anche la politica e la sociologia: infatti, l’idea dell’evoluzione delle cose nel tempo, per cui sopravvive solo ciò che è più adatto, ha molto influito sulle concezioni politiche del tempo, soprattutto in senso moderatore, poiché emerge la tesi secondo la quale anche nella società, così come nel mondo animale, vi sia una gradualità evolutiva che permette di giustificare il riformismo socialista. Ed è però anche vero che l’idea della selezione del più adatto ha molto inciso anche sulle concezioni politiche di colore opposto: soprattutto l’estrema Destra ha finito per cogliere nelle tesi evoluzionistiche una sorta di legge del diritto del più forte, per cui ha diritto a vivere solo chi si dimostra superiore agli altri. Dalla bislacca commistione delle tesi evoluzionistiche con quelle nietzscheane del superuomo, poi, nascerà un ibrido esplosivo che porterà molti pensatori schierati sull’estrema Destra a celebrare la guerra come strumento in grado di selezionare i “superuomini”. Sul versante comunista, invece, vi sarà chi vedrà evoluzionisticamente la classe operaia come la più adatta a sopravvivere e scorgerà nella rivoluzione il solo mezzo per realizzare la selezione. Ma che cosa si intende per “evoluzionismo”? Tale concetto si basa sulla convinzione che le specie viventi non siano immobili, ma in continua trasformazione nel tempo; opposta a questa teoria troviamo il “ fissismo ” , basato invece sulla convinzione che le specie siano sempre state così come oggi le vediamo. Sostenitore di questa tesi fu Aristotele, il quale concepì le specie animali come forme costitutive della realtà metafisica che, proprio perché strutture della realtà metafisica, non possono cambiare nel tempo. Oltre al fissismo, si contrappose all’evoluzionismo pure il “ creazionismo ”: esso si distingue dal fissismo poiché, a differenza di esso, non concepisce il mondo e le specie che lo animano come eterne; viceversa, i creazionisti credono, seguendo il verbo delle Sacre scritture, che Dio abbia creato il mondo (e che dunque esso non possa essere eterno) e le specie che lo abitano, le quali, diventando strutture della realtà, restano fisse. E nel corso della storia hanno nettamente dominato la tesi fissista (la tradizione aristotelica) e quella creazionista (il cristianesimo): solo in pochi hanno timidamente avanzato tesi evoluzionistiche e tra questi merita senz’altro di essere menzionato l’antico Anassimandro. Con la nuova temperie culturale, nell’Ottocento, il fissismo e il creazionismo entrano in crisi e si fa sempre più sentire l’ipotesi evoluzionistica: già Schelling aveva messo in luce l’esistenza di una sorta di gradualità della natura, la quale si articola secondo diversi livelli e gradini. In particolare, notava Schelling, vi è una sorta di scala per cui si procede dalle forme più semplici, meramente materiali, e ci si innalza sempre più verso forme gradualmente complesse e spirituali, fino ad arrivare all’uomo. Tuttavia, questo processo restava per Schelling puramente logico e atemporale. Un altro padre del tutto involontario dell’evoluzionismo è Linneo (1707-1778), che nel Settecento ha inventato la “tassonomia” ossia la tecnica di classificazione delle classi viventi, prospettando una parentela fra le specie. Pur essendo rigorosamente fissista, egli riteneva che le specie fossero in qualche modo imparentate fra loro, a tal punto da poter ipotizzare un gigantesco clan familiare delle specie: comincia ad affiorare, seppur implicitamente, l’idea che ci debba essere un antenato comune a tutte le specie. Fu poi il francese Buffon a prospettare apertamente l’evoluzionismo. E’ poi bene ricordare l’accesa disputa sull’embriologia divampata tra coloro che sostenevano la preformazione e coloro che invece difendevano l’epigenesi: i primi erano del parere che l’embrione fosse già, in sostanza, come l’animale