L’Ottocento è il secolo in cui l’area di formazione della filosofia occidentale si estende dal vecchio continente al Nord-America. Una minuziosa ricerca storico-filosofica sul contesto del pragmatismo italiano di fine Ottocento deve tenere necessariamente conto delle influenze dell’ambiente nord-americano, esaminando a fondo conformità e differenze all’interno dei modelli di evoluzione culturale. Primo contributo della cultura nord-americana alla storia della filosofia occidentale è nel 1870 la fondazione del Metaphysical Club. Il pragmatismo americano non è una corrente filosofica unitaria: nasce con Charles Sanders Peirce e immediatamente si evolve in senso "utilitaristico" con Williams James ed in senso "strumentalistico" con John Dewey. Le "sotto-correnti" del pragmatismo americano sono tre: il pragmatismo "metodologico" di Peirce, il pragmatismo "utilitaristico" di James, e lo strumentalismo di Dewey. La nascita del pragmatismo americano è comune: il Metaphysical Club ne è la culla. Esistono assunti comuni alle riflessioni filosofiche di Peirce, James e Dewey: anzitutto la critica all’ideale classico di vita meramente teoretica; l’idea della verità come situazione futura; l’idea che la verità sia una norma d’azione rivolta al futuro. Mentre all’interno delle filosofie tradizionali antecedenti, con l’eccezione del marxismo, nella relazione tra conoscenza ed azione sussiste uno sbilanciamento a favore della conoscenza, nell’America di fine ottocento l’ideale medioevale della vita "teoretica", cioè della vita dedita alla meditazione ed alla ricerca di una verità a-storica, è sostituito con l’ideale della verità come farsi, come azione, come attività. Con il pragmatismo si assiste ad una rivalutazione dell’azione. In filosofia, come nella vita, è utile solo ciò che sia idoneo a modificare la condotta dell’uomo nei confronti delle cose, nei confronti dell’altro nel mondo e nei confronti di Dio. La concezione tradizionale della verità come conformità tra cosa ed idea, cioè come adaequatio rei et intellectus, come adeguamento tra essere e pensiero, è rifiutata. In base alla rivalutazione dell’azione, la verità si trasforma da stato mentale ad attività, farsi conoscitivo. La verità non è un dato, ma è la risultante delle attività necessarie alla verificazione. C’è una rilettura del verificazionismo empirista: metodo di controllo della verità non è la conformità ad un’esperienza passata o attuale; metodo di controllo, in forma di previsione, della verità è il riferimento ad un’esperienza futura. Il pragmatismo americano è dottrina filosofica orientata per così dire verso il futuro, dal momento che considera verità di un’azione l’effetto futuro dell’azione medesima. In quanto filosofia della prassi, ben si attaglia ad una realtà attiva e pragmatica quale è quella degli Stati Uniti tra Ottocento e Novecento. La relazione tra conoscenza ed azione è relazione normativa. La verità, cioè ciò che è conoscenza certa, è idonea a modificare l’azione futura divenendo così norma all’azione futura; il credere che una cosa sia vera, suscettibile di uso futuro, influenza indubitabilmente la condotta futura dell’uomo divenendo una sorta di criterio d’orientamento dell’azione futura. Sostiene chiaramente Calcaterra (Il pragmatismo americano):
"La definizione della credenza come principio guida delle inferenze… volge ad accantonare definitivamente la classica questione della ricerca dei fondamenti assoluti della conoscenza… Peirce osserva innanzi tutto che, al di là della validità formale ed anche effettiva di un’inferenza, il passaggio dalle premesse alle conclusioni di un ragionamento è sempre guidato da un qualche contenuto del pensiero, ovvero da un’opinione che si è stabilita dal pensiero e che funziona appunto come suo principio guida. Più propriamente, ciascuna… credenza costituisce un abito mentale…".
