LA PREGHIERA NELLE SCRITTURE |
Si tratterà anzitutto di abbozzare una definizione di preghiera: in generale, essa è una relazione col divino col quale si comunica o per relazionarsi o per avanzare richieste. Si tratta, naturalmente, di una definizione tropo generica, anche alla luce del fatto che gli atti di comunicazione col divino sono di vario genere (anche il rito e il sacrificio implicano una comunicazione col divino senza per ciò essere preghiere). Precisiamo allora che la preghiera è una comunicazione che fa uso del linguaggio, della gestualità. Ma anche con questa nuova definizione sorgono problemi: infatti, gli atti linguistici sono di vario genere e anche gli incantesimi, non meno delle preghiere, fanno ricorso a essi.
Si tratta allora di distinguere la religione e la preghiera dalla magia e dall’incantesimo: è intorno a questo tentativo che s’è sviluppato un vivacissimo dibattito nell’Ottocento. In particolare, Taylor e Frazer erano convinti che le tappe di sviluppo fossero identiche per tutti i popoli e che, nella fattispecie, ciascun popolo partisse dal magico (incentrato su spiegazioni analogiche), per poi passare alla religione (la quale fa uso di spiegazioni analogiche e causali), per approdare finalmente alla scienza (che ricorre esclusivamente a spiegazioni causali).
Lo specifico della preghiera esprime un rapporto di dipendenza e di creaturalità verso il divino, in un’ottica che può essere ora di gratuità, ora di utilitarismo. Rispetto all’incantesimo, che impiega formule magiche stereotipate, la preghiera presenta una maggiore spontaneità, una sorta di gratuità. Col magico, poi, si realizza un controllo automatico della natura e del divino tramite la ripetizione di formule; con la preghiera, invece, si evidenzia la sottomissione al divino a cui ci si rivolge, lasciando intatta la posizione delle due parti in dialogo. Ancora, gli esiti della preghiera non sono certi (non sappiamo se essa sarà esaudita oppure no), mentre quelli dell’incantesimo lo sono immancabilmente. Posta questa distinzione, è bene ricordare che, storicamente, preghiera e magia si sono spesso sovrapposte, confondendosi tra loro: è in questa prospettiva che si spiega l’incessante preoccupazione dei Padri della Chiesa di giustificare il senso della preghiera anche qualora non fosse stata esaudita.
Nella storia, s’è poi verificato il tentativo di “magicizzare” le preghiere, come nel caso dei “voti” fatti ai santi: in questo modo, ci si è allontanati dal senso autentico della preghiera per avvicinarsi alla magia e alla sua ritualità.
Un altro problema che non può essere trascurato è quello della documentazione storica delle preghiere: come abbiamo detto, la preghiera è un atto di comunicazione, ma nei documenti di cui disponiamo di verifica necessariamente una semplificazione, giacché si ha a che fare solamente con testi; col che, è drasticamente ridotta la complessità del fenomeno, che non può in alcun caso essere ridotto ai testi delle preghiere. Tanto più che la preghiera s’accompagna quasi sempre a gesti, che nei casi più fortunati le fonti ci permettono di ricostruire: così, sappiamo che era usanza diffusa innalzare le mani, pregare rivolti a Oriente, e così via.
Oltre a una ricca documentazione sulla preghiera, disponiamo anche di parecchi scritti di riflessione filosofica sulla preghiera: e ciò già a partire dal III secolo a.C., col testo Sulla preghiera di Origene. Va detto che la riflessione sulla preghiera fu condotta non solo da filosofi in senso stretto, ma anche dagli stessi credenti, che nel riflettere sulla preghiera stavano di fatto già pregando. Il vero discrimine è Anselmo da Aosta, l’ultimo autore in cui preghiera e riflessione su di essa si identificano: la sua “prova ontologica” racchiude in sé le due dimensioni.
