HUME


 

 

Già nel IV libro del Saggio sull’intelletto umano di John Locke si trova il manifesto programmatico della teologia naturale, seppur mascherato dal cauto intento di conciliarla con quella rivelata. Si apriva in tal maniera quel conflitto che avrebbe attraversato tutto il XVIII secolo, conflitto rinforzato anche dallo svilupparsi del deismo. Tutto ciò confluisce nel pensiero di David Hume: da un lato, egli riconosce la peculiarità del bisogno religioso dell’uomo, ma dall’altro rinuncia alla possibilità di ricondurre tale bisogno alla razionalità: e per ciò lo confina nell’irrazionale. È la prima volta che viene compiuto tale passo nella storia del pensiero occidentale. Proprio perché confinato nell’irrazionale, il bisogno religioso deve essere controllato e dominato dalla ragione. Così inteso, il fenomeno religioso si configura come inganno, come inganno dinanzi al quale è bene far valere una mistura di “sano scetticismo e prudente agnosticismo”. Il problema della religione è affrontato da Hume nella Storia naturale della religione (1757) e nei Dialoghi sulla religione naturale, che nella versione definitiva vengono pubblicati postumi nel 1779, benché la stesura risalga a trent’anni prima: Hume non volle pubblicarli perché ne avvertiva la pericolosità. Volle invece pubblicare la Storia naturale della religione perché si trattava di un’opera più descrittiva. A ben vedere, i Dialoghi e la Storia sono opere complementari, ancorché siano diversissime: la prima è un’opera altamente filosofica, mentre la seconda si configura come un’indagine storico-sociologica sul fenomeno religioso. Alcuni studiosi hanno detto che i Dialoghi costituiscono una sorta di premessa teorica rispetto alla Storia: essi, infatti, approdano alla conclusione che non è possibile sostenere razionalmente l’esistenza di Dio e la Storia non fa altro che cercare altrove (dunque non nella ragione) i fondamenti della credenza religiosa, per poi trovarli nella passione, nel bisogno, ecc. Si tratta di due opere che sono complementari ma anche conclusive rispetto a un tema vivissimo fin dall’esordio dell’attività speculativa di Hume, della quale rappresentano la conclusione. Il primo confronto con questo tema va ricercato nel Trattato sulla natura umana (1737-1738), del quale doveva far parte in origine anche un capitolo sui miracoli, sul culto e sulle testimonianze storiche a riguardo: un capitolo che tuttavia Hume, rendendosi conto della pericolosità da esso implicata, ritenne opportuno lasciare nel cassetto. In quel capitolo, si diceva che la tradizione religiosa poggia su tre nozioni fondamentali (anima, mondo, Dio) e ne accetta la verità sulla base di una pretesa verità rivelata. Dal canto suo, la filosofia vorrebbe impossessarsi di tali verità, forzandole a un’evidenza dimostrativa: ma per Hume questa è un’operazione illegittima, giacché la ragione non può dimostrare la loro esistenza e, da un punto di vista razionale, le tre nozioni fondamentali restano puri nomi fittizi. E ciò è un’inaggirabile conseguenza del Trattato: infatti, nella prospettiva humeana, alla base della conoscenza vi sono impressioni e idee che si associano, venendo in ciò favorite dalle nostre disposizioni psicologiche (memoria, abitudine, ecc). Le associazioni acquisite tramite la memoria, l’abitudine e l’immaginazione hanno una valenza soggettiva e dunque probabile, mai certa. La ragione si è anche spinta a cercare l’esistenza di una causa prima: ma si tratta, per Hume, di uno sforzo vano. La riduzione del principio di causalità a quello dell’abitudine blocca infatti la pretesa della ragione di trovare cause ultime. Quanto più si sforza la ragione in quel tipo di dimostrazione, tanto più la si conduce allo scetticismo, col risultato che l’unica utilità accertabile della ragione è di tipo strumentale: essa può soltanto gettare una luce tenue su tutto questo, ma non può in alcun caso dimostrare. Quello di Hume è dunque un razionalismo “debole”, che esplicitamente dirige i suoi strali contro quello “forte” della metafisica dogmatica e finisce per minare tutte le basi della religione: infatti, le idee di anima, di mondo e di Dio non sono sostenibili, poiché l’esperienza non ce ne dà impressioni. Ciò non di meno, restano le nostre convinzioni a riguardo: solo l’immaginazione ci rende la vita possibile, salvandoci dalle contraddizioni di una ragione che, scatenata, produrrebbe il deserto. Sicché, lo scetticismo di Hume rigetta ogni dimostrabilità razionale di Dio e, insieme, riconosce che ciò di cui la ragione non può dimostrare l’esistenza è anche ciò di cui essa non può dimostrare l’inesistenza. Il suo, dunque, è scetticismo, non ateismo. Certo, che su questa linea si possa aprire uno sbocco ateo è indubitabile, giacché ricondurre ogni convinzione al flusso delle percezione vuol dire aprire la strada a un totale relativismo. Nel 1748, Hume rielabora quel capitolo espunto dal Trattato e lo inserisce all’interno delle Ricerche sull’intelletto umano, strutturandolo in due parti direttamente vertenti sul problema della religione e, specificamente, sui miracoli, sulla provvidenza e sulla vita futura. In questa nuova versione di quel capitolo, l’attacco alla pretesa verità della religione è compiuta senza troppe novità: l’obiettivo polemico è sempre il tentativo della ragione di valicare i limiti dell’esperienza. Secondo Hume, infatti, la religione dovrebbe rientrare nei suoi umili confini di semplice fede, fede nei confronti della quale il nostro autore non rivela alcuna ostilità. Per quel che concerne i miracoli, il fatto stesso che non possiamo avere alcuna esperienza di essi ma che dobbiamo credervi soltanto sulla base di testimonianze, implica che di essi sia bene diffidare: “nessuna testimonianza umana può avere tanta forza da provare un miracolo”, scrive Hume. La seconda parte di quello che in origine doveva essere un capitolo del Trattato è articolata in forma dialogica: richiamandosi ad Epicuro, Hume confuta le prove a posteriori dell’esistenza di Dio (quella che dagli effetti risale alle cause e quella che dall’ordine del mondo risale al suo ordinatore), insistendo soprattutto sull’inapplicabilità del concetto di causa in generale e specialmente nei confronti di un essere (Dio) di cui non abbiamo alcuna prensione sensoriale. Quanto poi all’analogia secondo cui Dio è come un architetto, Hume la liquida definendola icasticamente come “sotterfugio venato di antropomorfismo”. Questo stesso scetticismo, combinato con l’agnosticismo, sta al cuore dei Dialoghi, nei quali appare evidente lo svuotamento totale della nozione di preghiera in Hume: nel corso dei vivaci dialoghi tra i tre personaggi (Demea, il teologo tradizionalista; Cleante, il propugnatore della religione naturale; Filone, il critico scettico, alter ego di Hume stesso), il nostro autore asserisce che nelle cose di religione siamo come “stranieri in un paese sconosciuto”. Si ha una vera e propria corrosione di ogni possibilità di dimostrazione dell’esistenza di Dio e degli altri punti cardinali della religione, a cui segue la constatazione dell’impossibilità della ragione di pronunciarsi sulla natura di essi. Resta soltanto la probabilità, sulla quale però non si può fondare la religione perché la probabilità apre le porte allo scetticismo. Secondo Hume, ognuno può credere oppure no, l’importante è che sappia che la sua fede è soggettiva e tale da non potersi imporre ad altri. Passioni, paura, turbamenti dell’anima danno luogo al fenomeno della religione e alle conseguenti oppressioni, superstizioni e imposture. L’ufficio proprio della religione dovrebbe essere quello di rinforzare la tolleranza e la coesione della vita umana, promuovendo la virtù. Solo i filosofi comprendono la religione per quello che dovrebbe essere, ma il paradosso è che essi sono i soli che non hanno bisogno di essa; sul versante opposto, il volgo non sa cosa sia la religione, ma ha bisogno di essa: di qui la “assurda pratica” della preghiera a cui si abbandona il volgo in un “rapimento estatico della creduloneria bigotta”. La preghiera è dunque il culmine dell’assurdità, è una proiezione psicologica con cui ci si immagina un Dio a propria immagine e somiglianza al quale rivolgersi. Ma rivolgersi a Dio è uno sfogo passionale, un rivolgersi a un ente cui si attribuisce un insaziabile desiderio di essere adulato. Non senza forzature, poi, Hume – quasi con una excusatio non petita – dice che il Cristianesimo, epurato grazie allo scetticismo, è la forma più alta di religione.

