GIULIO PRETI
SWIF, Edizioni Digitali di Filosofia.
Dopo un iniziale interesse per gli
studi di glottologia e di filologia indiana, Giulio Preti si laurea nel 1933 a Pavia, sua città natale, con una tesi sul pensiero di Husserl. Fra i suoi maestri Adolfo Levi,
Guido Villa e, per l’indianistica, Luigi Suali. Durante gli anni di università
l’amicizia con Enzo Paci, anch’egli studente a Pavia, lo conduce a frequentare
quella generazione di giovani filosofi, letterati, poeti e artisti che si
riuniva a Milano intorno ad Antonio Banfi. La vicinanza con il fervore
intellettuale milanese, la cui vivacità attrae anche altri circoli letterari e
artistici italiani (a cominciare dagli ermetisti fiorentini e dai pittori della
scuola romana), si svolge sotto il segno di un antifascismo dapprima culturale
poi apertamente militante, e condiziona l’origine del percorso filosofico di
Preti. Preti partecipa in misura marginale all’avventura di Corrente, ma
entra sin dall’inizio nella redazione di Studi filosofici, la rivista
che esprime le posizioni filosofiche di Banfi e del suo gruppo (oltre a Preti,
Paci, Cantoni, Bertin e la Denti) e che, dal 1940 al 1944 e in seguito dal 1946
al 1949, promuove un profondo rinnovamento della filosofia italiana. Da Banfi,
Preti eredita il senso acuto della crisi spirituale e morale della cultura
contemporanea, e con esso un sentimento di precarietà storica da cui trae
origine la ricerca di una “razionalità nuova” in grado di esprimere
teoreticamente le profonde trasformazioni in atto nella vita contemporanea. Nel
perseguire tale programma, che si fa in Preti identità tra razionalità
scientifica e cultura democratica (Praxis ed empirismo, 1957), Preti si
rivolge alle correnti teoriche più significative del pensiero contemporaneo,
procedendo ad un’originalissima sintesi tra tradizione “trascendentale” e
formale di marca banfiana (neokantismo e fenomenologia) e “filosofie della
prassi” (empirismo logico e pragmatismo, cui, almeno sino alle violente
polemiche scatenate dall’apparizione di Praxis ed empirismo, Preti tenta
di accostare anche la riflessione di Feuerbach e del giovane Marx). Già negli
anni di apprendistato banfiano, d’altra parte, si svolge un attento confronto
con le correnti filosofiche italiane, a cominciare dall’attualismo gentiliano,
che trova una prima, interessantissima occasione per manifestarsi in occasione
del dibattito sull’immanenza condotto con Carmelo Ottaviano intorno alla metà
degli anni ’30. Emergono qui con chiarezza sia la formazione neo-kantiana (di
tradizione marburghese) e husserliana di Preti, sia la sua attenzione verso il
pragmatismo. Ma nel corso degli anni ’40 Preti si accosta con sempre maggior
decisione alle tematiche dell’empirismo logico, in cui ravvisa quella tecnicità
filosofica, condensata essenzialmente nelle tesi convenzionaliste e
nell’analisi della verificazione, mediante cui
integrare i preesistenti tratti banfiani di quella “risoluzione razionale del
reale” che costituisce il cuore del suo pensiero critico. A questa
complementarità fra tradizione razionalista, fenomenologica
e kantiana, ed istanze empiristiche è dedicato il volume del 1943 Idealismo
e positivismo. Finita la guerra, durante la quale prende parte ai
movimenti resistenziali nel pavese, la maturità speculativa di Preti, dal 1954
docente all’Università di Firenze, si afferma con crescente risolutezza.
