GIULIO PRETI



Copyright di Luca M. Scarantino e SWIF (24.06.2005).  Pubblicato in queste pagine su autorizzazione dell'autore e dello
SWIF, Edizioni Digitali di Filosofia.


 

PRETIDopo un iniziale interesse per gli studi di glottologia e di filologia indiana, Giulio Preti si laurea nel 1933 a Pavia, sua città natale, con una tesi sul pensiero di Husserl. Fra i suoi maestri Adolfo Levi, Guido Villa e, per l’indianistica, Luigi Suali. Durante gli anni di università l’amicizia con Enzo Paci, anch’egli studente a Pavia, lo conduce a frequentare quella generazione di giovani filosofi, letterati, poeti e artisti che si riuniva a Milano intorno ad Antonio Banfi. La vicinanza con il fervore intellettuale milanese, la cui vivacità attrae anche altri circoli letterari e artistici italiani (a cominciare dagli ermetisti fiorentini e dai pittori della scuola romana), si svolge sotto il segno di un antifascismo dapprima culturale poi apertamente militante, e condiziona l’origine del percorso filosofico di Preti. Preti partecipa in misura marginale all’avventura di Corrente, ma entra sin dall’inizio nella redazione di Studi filosofici, la rivista che esprime le posizioni filosofiche di Banfi e del suo gruppo (oltre a Preti, Paci, Cantoni, Bertin e la Denti) e che, dal 1940 al 1944 e in seguito dal 1946 al 1949, promuove un profondo rinnovamento della filosofia italiana. Da Banfi, Preti eredita il senso acuto della crisi spirituale e morale della cultura contemporanea, e con esso un sentimento di precarietà storica da cui trae origine la ricerca di una “razionalità nuova” in grado di esprimere teoreticamente le profonde trasformazioni in atto nella vita contemporanea. Nel perseguire tale programma, che si fa in Preti identità tra razionalità scientifica e cultura democratica (Praxis ed empirismo, 1957), Preti si rivolge alle correnti teoriche più significative del pensiero contemporaneo, procedendo ad un’originalissima sintesi tra tradizione “trascendentale” e formale di marca banfiana (neokantismo e fenomenologia) e “filosofie della prassi” (empirismo logico e pragmatismo, cui, almeno sino alle violente polemiche scatenate dall’apparizione di Praxis ed empirismo, Preti tenta di accostare anche la riflessione di Feuerbach e del giovane Marx). Già negli anni di apprendistato banfiano, d’altra parte, si svolge un attento confronto con le correnti filosofiche italiane, a cominciare dall’attualismo gentiliano, che trova una prima, interessantissima occasione per manifestarsi in occasione del dibattito sull’immanenza condotto con Carmelo Ottaviano intorno alla metà degli anni ’30. Emergono qui con chiarezza sia la formazione neo-kantiana (di tradizione marburghese) e husserliana di Preti, sia la sua attenzione verso il pragmatismo. Ma nel corso degli anni ’40 Preti si accosta con sempre maggior decisione alle tematiche dell’empirismo logico, in cui ravvisa quella tecnicità filosofica, condensata essenzialmente nelle tesi convenzionaliste e nell’analisi della verificazione, mediante cui integrare i preesistenti tratti banfiani di quella “risoluzione razionale del reale” che costituisce il cuore del suo pensiero critico. A questa complementarità fra tradizione razionalista, fenomenologica e kantiana, ed istanze empiristiche è dedicato il volume del 1943 Idealismo e positivismo. Finita la guerra, durante la quale prende parte ai movimenti resistenziali nel pavese, la maturità speculativa di Preti, dal 1954 docente all’Università di Firenze, si afferma con crescente risolutezza. Risalgono a questi anni, oltre ad una mai interrotta collaborazione a periodici di cultura e di attualità (dal Politecnico di Vittorini alla Fiera letteraria a Paese sera), i suoi contributi forse più significativi : le grandi indagini sulla logica stoica e terministica medievale, il Newton ed il Leibniz, gli scritti teoricamente più impegnativi come Linguaggio comune e linguaggi scientifici, sino ai due grandi volumi del 1957, Praxis ed empirismo e Adam Smith. Ad essi Preti aggiunge una cospicua serie di collaborazioni a voci di enciclopedie e dizionari (tra cui il Dizionario di filosofia di Abbagnano, di cui curerà le voci logiche) e ad opere di divulgazione (ricordiamo fra queste soltanto la collaborazione al Calendario del popolo all’inizio degli anni Cinquanta). Nel riassumere brevemente i caratteri generali del pensiero pretiano, due ci sembrano dunque essere gli elementi salienti. Anzitutto, la fondamentale tensione etica che lo percorre, e che spinge Preti a considerare compito e responsabilità del filosofo quella di agire “per modificare l’ethos” di una data civiltà. Da tale sostrato, che costituisce una delle eredità