Abbiamo detto che i tipi di preghiera sono, fondamentalmente, due: possiamo però tentare di individuarne altri, pur nella consapevolezza che, in definitiva, possono essere ricondotti ai due tipi fondamentali.
1) La “preghiera di richiesta”, già presa in esame, è quella con la quale letteralmente si prega, si implora qualcosa di cui si manca.
2) C’è poi la “preghiera di confessione”, tipica della tradizione giudaico-cristiana: con questa preghiera, l’orante chiede perdono per i suoi peccati.
3) La “preghiera di intercessione” è quella con la quale l’orante prega per qualcun altro, al fine di salvarlo: questa preghiera dev’essere messa in relazione col dogma cristiano del Purgatorio.
4) La “preghiera di lode e di benedizione” è quella mirante a elogiare Dio.
5) La “preghiera di adorazione”, tipica dei monoteismi, è la preghiera con la quale si mette in evidenza il divario tra la creatura e Dio, abissalmente distanti tra loro.
6) C’è poi la “preghiera di unione estatica”, propria della tradizione mistica: con essa, si tende a unire la creatura al creatore, realizzando una sorta di fusione col divino.
Occorre poi dire che la preghiera s’accompagna spesso ad altri gesti: il che ci porta a capire come, accanto a quella spontanea, esista anche una preghiera più ritualizzata e gestuale; a questa distinzione s’aggiunge poi quella tra “preghiera privata” e “preghiera pubblica”. In particolare, i gesti coi quali s’esprime la preghiera sono le cantilene, il batter le mani, la genuflessione, la prosternazione, la danza, il toccare l’oggetto sacro, e così via. Vi sono poi oggetti che facilitano la preghiera (pensiamo al rosario) e periodi da cui la preghiera dipende (pensiamo alle preghiere per la pioggia o per il raccolto). Inoltre, vi sono preghiere “specialistiche”, recitate dai sacerdoti, e altre d’uso comune.
Soffermiamo la nostra indagine sulla tradizione ebraica, in particolare sulla Bibbia ebraica, vale a dire l’Antico Testamento. La lingua ebraica, distingue tra una preghiera in prosa, spontanea e libera (designata dalla radice “PLL”), e una preghiera in versi, composta da espressioni stereotipe nei salmi (questa preghiera è designata dalla radice “HLL”). A legare queste due diverse specie di preghiere è il termine ebraico che significa “servizio”, ossia l’insieme della preghiera e del sacrificio compiuto nel tempio. Così, nel Salmo 141, il rapporto tra preghiera e sacrificio appare in tutta la sua evidenza; e in altri passi (Isaia, 56, 7) si dice che il tempio nel quale si compiono i sacrifici è la “casa della preghiera”, una preghiera intesa collettivamente e ritualmente. Un’altra caratteristica che merita d’essere sottolineata è che il Dio dell’Antico Testamento è detto “Tu che rispondi alla preghiera” (Salmo 65, 2): a segnalare come Dio ascolti le preghiere a Lui rivolte dagli uomini. Nei Salmi, si registrano due grandi tematiche: a) la grandezza di Dio; b) le esigenze degli uomini. Ciò significa che Dio è inteso sia in se stesso sia nei suoi rapporti con gli uomini. Si esaltano le opere della creazione (Salmo 8), dalle quali traspaiono la gloria e la bontà divina, e si elogia il modo in cui Dio governa la storia ricordandosi del suo popolo (Salmi 77 e 78). Così, accanto alle preghiere di esaltazione e di adorazione divina, vi sono quelle di richiesta, con le quali si chiede a Dio il benessere delle greggi, la fecondità delle coppie, l’abbondanza dei raccolti, la guarigione dalla malattia (avvertita come colpa per i peccati), la protezione dal peccato.