Successiva è la distinzione, introdotta da Peirce medesimo, tra pragmatismo jamesiano e pragmaticismo. Peirce introduce un modello di filosofia critico-razionalistica fondato sulla ricerca di un metodo utile a determinare il senso dei concetti intellettuali; James un modello di filosofia irrazionalistica fondato su una teoria metafisica e morale della verità. Analizzate le tendenze comuni, è necessario, riprendendo la distinzione di Peirce tra "pragmaticismo" peirceiano e "pragmatismo" jamesiano, esaminare in maniera distinta le due "sotto-correnti": da un lato il pragmatismo "metodologico" di Peirce e dall’altro il pragmatismo "metafisico" utilitaristico di James. Occorre delimitare chiaramente il nostro contesto di ricerca. Ci interesseremo in estrema sintesi esclusivamente delle riflessioni filosofiche di Peirce e di James immediatamente connesse alle idee e ai concetti del pragmatismo italiano di Calderoni e Vailati: la tematica della conoscenza; la definizione del concetto di credenza, l’idea della verità. Delineeremo in entrambi una teoria della conoscenza. Di Peirce non introdurremo le ricerche "faneriche" e sulla natura del cosmo; mentre di James trascureremo la filosofia della mente in senso stretto e l’analisi dei concetti "metafisici" di Dio come ente finito e di universo come struttura non monistica. Peirce fonda la sua riflessione filosofica in materia di conoscenza sul concetto di credenza. La credenza è, infatti, la base della razionalità umana. La filosofia della conoscenza di Peirce nasce dalla critica "concretistica" all’idea cartesiana di un "dubbio universale". Per Peirce il motore della ricerca viene considerato un "dubbio reale e vivente", non un "dubbio universale". E’ il "dubbio reale e vivente" che conduce l’uomo a formarsi determinate credenze. Il dubbio cartesiano, inteso come idoneità dell’uomo a mettere in discussione sistematicamente ciò che non è intuitivamente evidente è ben diverso dal dubbio di Peirce. Per quest’ultimo il dubbio è uno stato mentale di insoddisfazione e di frustrazione che l’uomo tende a trasformare in stato d’animo calmo e certo con l’introduzione di nuove credenze. Il dubbio cartesiano è un metodo di controllo su ciò che non è evidente; il dubbio in Peirce è uno stato mentale caratteristico dell’uomo. Mentre Cartesio indirizza l’uomo verso il dubbio individuale ed indica il dubbio come fonte accessoria di conoscenza insieme all’intuizione; Peirce indirizza l’uomo alla credenza ed indica come fonte unica di conoscenza l’abbandono dell’irritazione scaturente dal dubbio. "Pensare", cioè uscire lottando dallo stato di irritazione connaturato al dubbio, vuole dire creare credenze (stati mentali di calma e sicurezza), o, in altri termini, creare una correlazione infinita di inferenze tra credenze; la credenza nuova si motiva in base alla credenza antecedente e così via all’infinito, riconoscendo l’esistenza necessaria di una credenza iniziale non verificata. L’ammettere l’eventuale esistenza di una credenza iniziale non verificata, non necessariamente vera, e suscettibile di emenda, riconduce la riflessione di Peirce a riconoscere il "fallibilismo" del metodo scientifico. Non esiste un unico modo di stabilire credenze: vi è il metodo della tenacia, che consiste nel non mettere in discussione credenze; il metodo dell’autorità, che consiste nel vietare le credenze difformi; il metodo della metafisica, che consiste nel costruire ed ordinare credenze in sistemi; il metodo scientifico. I tre metodi iniziali (tenacia; autorità; metafisica) hanno la caratteristica comune di non tollerare l’errore; tenacia, autorità e metafisica stabiliscono credenze senz’ombra di fallimento. Il metodo scientifico rinuncia all’infallibilità; la scienza stabilisce credenze non necessariamente vere ma emendabili. La nozione di credenza – come visto – è centrale all’interno della filosofia conoscitiva del Peirce. La credenza è norma all’azione futura. Pensare vuole dire creare una correlazione infinita di inferenze tra credenze. Ed è una credenza antecedente ad indirizzare la serie di inferenze (abduttive) idonee a fondare nuove ed ulteriori credenze. Peirce analizza – come farà successivamente in Italia Vailati- la struttura dei meccanismi inferenziali riconoscendo come attività inferenziali dell’uomo le attività di deduzione, induzione ed abduzione. L’induzione è una deduzione inversa, mentre l’abduzione è una induzione meno certa. E’ vero che nel pensiero umano deduzione ed induzione hanno un ruolo fondamentale, ma – secondo Peirce – nella creazione di abitudini mentali/ credenze non esiste meccanismo inferenziale efficace come l’abduzione. Mentre infatti deduzione ed induzione non introducono alcunché di nuovo, l’abduzione è fonte di idee/ concetti nuovi. La serie di inferenze che fonda nuove credenze sotto la direzione di una credenza antecedente è una serie inferenziale abduttiva. Analizzati i meccanismi mentali di formulazione delle credenze Peirce sostiene che l’utilità di una credenza nella vita è variabile della verificabilità della credenza medesima. La verificabilità di un’azione - secondo Peirce- è l’effetto futuro dell’azione medesima. Una credenza è vera nel momento in cui sussista conformità tra effetti attesi dalla credenza ed effetti realizzati; una credenza è falsa nel momento in cui non sussista tale conformità. Nel momento in cui sia vera, la credenza è norma d’azione utile; nel momento in cui non lo sia, è una norma d’azione non utile ad incidere sulla condotta umana. Peirce tuttavia non intende allo stesso modo di Cartesio la verità come se fosse l’esito individuale del confronto tra credenza ed effetti futuri scaturenti dalla credenza. La verificazione in Peirce è un evento individuale; la verità è un evento comunitario:
"L’opinione finale, sulla quale, fatalmente, tutti coloro che indagano si troveranno d’accordo, è ciò che intendiamo con verità, e l’oggetto rappresentato in questa opinione è il reale. In questo modo io spiegherei la realtà…"(Le leggi dell'ipotesi).