Risalgono a questi anni, oltre ad una mai interrotta collaborazione a periodici
di cultura e di attualità (dal Politecnico di Vittorini alla Fiera
letteraria a Paese sera), i suoi contributi forse più
significativi : le grandi indagini sulla logica stoica e terministica
medievale, il Newton ed il Leibniz, gli scritti teoricamente più
impegnativi come Linguaggio comune e linguaggi scientifici, sino ai due
grandi volumi del 1957, Praxis ed empirismo e Adam Smith. Ad essi
Preti aggiunge una cospicua serie di collaborazioni a voci di enciclopedie e
dizionari (tra cui il Dizionario di filosofia di Abbagnano, di cui
curerà le voci logiche) e ad opere di divulgazione (ricordiamo fra queste
soltanto la collaborazione al Calendario del popolo all’inizio degli
anni Cinquanta). Nel riassumere brevemente i caratteri generali del pensiero
pretiano, due ci sembrano dunque essere gli elementi salienti. Anzitutto, la
fondamentale tensione etica che lo percorre, e che spinge Preti a considerare
compito e responsabilità del filosofo quella di agire “per modificare l’ethos”
di una data civiltà. Da tale sostrato, che costituisce una delle eredità più
durature dell’insegnamento di Banfi, discende poi la concezione del ruolo della
filosofia, che si fa in Preti disciplina socialmente impegnata e funzionante,
cassirerianamente, da teoria generale delle forme culturali. L’intera sua impresa
teorica si orienterà in tal modo a ricostruire le strutture culturali proprie
di una coesistenza umana libera e democratica – un programma in cui
l’ideale di una “cultura democratica” si salda alla nozione di “scientificità”
del sapere, sola in grado di assicurare una comunicazione fondata su di una
“persuasione razionale”. L’attenzione ai motivi etici, che permea l’intera sua
opera, trova d’altra parte importanti disamine tematiche nei due volumi che
Preti dedica alla filosofia della morale e alle espressioni contemporanee della
problematica dei valori: Fenomenologia
del valore del 1942 e Adamo
Smith del 1957. A quest’ideale etico, sempre presente nell’opera sua,
risponde l’ideale di scientificità del sapere, inteso come forma di
organizzazione razionale delle conoscenze, mediante la quale vengono rese
significanti e comunicabili le esperienze che formano il mondo della nostra
vita, il mondo della “carne” o, banfianamente, l’inesauribile molteplicità del Lebenswelt.
Proprio in quest’articolazione tra piano pragmatico e piano teoretico si svolge
l’intera risoluzione razionale della realtà, che, partendo da una critica
radicale ad ogni metafisica di stampo sostanzialistico, si sviluppa attraverso
una costituzione degli oggetti della conoscenza incentrata sulla distinzione
funzionale tra piano pragmatico della “carne” e piano razionale della
conoscenza comunicabile (un impianto in cui sono tra l’altro riscontrabili
assonanze comportamentiste). Su di essa si incentra, d’altronde, l’originale
interpretazione del principio di verificazione,
che diviene in Preti “teorema fondamentale di una teoria della conoscenza” e
che, concepito alla luce degli esiti olistici ed hempeliani dell’empirismo
logico, viene interpretato operativamente come capacità di un sistema di dar
luogo a conseguenze operativamente valide – un punto in cui l’empirismo si
incontra con il pragmatismo e con la fenomenologia, e in cui la lettura
operazionista del principio di verificazione viene
estesa sino alla singole, ultime esperienze vitali – le Erlebnisse vitali –,
saldandosi alla nozione husserliana di Erfüllung o
“riempimento di senso”. Quest’attenzione al mondo della vita, che conduce Preti
a fare del “senso comune” un ben preciso concetto epistemologico
(differenziandosi, in tal modo, dalla tradizione mooreana e analitica di
“ricostruzione” del senso comune), lo conduce d’altro canto ad affrontare il
problema della storicità del sapere e dell’esperienza – un tema ove
l’influsso pragmatista informa in modo particolare la concezione degli a priori
e della loro evolutività storica. Ed è in questa dinamica tra carattere formale
del sapere razionale e dimensione storica di esso che risiede uno dei grandi
contributi di Preti alla riflessione contemporanea. Tuttavia sembrerebbe, soprattutto
nell’ultima fase del suo pensiero, che Preti tenti una ricerca ulteriore circa
l’effettivo ruolo del pensiero scientifico nella civiltà contemporanea. Tale
indagine, se pare aver spinto Preti ad esplorare molte direzioni (come risulta
ad esempio dai manoscritti e dalle ultime lezioni, pubblicate postume) non
sembra però averlo condotto a descrivere in modo soddisfacente quella
“anti-scienza” adombrata nella nozione di “discorso propagandistico” che chiude
Praxis ed empirismo e che si ritrova in Retorica e logica, l’ultimo
grande volume pubblicato nel 1968. Si è così talvolta parlato (Migliorini) di
“anni del silenzio” a proposito dell’opera pretiana negli anni ’60, in cui,
oltre al crescente isolamento culturale ed accademico, Preti sembra aver voluto
intraprendere un confronto tra conoscenza scientifica e persuasione razionale,
da una parte, e rapporto con le molteplici forme della cultura contemporanea, i
cui caratteri, talvolta descritti banfianamente come “risentimento”, talaltra
denunciati nel loro antiscientificismo in scritti d’occasione, vengono da lui
intravisti ma mai sistematicamente descritti. In questo tragico sentimento di
inafferrabilità del contemporaneo, sembra suggerire Maria Corti, starebbe anche
la radice dell’inconsapevole ma “puntiglioso suicidio” messo in atto da Preti,
partito già malato nell’estate del 1972 per l’isola tunisina di Djerba, ove la
morte lo colse repentinamente. Ed in quest’apertura inconclusa verso il
confronto con la cultura più attuale consiste anche l’estremo motivo d’interesse
dell’opera di Preti.