sviluppato, anche se infinitamente più piccolo; a loro avviso, l’embrione del cavallo altro non era se non un cavallo minuscolo che si sarebbe poi ingrandito. Secondo i sostenitori dell’epigenesi, invece, nel corso dello sviluppo embrionale si passa da un tipo di forma ad un altro, cosicchè è scorretto affermare che l’embrione del cavallo è un cavallo minuscolo; viceversa, esso non è ancora un cavallo, è un’altra forma. La tesi epigenetica, risultata vera, non è di per sé evoluzionistica, ma tuttavia innesta nello studio della biologia un’idea di trasformazione, anche se all’interno dell’individuo singolo e non delle specie. Negli anni a venire si scoprì che l’ontogenesi ricalca la filogenesi, ovvero che il processo di formazione embrionale (ontogenesi) riproduce, per sommi capi, la generazione della specie (filogenesi): il che significa esattamente che esistono fasi in cui ciascuno di noi, in embrione, è più vicino ad un pesce che non ad un uomo, quasi come se stesse ripercorrendo in sé le grandi tappe dell’evoluzione della specie. Sempre in quegli anni si sviluppò un vivace dibattito inerente alla geologia: se si ipotizza l’evoluzione delle specie, si è costretti ad ammettere che essa avvenga in tempi molto lunghi, poiché la storia umana (dal paleolitico fino ad oggi) non attesta esempi di evoluzione. Infatti, da 2500 anni, per quanto ci è testimoniato, non abbiamo notizia di cambiamento alcuno e pertanto si deve ammettere che l'evoluzione avvenga in tempi estremamente lunghi. Ciò, tuttavia, era in contrasto con i Testi Sacri, secondo cui il mondo sarebbe stato creato da Dio 4004 anni prima della nascita di Cristo: l’evoluzione sembrava dunque impossibile, a meno che non si fosse messa in dubbio la veridicità dei Testi Sacri. Anche di fronte alla scoperta dei fossili nascevano comportamenti e interpretazioni ambigue: c’era chi, sulle orme di Aristotele, concepiva le conchiglie fossilizzate come errore di riproduzione dei pesci e non come esseri viventi rimasti intrappolati; vi era poi anche chi, pur riconoscendo che si trattasse di forme animali, sosteneva che fossero animali non ancora scoperti e un’ancora di salvezza era rappresentata dal diluvio universale, che permetteva di dire che, nonostante Dio avesse creato tutte le specie animali, molte di esse non eran riuscite a salire sull’arca di Noè e per questo eran sparite. Relativamente alla questione dei fossili, è molto interessante il dibattito intrapreso tra i trasformisti e i catastrofisti nel tentativo di spiegare la conformazione geologica della terra: secondo la tesi catastrofica, le imponenti modifiche che hanno coinvolto il nostro pianeta sono dovute a catastrofi naturali avvenute in un lasso di tempo assai ristretto; il che permette di spiegare il verificarsi delle trasformazioni in piena sintonia con i tempi riconosciuti dai Testi Sacri. L’ipotesi trasformista, invece, sostiene che la terra si è trasformata gradualmente e non concepisce le montagne come frutto di una catastrofe momentanea (come fa invece l’ipotesi catastrofica), ma come il risultato di un lento processo avvenuto, in condizioni tranquille, nel corso di millenni. Sempre i trasformisti settecenteschi (tra cui ricordiamo Buffon, Maupertuis, La Mettrie, Holbach, Diderot) erano del parere che gli esseri viventi avessero subito un processo di progressiva modificazione. Le posizioni dei trasformisti offrirono un notevole supporto alle tesi evoluzionistiche, come del resto lo offrì pure la nascita dell’anatomia comparata. Essa cominciava a scoprire che anche animali diversissimi tra loro presentano analogie ragguardevoli: mettendo a confronto un uomo ed un uccello, si può notare come, pur essendo radicalmente differente la struttura anatomica, esistano strutture di fondo analoghe come, per esempio, le braccia e le ali. Si intuisce facilmente come l’anatomia comparata abbia