La verità è l’insieme delle attività di verificazione della comunità scientifica come la realtà è l’accordo della comunità sulla verità. Peirce si dimostra fiducioso del cammino trionfale della scienza verso la verità, senza tuttavia trascurare – come osservato – l’idea di fallibilità della conoscenza scientifica. Le idee della verità come "collaborazione" comunitaria e dell’Amore/ Dio come motore evolutivo dell’universo formano in Peirce un’etica della solidarietà. Per ciò che concerne il meccanismo conoscitivo, James conferisce alla nozione di credenza una funzione accessoria. E’ senza dubbio elemento costitutivo della razionalità umana, ma non ne è condizione necessaria e sufficiente. Per James – allo stesso modo che in Peirce- il dubitare è il motore della ricerca. "Dubitare" vuole dire tradursi da uno stato mentale di incertezza ad uno stato mentale di certezza e rilassamento. La razionalità è innanzitutto sensazione emotiva soddisfacente, derivata dal conformarsi del mondo interno al mondo esterno. Il tradursi dell’uomo dalla incertezza alla certezza è – come in Peirce- credenza. Ma la credenza non è unica base necessaria alla razionalità umana. E’necessario riconoscere l’incidenza del desiderio sulla credenza. "Pensare" vuole dire introdurre una catena infinita di inferenze tra credenze, senza tuttavia escludere l’influenza benefica e normale del desiderio (interesse/ valutazione) sulla catena di inferenze. Ma in James la credenza non è esclusivamente un’inferenza tra credenze ulteriori: decidere è frutto di una creazione, dovuta all’incidenza sulle inferenze della selezione tra sensazioni diverse. E la selezione tra sensazioni è una valutazione, scaturente da una situazione emotiva. Nella vita dell’uomo vi sono necessariamente due modalità di ottenere la verità. L’una obiettiva, incentrata sulla introduzione di credenze interamente verificabili, razionale in senso stretto, normale; l’altra subiettiva, incentrata sull’influenza dell’emozione individuale sulle credenze, inverificabile, razionale in senso lato, eccezionale. Scrive James:
"La nostra natura passionale non soltanto può legittimamente, ma deve, decidere nella opzione tra più affermazioni, quando è un’opzione genuina che non può per sua natura essere decisa su basi intellettuali; perché, in tale circostanza, "non decidere, ma lascia aperta la questione" è anch’essa una decisione passionale – proprio come decidere per il sì o per il no – ed è soggetta allo stesso rischio di perdere la verità…" (La volontà di credere).
Nel momento in cui non sia realizzabile una decisione interamente razionale, cioè fondabile su una credenza interamente verificabile, il limitarsi a non decidere o a decidere tardivamente sarebbe dannoso. Anche laddove manchi una credenza verificabile è interesse dell’uomo decidere. Il non decidere a causa della mancanza di una credenza fondata non ha valore diverso dal decidere non avendo una credenza. In entrambi i casi sussiste una decisione. Nell’una sussiste la decisione di decidere senza credere; nell’altra la decisione di non decidere. La decisione di non decidere rimane una decisione senza credenza fondata. La chiarificazione del dualismo credenza/ desiderio è accennata nello scritto jamesiano del 1884 "The Dilemma of Determinism". Per James il dilemma libertà/ determinismo non trova e non troverà mai soluzione nel "metodo scientifico", essendo un dilemma metafisico. Laddove il "metodo scientifico" non si dimostri efficace, rimane l’unica via della decisione arbitraria. La scelta a favore dell’una libertà) o dell’altro (determinismo) non avviene in base a credenze, ma a seconda delle emozioni di ciascun individuo. Ecco che il will to believe jamesiano è un metodo accessorio, in momenti eccezionali della vita, al "metodo scientifico".
Se in Peirce la verità di una credenza è frutto di una verificazione successiva e comunitaria (nel senso di comune alla comunità scientifica), James intende il criterio di validazione delle credenze come un meccanismo "convalidativo" individuale. L’accettazione individuale è fonte di convalidazione di una credenza. Per James - in date circostanze- sono vere le credenze che ci servono, non sono vere le credenze che non ci servono. James sembra invertire drasticamente l’assunto metodologico di Peirce "sono utili le credenze che sono vere, sono inutili le credenze che non sono vere".