più durature dell’insegnamento di Banfi, discende poi la concezione del ruolo della filosofia, che si fa in Preti disciplina socialmente impegnata e funzionante, cassirerianamente, da teoria generale delle forme culturali. L’intera sua impresa teorica si orienterà in tal modo a ricostruire le strutture culturali proprie di una coesistenza umana libera e democratica – un programma in cui l’ideale di una “cultura democratica” si salda alla nozione di “scientificità” del sapere, sola in grado di assicurare una comunicazione fondata su di una “persuasione razionale”. L’attenzione ai motivi etici, che permea l’intera sua opera, trova d’altra parte importanti disamine tematiche nei due volumi che Preti dedica alla filosofia della morale e alle espressioni contemporanee della problematica dei valori: Fenomenologia del valore del 1942 e Adamo Smith del 1957. A quest’ideale etico, sempre presente nell’opera sua, risponde l’ideale di scientificità del sapere, inteso come forma di organizzazione razionale delle conoscenze, mediante la quale vengono rese significanti e comunicabili le esperienze che formano il mondo della nostra vita, il mondo della “carne” o, banfianamente, l’inesauribile molteplicità del Lebenswelt. Proprio in quest’articolazione tra piano pragmatico e piano teoretico si svolge l’intera risoluzione razionale della realtà, che, partendo da una critica radicale ad ogni metafisica di stampo sostanzialistico, si sviluppa attraverso una costituzione degli oggetti della conoscenza incentrata sulla distinzione funzionale tra piano pragmatico della “carne” e piano razionale della conoscenza comunicabile (un impianto in cui sono tra l’altro riscontrabili assonanze comportamentiste). Su di essa si incentra, d’altronde, l’originale interpretazione del principio di verificazione, che diviene in Preti “teorema fondamentale di una teoria della conoscenza” e che, concepito alla luce degli esiti olistici ed hempeliani dell’empirismo logico, viene interpretato operativamente come capacità di un sistema di dar luogo a conseguenze operativamente valide – un punto in cui l’empirismo si incontra con il pragmatismo e con la fenomenologia, e in cui la lettura operazionista del principio di verificazione viene estesa sino alla singole, ultime esperienze vitali – le Erlebnisse vitali –, saldandosi alla nozione husserliana di Erfüllung o “riempimento di senso”. Quest’attenzione al mondo della vita, che conduce Preti a fare del “senso comune” un ben preciso concetto epistemologico (differenziandosi, in tal modo, dalla tradizione mooreana e analitica di “ricostruzione” del senso comune), lo conduce d’altro canto ad affrontare il problema della storicità del sapere e dell’esperienza – un tema ove l’influsso pragmatista informa in modo particolare la concezione degli a priori e della loro evolutività storica. Ed è in questa dinamica tra carattere formale del sapere razionale e dimensione storica di esso che risiede uno dei grandi contributi di Preti alla riflessione contemporanea. Tuttavia sembrerebbe, soprattutto nell’ultima fase del suo pensiero, che Preti tenti una ricerca ulteriore circa l’effettivo ruolo del pensiero scientifico nella civiltà contemporanea. Tale indagine, se pare aver spinto Preti ad esplorare molte direzioni (come risulta ad esempio dai manoscritti e dalle ultime lezioni, pubblicate postume) non sembra però averlo condotto a descrivere in modo soddisfacente quella “anti-scienza” adombrata nella nozione di “discorso propagandistico” che chiude Praxis ed empirismo e che si ritrova in Retorica e logica, l’ultimo grande volume pubblicato nel 1968. Si è così talvolta parlato (Migliorini) di “anni del silenzio” a proposito dell’opera pretiana negli anni ’60, in cui, oltre al crescente isolamento culturale ed accademico, Preti sembra aver voluto intraprendere un confronto tra conoscenza scientifica e persuasione razionale, da una parte, e rapporto con le molteplici forme della cultura contemporanea, i cui caratteri, talvolta descritti banfianamente come “risentimento”, talaltra denunciati nel loro antiscientificismo in scritti d’occasione, vengono da lui intravisti ma mai sistematicamente descritti. In questo tragico sentimento di inafferrabilità del contemporaneo, sembra suggerire Maria Corti, starebbe anche la radice dell’inconsapevole ma “puntiglioso suicidio” messo in atto da Preti, partito già malato nell’estate del 1972 per l’isola tunisina di Djerba, ove la morte lo colse repentinamente. Ed in quest’apertura inconclusa verso il confronto con la cultura più attuale consiste anche l’estremo motivo d’interesse dell’opera di Preti.  


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