aperto spiragli verso l’evoluzionismo: in particolare, essa è una riproposizione della teoria di Goethe secondo la quale esisterebbe un essere comune di cui tutti gli altri sono derivati. Con tutte queste considerazioni sulle spalle, il primo a dare una formulazione organica dell’evoluzionismo fu Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), autore di una “Filosofia zoologica” (1809). Ciò che distingue l’evoluzionismo lamarckiano da quello darwiniano sono, essenzialmente, i diversi meccanismi secondo cui esso avverrebbe secondo i due pensatori: in particolare, Lamarck basa la propria teoria sui concetti di uso e non-uso. A suo avviso, le giraffe si sarebbero evolute da animali a loro simili ma aventi il collo normale; in altri termini, un tempo le giraffe non avrebbero avuto il collo lungo, ma poi, in virtù di una modificazione ambientale, gli alberi sarebbero diventati più alti e per potersi cibare delle foglie le giraffe dovevano sforzarsi allungando il collo: esso sarebbe stato sottoposto ad un graduale allungamento dovuto all’uso e tale trasformazione si sarebbe trasferita, per via ereditaria, di generazione in generazione. Secondo la teoria lamarckiana, sono gli animali a doversi adattare all’ambiente compiendo sforzi immani: tuttavia il punto debole del ragionamento di Lamarck consiste nel fatto che l’esperienza insegna che i caratteri acquisiti (come l’allungamento del collo) non si possono trasmettere ereditariamente, per cui se la giraffa, a furia di sforzare il collo, lo allunga, ciononostante i suoi figli nasceranno col collo normale, proprio come un uomo che abbia acquisito una massa muscolare ingente non potrà trasmetterla ereditariamente al figlio. E’ curioso notare come nell’Unione Sovietica fu adottata una forma di neo-lamarckismo e venne respinto il darwinismo: l’idea dello sforzo per adattarsi all’ambiente suggeriva una maggiore dignità dell’individuo che si deve adattare all’ambiente senza viverlo passivamente. L’evoluzionismo di Charles Darwin (1809-1882) infatti, pur identico nella sostanza, si differenzia da quello lamarckiano nelle modalità in cui avviene: non vi è assolutamente lo sforzo (ipotizzato da Lamarck) per adattarsi all’ambiente. Darwin ebbe un’intensa esperienza di naturalista girando per il mondo e potè notare come certi uccelli molto simili fra loro avevano sviluppato caratteristiche molto diverse (ad esempio, il becco adatto per nutrirsi di determinati insetti presenti nell’ambiente in cui vivevano) a seconda dei contesti ambientali in cui vivevano. Sul piano teorico, poi, egli sapeva che molti allevatori riescono ad ottenere, attraverso un processo di selezione, delle razze nuove; inoltre, aveva sotto gli occhi le teorie elaborate da Malthus secondo cui le risorse ambientali sono limitate e per ciò nasce una lotta per la sopravvivenza che dà la meglio ai più adatti. E grazie a queste tre considerazioni (selezione, lotta, uccelli con modificazioni funzionali al loro modo di vivere) diede la sua celebre formulazione dell’evoluzionismo, sostenendo che le specie evolvono non per adattamento all’ambiente (non è cioè l’ambiente che le stimola ad adattarsi, come credeva Lamarck), ma per selezione: l’ambiente seleziona gli individui più adatti ed elimina quelli inadatti; così la giraffa col collo corto, inadatta a cibarsi delle foglie poste in alto, e la gazzella lenta, facile preda del leone, non ce la fanno a sopravvivere e hanno la meglio le giraffe col collo lungo e le gazzelle veloci. Non è che, in virtù dell’uso, il collo della giraffa si allunga o le gambe della gazzella diventano veloci e nasceranno gazzelle più veloci e giraffe col collo più lungo; viceversa, per errori casuali di copiatura del DNA nascono giraffe con il collo più lungo delle altre e si rivelano più adatte per la sopravvivenza, per cui si riproducono e nascono nuove