Il pragmatismo rappresenta un atteggiamento del tutto familiare in filosofia, quello empiristico, ma lo rappresenta a mio parere in una forma piú radicale e meno criticabile che per il passato. Un pragmatista volge risolutamente la schiena, una volta per tutte, a un gran numero di posizioni care ai filosofi di professione. Egli rifugge dall'astrazione, dalle soluzioni verbali, dalle cattive ragioni a priori, dai principi fissi, dai sistemi chiusi, dai falsi assoluti. Egli si volge alla concretezza e all'adeguatezza, ai fatti, all'azione e alla forza. Ciò significa far prevalere un'attitudine empiristica su quella razionalistica, la libertà e la possibilità contro il dogma, l'artificio e la pretesa di una verità definitiva. Né il pragmatismo prende posizione per alcun risultato particolare. Esso è solamente un metodo. Ma il suo trionfo comporterebbe un cambiamento enorme in quello che ho chiamato il «temperamento» della filosofia. Scienza e metafisica s'avvicinerebbero l'una all'altra, lavorerebbero concretamente insieme. (Pragmatismo)
E sul valore del metodo del pragmatista, sul suo potere di superamento dl ogni astratta «metafisica», sul significato «strumentale» ch'esso attribuisce alle parole come alle idee, ai termini come alle teorie, egli annota:
La metafisica ha in genere adottato un tipo di ricerca assai primitivo. L'universo è sempre parso alla gente semplice un mistero, la cui soluzione deve essere cercata in qualche parola o nome illuminante e dotato di potere. Una tale parola indica il principio dell'universo e il possederlo è un modo di possedere l'universo stesso. «Dio», «Ragione», «Assoluto», «Energia» sono altrettanti nomi risolutori. Quando li avete potete stare tranquilli. Siete giunti alla fine della vostra ricerca metafisica. Ma se seguite il metodo pragmatico, non potete credere che una tale parola chiuda davvero la questione. Dovere tirar fuori da ogni parola il suo valore in contanti (cash-value), metterla alla prova nel flusso dell'esperienza. Piú che una soluzione essa appare allora il programma di un'attività ulteriore e, piú particolarmente, un'indicazione dei modi in cui le realtà esistenti possono essere cambiate. Le teorie diventano strumenti e non già risposte ad enigmi di cui possiamo appagarci. Noi ci appoggiamo ad esse, ci muoviamo in avanti e all'occasione trasformiamo la realtà con il loro aiuto. Il pragmatismo non cristallizza le nostre teorie, dà loro un valore di guida e le mette alla prova. Va d'accordo, per esempio, con il nominalismo per il continuo richiamo agli individui particolari, con l'utilitarismo per il rilievo dato agli aspetti pratici, con il positivismo per il suo disprezzo delle soluzioni verbali, delle questioni inutili e delle astrazioni metafisiche. Tutte queste, voi lo notate, sono tendenze anti-intellettualistiche. Il pragmatismo è in lotta aperta contro il razionalismo come sistema e come metodo. Ma, sia al principio che alla fine, esso non parteggia per alcun risultato particolare. Il pragmatismo non ha dogmi. Nessuna dottrina particolare, insomma, ma solo un atteggiamento di ricerca: ecco che significa il metodo pragmatico. La disposizione a togliere lo sguardo dalle cose prime, dai principi, dalle «categorie», dalle pretese necessità, e a guardare invece alle cose ultime, ai risultati, alle conseguenze, ai fatti. (Pragmatismo)
Per cui per il pragmatista la «verità» assume un nuovo significato. Si può dire che certo essa è «accordo con la realtà», ma, aggiunge James, bisogna intendersi sui termini «accordo» e «realtà». La definizione classica, infatti, indica solo l'adeguamento dell'«immagine» mentale ad una realtà fissa e immutabile. Ma c'è un problema: «Quando le nostre idee non possono copiare in modo definito il loro oggetto, che cosa significa il loro "accordo" a tale oggetto?» E che cosa significa tale accordo quando le idee ci servono per proiettarci nell'ignoto futuro? Non si può allora ripiegare affermando la verità come una «proprietà» prestabilita dell'idea. Un'idea è vera se essa è resa vera dalle circostanze in cui r noi l'adoperiamo praticamente:
Le idee vere sono quelle che possiamo assimilare, convalidare, confermare e verificare. False sono quelle per cui non possiamo fare altrettanto. Questa è la differenza pratica che ci fa avere delle idee vere, questo è il significato della verità per ciò che se ne sa. Questa è anche la tesi che debbo difendere. La verità di un'idea non è una sua stagnante proprietà. Un'idea diventa vera, è resa tale dagli eventi. La sua verità è di fatto un avvenimento, un processo: il processo, piú esattamente, del suo verificarsi, la sua verificazione. La sua validità è allo stesso modo il processo della sua convalidazione. (Pragmatismo)
In tal senso il possesso di un'idea «vera» significa «il possesso di un inestimabile strumento d'azione»; e «il nostro dovere di raggiungere la verità» può spiegarsi con eccellenti motivi pratici.
Viviamo in un mondo di realtà che può esserci infinitamente utile o dannoso. Le idee che ci dicono quali di esse accadranno debbono considerarsi come le idee vere in questa prima sfera di verificazione e il loro acquisto è un compito fondamentale dell'uomo. Il possesso della verità, lungi dall'essere un fine, è soltanto un mezzo per altre soddisfazioni vitali. Se mi sono perduto in un bosco e trovo qualcosa che assomiglia a un sentiero, è della massima importanza che io pensi come esso conduca a un'abitazione umana, in quanto, se penso cosí e lo seguo, io mi salverò. Il pensiero vero è utile perché l'abitazione che è il suo oggetto è utile. Il valore pratico delle idee vere deriva anzitutto dall'importanza pratica dei loro oggetti per noi. (Pragmatismo)
Dunque il «perseguimento dei fini futuri» (che distingue il comportamento consapevole da quello istintivo e meccanico) è il centro intorno a cui ruota tutta la vita spirituale dell'uomo. La sensazione promuove la riflessione e questa stimola la volontà che si esprime nell'azione; infine dunque «la percezione e il pensiero esistono solo in vista della condotta», e la «verità» di un'idea sussiste nella sua anche solamente potenziale «utilità».
