LA TRADIZIONE MONASTICA |
Le premesse della tradizione monastica stanno nel passaggio dalla preghiera intesa come atto puntuale alla preghiera concepita come condizione permanente: passaggio che, come abbiamo visto in precedenza, avviene con Gregorio di Nissa e con Origene e al quale non sono certo estranei filosofi come Giamblico e Proclo con la loro concezione della fusione unitiva con Dio.
Il monachesimo nasce a cavallo tra il II e il III secolo d.C. in Egitto, terra nella quale vivono quasi in contemporanea Antonio e Pacomio: il primo è il prototipo del monachesimo anacoretico, mentre il secondo è il padre del monachesimo cenobitico, ossia vissuto in comunità e scandito da regole; queste regole sono state tradotte da Gerolamo, il quale ha sperimentato in prima persona la vita monastica e ne ha divulgato i principi. Le due esperienze di Antonio e di Pacomio influenzano tutta la tradizione monastica successiva, anche grazie a un’altra fonte del monachesimo: Basilio, il quale scrive le sue regole nel IV secolo d.C. e ad esse si rifaranno gli Ortodossi (a quelle di Pacomio si rifanno invece i Cristiani d’Occidente).
Il monachesimo contribuisce in maniera determinante alla formazione della cultura dell’Occidente cristiano e noi lo analizzeremo soprattutto nella sua forma pacomiana, che ha trovato la sua piena realizzazione nei monasteri. Questi ultimi sono descritti da Gerolamo come sovraffollati di monaci, quasi come se fossero villaggi autonomi e, per questo motivo, poggianti su regole precise.
Vi fu una vivace disputa su quale forma di monachesimo (quella di Pacomio? O quella di Antonio?) fosse superiore, ossia più difficile da seguire: molti additarono la forma di Antonio come superiore per il fatto che in essa ci si trova da soli con se stessi; ma Pacomio, che dapprima ebbe un’esperienza anacoretica (dalla quale restò delusissimo, a tal punto da abbandonarla), sostiene che il monachesimo comunitario da lui proposto è ben più difficile da seguire rispetto a quello di Antonio proprio perché implica il contatto con gli altri monaci. Nei monasteri pacomiani si attribuiva grande importanza al lavoro (col quale si producevano soprattutto ceste) e si pregava molto in forme di preghiera sia comuni sia solitarie (il lavoro stesso era inteso come forma di preghiera rivolta a Dio), in una prospettiva del tutto affrancata dal magismo. Tramite le regole, conosciamo soprattutto preghiere “organizzate” e collettive che si tenevano in questi monasteri, anche alla luce del fatto che, sviluppatosi,il Cristianesimo andava sempre più istituzionalizzandosi in riti, cerimonie e formule. Una di queste preghiere è la cosiddetta “catechesi”, la quale si svolgeva per due volte alla settimana (il martedì e il venerdì) entro gruppi ristretti di monaci. Ciò rispecchia la struttura stessa del monastero, che è retto da un “padre superiore” ed è poi suddiviso in tante “unità” (dette “case”), ciascuna delle quali ha un suo rettore. In ognuna di queste “case” si svolge la catechesi e poi, il sabato e la domenica, tutte le “case” si radunano per una catechesi tenuta dal padre generale in persona. In che cosa consisteva la catechesi? Essa si risolveva in una spiegazione meditativa della Scrittura (e del resto la vita stessa del monaco si configura come ininterrotta meditazione sulle Scritture), spiegazione dalla quale prendeva a svilupparsi la preghiera che accompagnava quotidianamente i monaci. Altre prassi assai diffuse erano quella del digiuno e quella del silenzio. Inoltre, per poter accedere al monastero, bisognava saper leggere e, una volta entrati, era obbligatorio imparare a memoria un buon numero di salmi e l’intero Nuovo Testamento. All’interno del monastero v’erano poi numerosi codici che venivano letti e poi riposti nella loro sede: ogni forma di disordine era messa al bando.
Significativamente qualcuno ha paragonato il monastero di Pacomio a un’enorme caserma: e del resto Pacomio stesso ebbe esperienze militari, allorché fu reclutato (anche se contro la sua volontà).
Accanto alla catechesi, v’erano poi le “sinassi”: esse erano vere e proprie riunioni comunitarie dei monaci. Per comprendere questo fenomeno, occorre tener presente che a quei tempi (e in parte ancora oggi) la figura del monaco e quella del prete erano ben distinte tra loro (basti ricordare che a Pacomio fu proposta l’ordinazione sacerdotale, che egli rifiutò in più occasioni) e che in fondo il monachesimo era una via alternativa per vivere il Cristianesimo; la clericalizzazione del monachesimo è infatti un fenomeno successivo, che si afferma a partire dal IX secolo. In questa prospettiva, le sinassi erano riunioni di preghiera che si tenevano per due volte alla settimana (il sabato e la domenica): una volta erano i monaci a uscire dal monastero e a recarsi dal prete, e un’altra volta era il prete ad accedere al monastero per prender parte a tali riunioni. Quando si svolgeva all’interno del monastero, la sinassi avveniva nelle “case” ed era costituita da preghiere comuni nelle quali i monaci recitavano a turno passi delle Scritture imparati a memoria senza però fornire di essi una spiegazione (come invece accadeva nella catechesi). Anche l’eucarestia avveniva due volte a settimana e la preghiera individuale era ammessa solo nei momenti “vuoti” o quando il monaco si trovava da solo nella propria cella (infatti, ogni monaco aveva a sua disposizione una cella la cui porta tuttavia non poteva mai essere chiusa).