L'ILLUMINISMO FRANCESE |
L’Illuminismo non professa fin da principio l’ateismo: compie piuttosto un costante lavoro di corrosione, criticando la religione positiva, demistificandone i cardini, combattendo in ogni modo l’accordo tra ragione e Rivelazione. Per tale via, si giunge all’apogeo dell’esaltazione della religione naturale e alla totale svalutazione di quella rivelata, di cui vengono sottoposti a una critica impietosa i dogmi fondanti. In Francia, questa critica corrosiva porterà alla Rivoluzione.
È Pierre Bayle il primo autore in cui si verifica il passaggio dalla religione naturale all’ateismo, nel quale confluisce lo stesso deismo: si tratterà non già dell’ateismo sofferente e inquieto, bensì di quello freddo dell’indifferenza, molto vicino allo scetticismo di Hume.
Né Voltaire, né Diderot, né Rousseau vollero mai essere considerati atei, ma non v’è dubbio che la loro religiosità si ancorasse a un vago attaccamento alla ragione più che a un qualche impegno esistenziale rivolto a un Dio personale. Rispetto a loro, è ben più radicale la posizione di La Mettrie, di Helvétius e di d’Holbach: il loro è un ateismo materialista e dichiarato, che farà la sua comparsa solo in un secondo momento e intenderà l’oppressione religiosa come legata a filo doppio a quella politica. Anche in questi tre autori tanto radicali affiorano tuttavia momenti di sospensione del giudizio che esprimono un’inquietudine interna e non soltanto verbale. In questa prospettiva, in uno dei suoi ultimi testi – Ricapitolazione – Helvétius si dichiara rispettoso del Cristianesimo e si difende dall’accusa di averlo attaccato nei suoi scritti. Una simile tensione ritorna, con maggiore enfasi, in d’Holbach, il quale nel suo Sistema della natura fonda l’ateismo su una progressiva demolizione dei principali assunti cristiani (l’immortalità dell’anima, l’immaterialità del pensiero, ecc), liquidando la religione come un’indebita messa da parte della ragione. Secondo d’Holbach dietro al culto e alla preghiera si nasconde la volontà umana di ingraziarsi Dio contro gli altri uomini, di ottenere favori personali, di vincere la giustizia divina tramite la preghiera: quest’ultima non è soltanto assurda, è anche profondamente immorale. Ad avviso di d’Holbach, infatti, “la preghiera è un atto irragionevole che dovrebbe far arrossire”: l’ateismo, invece, è segno inconfondibile di autonomia, di moralità e di libertà. Eppure anche d’Holbach rivela qualche incertezza e descrive l’ipotetica preghiera che un ateo potrebbe rivolgere a Dio qualora si trovasse al Suo cospetto. Con tale preghiera, l’ateo si scuserebbe per non aver capito, durante la sua vita, che Dio esisteva: ma potrebbe in ogni caso giustificarsi che, pur essendo ateo, ha sempre agito virtuosamente, cioè seguendo i dettami della ragione. La preghiera d’holbachiana si struttura come atto d’accusa verso un Dio che non s’è lasciato conoscere all’ateo e, al tempo stesso, come momento di nostalgia e di disperazione.
Qualcosa di simile si trova in Diderot, il quale compone una poesia simile all’invettiva di d’Holbach ma in uno stile più sobrio e conciso, lasciando affiorare un dubbio che gradualmente trapassa in invocazione. È, in definitiva, la preghiera di un libero pensatore dalla cui anima trapelano l’insoddisfazione e l’incertezza. Anche in Diderot si avverte benissimo il rifiuto di una prassi religiosa pigra e sonnolenta, ma anche una mal celata scontentezza dei propri limiti: Diderot apre la propria preghiera spiegando come il corso degli eventi è necessario e immutabile sia che Dio esista, sia che non esista, per poi precisare come la virtù e la verità possano essere amate anche qualora Dio non esista. “Solo un uomo onesto può essere veramente ateo”, specifica Diderot, lasciando affiorare una bizzarra ibridazione di ateismo, materialismo e invocazione a Dio: è specchio di una contraddizione irrisolta, di un’insoddisfazione inquieta coniugata con l’ironia.
Una prospettiva simile si ritrova in Voltaire, l’astro dell’Illuminismo francese e il massimo nemico della religione rivelata: egli si proclama araldo di una religione naturale universale e antidogmatica. Secondo Voltaire, la religione è sottomissione alla ragione e alla virtù che ne deve conseguire: che poi tale ragione venga chiamata Dio è solo una questione terminologica. La stessa Provvidenza altro non è se non l’insieme delle leggi di natura che regolano il mondo. La nostra classificazione delle cose in buone e cattive è la proiezione egoistica delle nostre categorie e si dissolve dinanzi alla necessità del corso degli eventi in un mondo in cui non v’è posto alcuno per la preghiera. Quest’ultima è messa fuori gioco dal fatto che è impossibile ogni intervento divino che interferisca con le leggi di natura. Nel Dialogo tra un bramino e un gesuita, Voltaire afferma che “le preghiere non avrebbero mai potuto disturbare l’ordine dell’universo”, giacché ogni cosa è un anello della grande catena dell’universo, il cui ordine è inalterabile. Non si può allora pregare, a meno che pregare non significhi accettare le cose come sono: “pregare è sottomettersi” al corso degli eventi, scorgendo in essi la cosiddetta volontà di Dio. Anche Voltaire compone la sua preghiera, ne Il sermone dei Cinquanta:
“Dio di tutti i mondi e di tutti gli esseri, la sola
preghiera degna di Te è la sottomissione. Perchè cosa si può chiedere a Colui
che ha tutto ordinato, tutto previsto e tutto stabilito dopo l’origine delle
cose?