Sicché tutte le idee, anche quelle scientifiche, vanno considerate vere in base al criterio delle loro verificabilità, che si risolve in quello della loro «utilità».
La volontà, comunque, non è solo il termine ultimo della nostra vita spirituale, non è solo, diremmo, la «causa finale» di un'idea. Essa è anche ciò che guida e indirizza la nostra stessa attività conoscitiva. Nessuno scienziato osserva indifferente il reale; la sua osservazione è sempre mossa da un suo «interesse» che stimola la «volontà» a «cercare» e «conoscere» qualcosa. Egli «vuole credere» in ciò che cerca e perciò mette in moto azioni e procedure per la ricerca.
Questa «volontà di credere» poi è ciò che motiva specificale mente la dinamica della fede religiosa. Sul valore pratico della fede religiosa James osserva: se il mondo, per ipotesi, fosse già «compiuto», non presentasse problemi per l'uomo, allora non avrebbe senso chiedersi se esso sia stato creato da Dio, e neppure se Dio esista; ma poiché il mondo e la storia hanno un futuro ignoto per l'uomo, allora è importante che l'uomo, che in questo mondo deve «proiettare se stesso», si chieda se esso abbia un ordine razionale oppure sia dominato dal caos. Dunque il problema dell'esistenza di Dio non è «teoretico» ma «pratico» nelle sue radici; la sua soluzione deve orientare le scelte del singolo e non vi è dubbio che l'ipotesi di un ordine divino del mondo riesce a soddisfare piú pienamente le esigenze pratiche. In ciò sta la giustificazione del sentimento religioso; questo ha il potere di liberare l'uomo dal suo senso di malessere, dalla sua incertezza sul piano delle scelte operative.
Certo tale sentimento non garantisce le scelte, ma promuove soltanto la fiducia in esse. Niente testimonia che la trasformazione del mondo abbia una legge determinata; anzi è sempre possibile accanto al progresso anche il regresso. Ma ciò che rende costruttivo l'operare umano è la volontà di credere. Se un alpinista è obbligato a fare un salto su un crepaccio per uscire da una situazione pericolosa, la riuscita della sua azione dipenderà dalla sua fiducia: se «crede» che riuscirà, salterà nelle condizioni migliori e potrà salvarsi; se «non crede», la sua mancanza di fiducia lo porterà a saltare nelle condizioni sfavorevoli, col rischio di precipitare.
La credenza quindi non è accompagnata da nessuna garanzia logica; essa Si radica non nella certezza razionale, ma nella volontà. Cosí è nella vita pratica e cosí è nell'esperienza religiosa. Anche qui si opera sempre un «salto», si fa, per dirla con Pascal, sempre una «scommessa». Salto necessario, perché sospendere la scelta in attesa che la fede abbia una giustificazione razionale significa prolungare l'incertezza ed il malessere.
Pertanto, in generale, la credenza ha un primato sulla conoscenza, e l'esperienza religiosa ha un primato sulle altre esperienze spirituali di cui l'uomo è capace.
Noi cominciamo appena ora a intendere che è completamente annullata la psicologia che dominava la speculazione filosofica dei secoli XVIII e XIX. Essa affermava che la vita mentale ha origine nelle sensazioni che sono ricevute separatamente e passivamente e si riuniscono, per mezzo delle leggi della memoria e dell'associazione, in un mosaico di immagini, di percezioni e di concezioni. I sensi erano considerati come ingressi o vie della conoscenza. Salvo che nel combinare le atomistiche sensazioni, la mente era del tutto passiva e quiescente nel conoscere. Volizione, azione, emozione, desiderio, sono conseguenze delle sensazioni e delle immagini. Il fattore intellettuale o conoscitivo viene per primo e la vita emotiva e volitiva è solo una conseguente congiunzione di idee con sensazioni di piacere e di dolore. (La ricostruzione filosofica)
Tale nozione risulta ormai da contestare in base ai risultati della moderna scienza biologica:
Lo sviluppo della biologia ha avuto per effetto di capovolgere questo quadro. Dovunque c'è vita, c'è comportamento, attività. Di qui seguono alcune conseguenze importanti per la filosofia. In primo luogo, l'interazione dell'organismo e dell'ambiente, che si traduce in qualche adattamento che rende possibile l'utilizzazione dell'ambiente stesso, è il fatto primario, la categoria fondamentale. La conoscenza è relegata in una posizione derivata, secondaria in origine, anche se la sua importanza, una volta che si è stabilita, è soverchiante. La conoscenza non è qualcosa di separato e di sufficiente a sé stesso, ma è coinvolta nel processo da cui la vita è mantenuta e sviluppata. I sensi perdono il loro significato di ingressi della conoscenza, per assumer quello di stimoli all'azione. Per un animale, un'affezione all'occhio o all'orecchio non è un'oziosa materia d'informazione intorno a qualcosa d'indifferente che accade nel mondo. Ma è un invito e uno stimolo ad agire nel modo che bisogna. Essa è un filo conduttore per il comportamento, un fattore direttivo nell'adattamento della vita al proprio ambiente. Ha la qualità di un incitamento, non di una contemplazione. Tutta la controversia tra l'empirismo e il razionalismo sul valore intellettuale delle sensazioni diviene cosí stranamente fuori moda. Il problema delle sensazioni va messo nella rubrica dello stimolo immediato e della risposta, non in quello della conoscenza come elemento consapevole; una sensazione segna una interruzione in un corso di azioni già iniziato. Le sensazioni di questa specie sono emotive e pratiche, piuttosto che cognitive e intellettuali. Esse sono urti del mutamento, dovuti all'interruzione di una stabilizzazione anteriore. Esse sono segnali per dare direzione nuova all'azione. (La ricostruzione filosofica)