Lo studioso tedesco Hermann Gunkel ha proposto una tripartizione dei Salmi, i quali, come abbiamo visto, sono poesie che molto probabilmente venivano cantate: secondo lo studioso tedesco, vi sono anzitutto a) gli “inni”, che celebrano la meraviglia della creazione e degli interventi divini nella storia. In questa prospettiva, nel salmo 104, vengono cantate le meraviglie di un Dio ordinatore del mondo e, nel salmo 106, si elogia l’intervento nella storia da parte di Dio, il quale ha scelto un popolo e con esso ha stipulato un patto, eleggendolo e liberandolo dalla schiavitù in Egitto. Vi sono poi salmi che rientrano in 2) “lamentazioni” (sia individuali, sia collettive), con le quali si deplora la condizione presente da cui si chiede di essere liberati. Così, il salmo 22 è una lamentazione di un singolo abbandonato da Dio e che si proclama “verme”, in un’angoscia tipica di chi si sente abbandonato da tutti e invoca l’ausilio divino. Vi sono poi salmi che possono essere ascritti nella categoria dei 3) “ringraziamenti”, coi quali si rende grazie per i benefici ottenuti: il salmo 30, ad esempio, si presenta come un ringraziamento per aver riconquistato la salute.
In precedenza, abbiamo detto che, accanto a quelle in versi, esistevano anche preghiere in prosa, delle quali è costellata l’intera Bibbia: e se i Salmi sono isolati e sconnessi tra loro, le preghiere in prosa sono invece inserite in precisi contesti. Così, nell’Esodo (32, 11, 14) Mosè prega Dio di risparmiare il suo popolo dall’ira scatenata dal vitello d’oro; e nel secondo libro dei Re (19, 15, 19) Ezechia prega Dio affinché Gerusalemme venga liberata dall’assedio degli Assiri. Se poi vogliamo lo sguardo al libro di Giuditta o a quello di Tobia, vi troviamo preghiere che sono, sì, contestualizzate, ma anche costruite appositamente in una sorta di pedagogia della preghiera: così, nel libro di Giuditta (cap. 9) troviamo una lunga preghiera che esalta la resistenza che Israele ha condotto contro i Pagani e le loro tentazioni. Nel libro di Tobia, poi, affiorano innovazioni significative: compare già il tema della vita eterna (si parla infatti di “eterna dimora”), che era sconosciuto nella tradizione ebraica precedente, e accanto ad esso compare il tema della sessuofobia, che sarà ereditato e potenziato dai Cristiani. Perfino i libri dei Profeti presentano numerose preghiere: il libro di Geremia ne è costellato, anche alla luce del fatto che Geremia è un profeta che vive in modo tragico la propria vocazione, mette sempre in dubbio le proprie competenze e si rivolge senza sosta a Dio. Nei libri precedenti a quello di Tobia, la preghiera era sempre rivolta direttamente a Dio: col libro di Tobia, invece, è introdotta la mediazione angelica; Tobia, infatti, invoca un angelo affinché questi porti la sua preghiera a Dio. Anche nel giudaismo ellenistico si diffonde la figura dell’angelo come mediatore tra Dio e la materia, ed è precisamente in questo significato che lo troviamo in Filone di Alessandria, ancorché egli si esprima in termini un po’ diversi. Nel libro di Tobia (12, 12), l’angelo Raffaele dice che, mentre Tobia pregava, egli portava al cospetto di Dio l’attestato di tale preghiera. Oltre alla figura dell’angelo e all’ammissione della sopravvivenza dell’anima anche dopo la morte, comincia ad affermarsi nell’ebraismo la possibilità di pregare per i morti: ciò è reso possibile tramite la distinzione tra un “giudizio individuale” (col quale è giudicato l’individuo immediatamente dopo la sua morte) e un “giudizio universale” (col quale l’individuo verrà giudicato alla fine dei tempi). Infatti, la preghiera per i morti ha senso solo in un contesto nel quale il giudizio formulato non è ancora quello finale, con la conseguenza capitale che le preghiere dei vivi possono mutare la sorte dei morti.