giraffe col collo lungo, mentre quelle dal collo corto tendono ad essere spazzate via dalla selezione. Naturalmente Darwin non aveva ancora queste nozioni di genetica e si limitava perciò a parlare “errori” per via dei quali gli individui non nascono del tutto identici ai genitori: questi “errori”, che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono dannosi, talvolta possono anche rivelarsi utili, come nel caso del collo lungo delle giraffe. Se lo slancio ipotizzato da Lamarck per adattarsi all’ambiente era di forte sapore romantico, il discorso di Darwin si inserisce pienamente nel quadro positivistico e materialista: infatti, nell’evoluzione darwiniana non vi è nulla di finalistico e, a rigore, non si dovrebbe nemmeno parlare di “evoluzionismo”, giacchè tale nozione presuppone che gli individui cambino in meglio, come se dovessero realizzare un fine. Al contrario, secondo Darwin, si tratta di una forma di selezione assolutamente necessaria e meccanica, indipendente da ogni forma di intelligenza della natura: se nel caso degli allevatori, la selezione avveniva in base alla volontà degli allevatori stessi, nel caso della natura, invece, non si muove verso fini prestabiliti ma secondo una meccanicità rigorosa. Darwin riprende le tesi di Malthus, ma non si sbilancia sul terreno sociale: si limita a parlare di evoluzione biologica, di animali e dell’uomo come animale, tant’è che fu messo alla berlina dalla Chiesa perché faceva derivare l’uomo dalla scimmia (“ nella sua arroganza l'uomo attribuisce la propria origine a un piano divino;io credo più umile e verosimile vederci creati dagli animali ” egli disse). Quando poi il darwinismo sarà impiegato come chiave di lettura della società darà vita al darwinismo sociale, anche grazie alla mediazione di Spencer, il quale arriverà ad estendere il discorso di Darwin all’intera realtà. A cavallo tra Ottocento e Novecento un cattolico, Teilhard de Chardin, interpretò la prospettiva evoluzionistica come processo governato da Dio, dando vita ad una specie di "evoluzionismo finalistico" che però non fu accettato dalla Chiesa (che anzi lo condannò severamente). Sarà invece Bergson ad accettare (con il concetto di “evoluzione creatrice”) l’evoluzionismo e a depurarlo dagli elementi di meccanicismo e anche da quelli finalistici. Una domanda curiosa che sorge spontanea è se l'evoluzionismo sia una dottrina scientifica: nel Novecento c'è stato chi ha detto che una teoria, per essere scientifica, deve essere verificabile e chi, come Popper, ha invece sostenuto che deve essere falsificabile; ma la cosa curiosa è che l'evoluzionismo non è così facilmente verificabile o falsificabile (ed è su questo che fanno ancora oggi leva i suoi oppositori) come possono esserlo le leggi individuate da Galileo. La paleontologia dovrebbe gettar luce in merito, ma nella maggior parte dei casi non ci riesce per via dell'incredibile difficoltà che implica la ricostruzione dell'albero genealogico. E poi vi è un aspetto teorico imprescindibile: oltre all'evoluzione per cui la giraffa si trova oggi ad avere il collo lungo, vi è anche un evoluzionismo più complesso, detto "macroevoluzionismo", con il quale un organo che aveva una determinata funzione è passato, nel tempo, a svolgere mansioni di tutt'altro genere. Classico esempio di macroevoluzionismo è il passaggio da pesci ad esseri dotati di polmoni: i polmoni non derivano dalle branchie e perchè mai, del resto, una mutazione di tal genere dovrebbe essere selezionata? E' forse utile? Le possibili risposte sono due: o si riconosce che le mutazioni non avvengono così gradualmente come sempre si è pensato, ma, viceversa, sono piuttosto rapide; oppure si ammette il finalismo e si riconosce che le fasi intermedie dell'evoluzionismo possano anche essere dannose, ma comunque in vista del risultato finale a cui si mira.

    INDIETRO