Io «sono», esisto. Ma quali sono i caratteri distintivi di questa esistenza? Nell'esperienza pratica dell'uomo domina l'incertezza egli si proietta rischiando, e rischiando l'errore ad ogni livello. La filosofia dunque non deve sostituirsi alle superstizioni e alla magia - tipiche della società primitiva - nel creare l'illusione di una realtà e di una esistenza umana «garantite»; da forze, interne o esterne al reale, di natura divina. Non deve creare nell'uomo l'immotivata fiducia nella «riuscita» dei suoi progetti, nella attuazione sicura dei suoi scopi, immaginandoli in un quadro del reale ordinato secondo razionalità. Non deve obliare ciò che è precario, instabile, imperfetto, il male, l'errore, la morte, relegando tutto ciò nella categoria dell'«apparenza». Tutto ciò è comunque «reale». «Questo» mondo è il campo d'azione dell'uomo; il quale deve tendere a «ridurre» la precarietà, il male, l'ignoranza, e lo stesso influsso della morte nella sua vita quotidiana; e addirittura deve tendere, attraverso la ricerca metodologicamente organizzata, a «trarre partito dalla contingenza». La lotta col reale dev'essere guidata dall'indagine scientifica e filosofica. Ma che cosa Dewey intende per «indagine»? Essa, egli dice, «è la trasformazione controllata o diretta di una situazione indeterminata in una situazione determinata nelle sue distinzioni e relazioni costitutive, a tal punto da convertire gli elementi della situazione originaria in una totalità unificata». Quindi l'indagine nasce dal dubbio e dall'incertezza connessi al carattere problematico del reale stesso. Ma come si articola? Assunto il reale sul piano conoscitivo come «problema», anzitutto se ne individuano i termini; quindi si formula una «idea» o «possibilità di soluzione», o anche «ipotesi anticipatoria» di un possibile evento futuro; tale idea viene quindi sviluppata in termini di «ragionamento», il quale viene espresso in parole affinché si espliciti il senso stesso dell'idea; poi si sottopone l'ipotesi alla prova dell'esperimento; si potranno avere allora due possibilità: la prima è che l'esperimento non convalidi l'ipotesi, e in tal caso però l'esperimento stesso indicherà in qual modo essa debba esser corretta; oppure, ed è la seconda possibilità, che l'esperimento confermi l'ipotesi, e in tal caso questa si trasformerà in un «giudizio», che poi altro non è che una «decisione direttiva di attività future». Le idee sono quindi per Dewey sempre di natura «funzionale», servono come «strumenti» per produrre «operazioni» atte a dare «soluzioni» che permettano un «intervento» sul reale. L'uomo conosce ed agisce. Ma questi due momenti non sono scissi tra loro. Anche quando conosce, agisce, e non solo nel senso che nel conoscere egli è attivo, ma anche in quello che con la conoscenza egli si propone e attua sempre una trasformazione della realtà. E cosí pure, quando agisce, conosce, perché ogni azione, che e sempre condizionata dalla conoscenza, produce essa stessa una nuova conoscenza. Ma quali sono gli elementi caratterizzanti l'uomo nella sua globalità? Egli è anzitutto «impulsi» e «abitudini»; l'uomo è formato da caratteri primari, o «impulsi istintivi», e da caratteri secondari, o «abitudini». Nell'ordine naturale «gli impulsi sono primi nel tempo»; sono essi che guidano la vita infantile; ma gl'impulsi non garantiscono indipendenza: il bambino dipende dagli altri; gli adulti quindi intervengono sugli impulsi disciplinandoli; essi trasmettono le loro abitudini; sicché «i bambini devono agli adulti la possibilità di esprimere le loro attività native in modi che abbiano significato», un significato sociale, e quindi la possibilità di divenire autonomi e di partecipare in modo «significativo» alla vita comune. Dunque «le condizioni sociali educano le attività originarie in disposizioni finite e significative». Con tale educazione però il rapporto tra istinti e abitudini si capovolge. Le abitudini cioè, che «in quanto attività primarie organizzate», cioè «in quanto svolgimento elaborato delle attività istintive», hanno la loro ragione d'essere nella socializzazione degli istinti, e pertanto «sono secondarie e acquisite, non native e originarie», poi, nella condotta dell'uomo adulto, diventano