Se è comunque permesso manifestare i propri bisogni ad un
padre, allora conserva nei nostri cuori la nostra sottomissione, conserva pura
la nostra religione e liberaci da tutte le superstizioni.
Quando Vi si insulta con indegni sacrifici: abolite questi
misteri infami; quando si disonora la Divinità con favole assurde: annullate per sempre tali favole.
Conservate la purezza dei nostri costumi, l’amicizia che i
nostri fratelli hanno per noi, l'amore che essi hanno per tutti gli uomini, la
loro ubbidienza alle leggi e la saggezza della loro condotta; sia che essi
vivano o muoiano conservali nell'adorazione di un solo Dio, remuneratore del
bene e vendicatore del male; un Dio che non può nascere nè morire, nè avere
suoi simili ma che ha in questo mondo troppi figli ribelli”.
Voltaire sottopone a dura critica la superstizione e si fa alfiere di una religiosità mondanizzata e tramutata in etica. Se volgiamo lo sguardo al suo Dizionario filosofico, alla voce “Dio”, che viene trattata dialogicamente, si trova una definizione interessante: Dio è definito come “signore”, come “padre” e come “giudice”; Voltaire chiarisce che Dio come ragione universale è tale in quanto è sorgente della morale universale degli uomini che fanno uso della ragione. Ciò che resta intenzionalmente poco chiaro è la nozione stessa di Dio: in Voltaire è presente un marcato e scettico pessimismo (che ben si palesa nel Candido), che implicherebbe l’esigenza di invocare Dio, ma ciò equivarrebbe a compiere un gesto irrazionale. Sicché l’invocazione è presente, ma non fine a se stessa, bensì proposta quasi come sfida: il che appare evidente nelle preghiere che appaiono nel Poema sulla legge naturale e nel Poema sul disastro di Lisbona. Soprattutto nella preghiera del secondo dei poemi affiora il tema della speranza, la quale sospinge l’uomo a conformarsi all’ordine naturale. Significativamente nel Dizionario filosofico non compare la voce “preghiera”, a segnalare come essa, nella prospettiva voltaireana, sia stata espunta dalla filosofia.
Un altro autore di importanza capitale è Jean-Jacques Rousseau, del quale è difficile occuparsi in quanto si tratta di una figura poliedrica: egli è infatti illuminista e al tempo stesso preromantico, è razionalista e, insieme, scisso nell’intimo da un turbinio di sentimenti. Egli è cultore della ragione, ma fortemente polemico verso la fredda unilateralità della ragione astratta: è il più profondo e radicale degli Illuministi e, proprio per questo, ha fornito alle generazioni successive spunti di critica verso l’Illuminismo. Per tutti questi motivi, è difficile afferrare la personalità di Rousseau, perennemente in bilico tra due mondi. Ma per quel che riguarda la preghiera abbiamo un testo che non lascia dubbi e non presenta difficoltà di classificazione: la “Professione di fede del vicario savoiardo” contenuta nell’Emilio. In questo testo, la ipersensibilità dei sentimenti di Rousseau appare con prepotenza, testimoniando una profonda religiosità incentrata sulla religione naturale. Anche in ambito religioso, Rousseau è illuminista e, insieme, preromantico: a suo avviso, infatti, nella religione la ragione coopera col sentimento e con l’istinto senza escluderli, illuminando piuttosto ciò che essi manifestano. Si tratta di una luce interiore che non ha il compito di disfarsi astrattamente di sentimenti e di passioni, ma di indirizzarli a quell’equilibrio naturale che la civiltà ha compromesso. Secondo Rousseau, la natura dell’uomo è fondamentalmente buona e ha in sé l’amore verso se stessi e la pietà verso gli altri: tale natura originaria dev’essere riscoperta al di là delle sovrastrutture sociali, culturali, e politiche che l’uomo ha creato nel corso della storia. È questa l’idea (centrale in Rousseau) del ritorno alla natura e alla sua religione pura, che è stata poi occultata dai dogmi, dalle superstizioni, dalle astrattezze teologiche. Si tratta allora di eliminare i libri e di non ascoltare più gli uomini che pretendono di rappresentare Dio: l’unico libro che rappresenta “l’essere degli esseri” (così Rousseau definisce Dio) è il libro del sentimento scaturente dal contatto con la natura. Solo da questo libro si apprendono i veri e unici dogmi, quelli della religione naturale: tali dogmi sono due, a) l’esistenza di Dio, b) la libertà spirituale dell’anima e, dunque, la sua immortalità. Tutto ciò che la religione positiva ha costruito sopra questi due dogmi sono indebite aggiunte che coprono la verità con veli più o meno oscuri. Nel Contratto sociale, poi, questi due dogmi fondamentali della religione naturale vengono declinati come articoli di un “credo civile”.
Soffermiamoci ora sulla “Professione di fede del vicario savoiardo” per esaminare come il sentimento del sacro venga vissuto nella coscienza di Rousseau: egli avverte che il mondo è retto da una volontà ordinatrice, potente, buona, intelligente, la quale però si sottrae ai sensi e all’intelletto dell’uomo; a tal punto che più si pensa a Dio e più ci si confonde. Da questa constatazione trae origine la preghiera che Rousseau rivolge alla divinità: “quanto meno la capisco, tanto più la adoro”. In questa prospettiva, l’uso più degno della ragione è di annichilirla dinanzi alla grandezza di Dio, col quale Rousseau intrattiene un rapporto intimo: ma sotto questa carica di sentimenti permane il filosofo, giacché si tratta di sfogo umano più che di certezza. In altri termini, si ha una religione depotenziata, nella quale il sentimento e la ragione si confondono e si mescolano.