L’oggetto della Storia sono invece le origini della religione nella natura umana: origini che secondo Hume debbono essere ricercate negli istinti dell’uomo (amor proprio, amore per la prole, gratitudine, ecc). Per rendersi conto di ciò, dice il nostro autore, basta volgere lo sguardo alla storia dell’umanità, storia che è ritmata dal passaggio da Stati in cui prevale il politeismo a Stati (apparentemente) superiori in cui domina il monoteismo. Per lo più, le due forme si presentano commiste: il politeismo nasce dai sentimenti umani, coi loro sommovimenti emotivi, mentre il monoteismo trova il suo fondamento nell’osservazione razionale della natura. È la ragione che vuole epurare il monoteismo dal politeismo e, quando ce la fa, la religione cessa di poggiare sui sentimenti, sull’irrazionale da cui è sorta, e diventa un atteggiamento filosofico, cessando di essere religione in senso autentico. Sicché il monoteismo è un’astrazione operata dalla ragione sul politeismo. Per Hume è dunque il monoteismo che rischia di ricacciare l’umanità nella barbarie, giacché esso reca in sé il germe del fanatismo (il quale era sconosciuto al pluralismo politeistico). Di questo fanatismo è infettato fin da principio la religione cattolica, che è per Hume una “corruzione del teismo” portata ai limiti estremi. Ogni monoteismo che non sia scetticamente depurato favorisce “l’avvilimento e l’umiliazione” dell’uomo nel suo sentirsi infinitamente distante da Dio. Rispetto al monoteismo, è dunque preferibile il politeismo, che se non altro garantisce un pluralismo di dèi foriero di tolleranza e a distanza di sicurezza da ogni fanatismo.

 

 


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