elementi «primari», relegando gl'impulsi a condizione di dipendenza e a ruolo secondario. Le abitudini insomma prevalgono sugli impulsi e li condizionano quanto alle forme espressive. Ma non li pongono, e non li possono porre, fuori gioco. Esse devono sempre interagire con gl'impulsi. Se le abitudini avessero un predominio totale, l'uomo non avvertirebbe neppure l'esigenza di modificarsi e modificare la realtà esterna; e le società e le epoche storiche non muterebbero la loro «qualità». È l'istinto, dunque, che con la sua inestinguibile vitalità rompe gli schemi di comportamento e apre l'uomo all'esperienza del nuovo. Ma la dialettica istinti-abitudini è costruttiva in quanto l'uomo è anche «coscienza», «spirito» e «io». Anzitutto è «spirito», è cioè «un sistema di credenze, nozioni, ignoranze, di accettazioni e di rifiuti, che si è formato sotto l'influenza dell'abitudine e della tradizione». Lo spirito è «il sistema organizzato dei significati esprimibili» che permettono l'azione. Esso non è propriamente ciò che caratterizza l'individualità umana, ma ciò che rende «il singolo» membro della sua comunità. Ma l'individuo non si conforma totalmente al suo «spirito». Egli fa esperienza, e. queste esperienze trovano nella «coscienza» il centro unificante e insieme di rielaborazione critica. È nella sua coscienza che matura il bisogno del mutamento, col «dubbio»; bisogno che si traduce in «idea», cioè in progetto previsionale della trasformazione delle esperienze. Ma anche questo elemento non caratterizza la specificità dell'uomo singolo. Questo è invece un «io». L'io è, in senso proprio, l'individualità che «emerge» dallo spirito del suo popolo e del suo tempo e, con l'elaborazione dell'esperienza nella coscienza, si fa «personalità» relazionandosi attivamente con la realtà. Tale personalità però è «ambigua». Essa può risolversi in un adeguamento al mondo, o in un rifiuto del mondo cosí come esso si presenta, per trasformarlo. Solo nel secondo caso raggiunge la sua pienezza. L'uomo - in quanto personalità piena - critica, progetta, e si rende autore della soluzione di un problema o di una modificazione del reale; e se ne assume la responsabilità rispetto alla «tradizione» e agli «altri». L'io, cosí, mentre accoglie l'esperienza la muta; assumendo la tradizione la nega; partecipando alla vita sociale la condiziona e la rinnova col suo pensiero e con la sua iniziativa. Dati questi presupposti, come si risolve il problema della libertà umana? Anzitutto bisogna sfrondarlo dei suoi connotati di astrattezza, e riferirlo alla condizione concreta dell'uomo. L'interazione effettiva tra uomo e mondo, intendendo il mondo non solo in senso naturale, esclude la soluzione del libero arbitrio assoluto. La libertà, intesa sul piano operativo, sussiste, ma è sempre condizionata. E lo è da molti fattori interni ed esterni, soggettivi ed oggettivi. Tra quelli soggettivi si possono annoverare, ad esempio, il desiderio della novità, la capacità d'ideare e di eseguire programmi d'intervento sulla realtà, ed anche la disponibilità a mutare tali programmi ove mai occorresse. Sicché solo le conseguenze dell'azione, cioè la sua riuscita o il suo fallimento, sono il segno e il criterio di valutazione dell'attuazione della libertà individuale e del suo grado. L'uomo dunque, per Dewey, è sempre attivo nel mondo. Tutto ciò che fa è produttivo, e richiede sempre che si stabiliscano fini e si scelgano mezzi per attuarli. Ma sia per determinare i fini che per scegliere i mezzi l'uomo deve procedere a «valutazioni». È lui che stabilisce che cosa debba esser fine e che cosa mezzo. Non ci sono fini e mezzi in quanto tali; e non c'è un rapporto assoluto tra di essi. Ogni fine può essere anche mezzo, e ogni mezzo può esser fruito come fine in sé. Ciò comporta una conseguenza rilevante. Non è possibile stabilire in assoluto la distinzione tra le attività che realizzano mezzi e quelle che realizzano fini. Non è possibile porre una precisa linea di demarcazione. Si prenda ad esempio l'arte. Qual è il suo scopo? quello di produrre un fine, la bellezza? o quello di produrre un mezzo, un oggetto tale da esser fruito, goduto, dal contemplatore? Detto in altro modo, l'oggetto d'arte dev'essere bello o utile? Se si riflette, la creazione artistica è sempre produzione di valori estetici attraverso l'utilizzazione finalizzata di materiali e strumenti adeguati. Dunque già nel momento creativo è difficile separare il bello dall'utile: l'utile è necessariamente connesso al bello. E poi l'oggetto estetico non esaurisce la sua funzione nella realizzazione della bellezza. Esso può e deve esser goduto, può e deve essere utile all'arricchimento della vita umana. E allora: la bellezza è - in sé - un fine, un mezzo, o l'uno e l'altro? L'attività estetica è - per sé - produttiva di fini, di mezzi o di entrambe le cose? Ciò che è fine è anche mezzo, e viceversa; e ciò ch'è bello, è anche utile, e viceversa. Di qui deriva che non è possibile separare arti belle, realizzatrici di fini, e arti utili, realizzatrici di mezzi. Anche le arti utili, in quanto e nella misura in cui contribuiscono ad arricchire il senso della vita, sono belle come quelle cosiddette «belle». Ma non c'è proprio nessuna differenza tra le arti «estetiche» e quelle «produttive», e tra l'oggetto artistico e, ad esempio, il prodotto industriale? Sí, dice Dewey, la differenza sta nel fatto che le arti produttive costruiscono oggetti con una forma funzionale allo scopo d'uso; le arti estetiche creano un oggetto con una forma che è indipendente dall'uso particolare possibile, e che realizza in sé la pienezza dell'esperienza artistica. Tale pienezza risiede nella perfezione autonoma dell'insieme. Il fine delle arti estetiche insomma è la forma stessa come perfezione. L'oggetto estetico è quindi per sua origine e natura «espressivo» e non «strumentale»; è progettato e realizzato come «fine» e non come «mezzo». In ogni momento della sua vita spirituale l'uomo procede a «valutazioni»; stabilisce «valori» da conseguire, e determina i mezzi. Ma dei valori si può avere conoscenza rigorosa? Si crede generalmente, dice Dewey, che solo i dati empirici siano verificabili operativamente, e che i valori si sottraggano a tale verifica. Si crede cioè che mentre è possibile una scienza dell'esperienza, non è possibile una scienza dei valori. Ciò è errato. Anzi una tale convinzione relega, ad esempio, il bello o anche il bene nell'ambito esclusivamente «soggettivo»; implica che una valutazione di bellezza o di bontà sia necessariamente arbitraria; e comporta, ad esempio, che i valori sociali, e le istituzioni che li incarnano, siano inevitabilmente l'esito di un caso irrazionale. Tutto ciò bisogna evitare. È necessario che una ricerca, scientificamente organizzata, sottragga le valutazioni etiche, estetiche, sociali, politiche, religiose, al relativismo soggettivistico, e quindi all'arbitrio e alla provvisorietà; e contemporaneamente le sottragga alla tentazione di ancorarle a valori metafisicamente oggettivi. Cioè bisogna realizzare un processo valutativo che implichi sempre una critica del presente, del già acquisito, la fissazione ipotetica di un risultato possibile, cioè del fine, e, secondo relazioni verificabili, la determinazione di attività e di mezzi che siano adeguati alla realizzazione del fine. C'è bisogno insomma di rigore scientifico. Se si adottano questi criteri nelle valutazioni, allora è possibile strutturare «scientificamente» anche la società. Quale ruolo, ora, deve assumere la filosofia? Posto che lo scopo dell'uomo è «aumentare il controllo sul suo benessere», «assicurarsi l'avvenire» attraverso l'utilizzazione razionale del reale, cioè attraverso «l impiego del fatto presente come segno di qualcosa che ancora non è dato», la filosofia non può essere «contemplativa» dell'ordine e dei valori esistenti, né semplicemente «conoscitiva» della realtà naturale. E tanto meno deve andare alla ricerca di principi primi e assoluti. Le «idee» filosofiche devono nascere dalla «critica», e devono «progettare» l'innovazione del mondo umano in modo che la vita stessa dell'uomo risulti arricchita di valori e di significati. Certo, l'attività filosofica è «teoretica»: essa «impiega gli accadimenti per la scoperta e la determinazione delle conseguenze, per la formazione di nuove connessioni dinamiche». In ciò il filosofo partecipa in modo «indiretto» alla progettazione del futuro, rispetto, ad esempio, al politico. Ma lo scopo dovrà essere quello di aprire «una prospettiva sulle possibilità future in vista di conseguire il meglio e di allontanare il peggio», non di fare «una rassegna contemplativa dell'esistenza, né un'analisi di ciò ch'è passato ed esaurito». La filosofia pertanto «deve sviluppare idee che fanno presa sulle crisi effettive della vita, idee che hanno influenza nell'affrontarle». Idee che però devono essere sempre «verificate», perché anche per la filosofia «il successo del conseguimento degli effetti misura la portata della previsione». Se la filosofia deve abbandonare la ricerca dei principi primi e dei valori assoluti, che ne sarà allora della religione, che per sua natura è vincolata a valori fissi, eterni, immutabili? Anche la validità dell'esperienza religiosa è data da quella degli effetti che produce. Si badi: dell'esperienza religiosa, non delle religioni. Se l'esperienza religiosa autentica, aliena da credenze e pratiche superstiziose, procura un «migliore adattamento alla vita», dà «maggior senso di sicurezza e di stabilità», allora essa rientra legittimamente nell'esistenza dell'uomo. Essa è «moralità toccata dall'emozione». E Dio non sarà che l'ideale unità di quei valori e di quei beni che l'uomo pone davanti a sé come «prospettive» da concretare. Quanto alle istituzioni religiose e alle loro credenze e riti, essi sono elementi del tutto accessori, talvolta dannosi.