Il Problema antropologico dell’ agire
a cura di Rosario Coco
PREMESSA
Questa analisi si propone di delineare un profilo della coscienza umana, con l’obbiettivo di individuare quale possa essere il fondamento del nostro agire. Dopo una ricerca essenzialmente antropologica, si passerà ad una disamina di natura etica, che cercherà di stabilire quale fine sia in grado di dare un significato all’esistenza umana.
Intendo la coscienza sia come sede delle facoltà mentali, della percezione, del senso e della ragione, sia come luogo di quel principio, inteso come causa finale o causa ascendente, che costituisce la motivazione ultima di ogni nostra azione. Questa distinzione spiega ancora meglio la differenza tra il discorso di natura antropologica, che tenta di definire come e perché l’uomo è ed agisce cercandone un fondamento a priori, e quello di natura etica, che riguarda le facoltà tramite le quali l’uomo può stabilire un senso e, quindi, porre consapevolmente degli obiettivi nella sua vita.
SCHOPENHAUER, NIETZSCHE E LA VOLONTA’ COME CONSERVAZIONE
In una bella espressione di “Ecce homo” Nietzsche affermava: “L’uomo di per se stesso è la più difficile delle scoperte”.Il ruolo che assume l’uomo nella sua filosofia oltre ad essere di assoluta rilevanza è profondamente innovativo: è l’uomo che non si aspetta più nulla dall’alto, ne tenta di raggiungere una verità celata dietro il fenomeno, ma si confronta con un unico mondo, quello che tocca con mano, quello che lo anima, che lo vivifica e con il quale esso vuole fondersi per abbandonare la strada dell’errore inaugurata da Socrate e proseguita da Cristo. Questo mondo, che pulsa e che rimbomba all’orecchio di chi ha abbandonato i valori della vita, non è altro che il principio vitale di conservazione che anima il cosmo, che già Schopenhauer aveva individuato formulando il concetto di volontà, ovvero l’autoaffermazione cieca e irrazionale della natura che caratterizza anche l’uomo.Per Nietzsche, lungi dall’accettare la soluzione della noluntas, bisogna rispondere alla volontà con la volontà stessa (che non a caso Heidegger chiamerà volontà di volontà) che diventa volontà di potenza, fusione totale con ogni attimo della vita. Da un punto di vista strettamente antropologico, la strada inaugurata da Schopenhauer suggerisce una valida definizione di fondamento dell’agire umano, quella della volontà come principio di conservazione.
LA VOLONTA’ E L’EROS PLATONICO
Ma questo principio porta solo alla mera affermazione egoistica del soggetto, oppure si manifesta in diversi modi e sotto forma di azioni diverse? Per rispondere a questa domanda è utile una riflessione approfondita sul pensiero platonico. Infatti, nonostante siamo di fronte ad un discorso filosofico completamente diverso da quello dei pensatori precedentemente citati (vedi scheda- Platone e la scrittura), si può dire che l’eros platonico sta alla volontà, come la ricerca dell’immortalità sta alla conservazione.
Ma la ricerca dell’immortalità avviene sia nell’ambito del sensibile sia nell’ambito della contemplazione.
Nel Simposio, in quel sapiente sistema di cornici letterarie che porta Diotima ad esprimere il pensiero di un Socrate che a sua volta incarna il pensiero di Platone, leggiamo: (206-b) ἔsti gàr toũto tókoV ẻn kalῷ kài katà tὸ sw̃ma kài katà th̀n yuch́n”- c’è un partorire nel bello sia tramite il corpo sia tramite l’anima. Diotima dimostrerà in seguito che ogni azione verso il bello è finalizzata alla ricerca dell’immortalità e che essa si può raggiungere “partorendo” attraverso il corpo, cioè procreando, oppure attraverso l’anima, producendo idee e pensieri ancora più immortali dei figli.
PLATONE E LA SCRITTURA
Potrebbe essere molto più arbitrario di quanto si possa pensare parlare di dottrina o sistema platonico, non solo perché i dialoghi non offrono una trattazione sistematica del pensiero platonico, ma in virtù del fatto che la stessa scrittura, in Platone, ha un valore alquanto relativo. Nella Fisica (209b 14) Aristotele ipotizza l’esistenza degli “ἄgrafa dόgmata”, le teorie non scritte che Platone avrebbe tenuto per se e per i suoi discepoli. Lo stesso Platone rende, comunque, nota la sua posizione nei confronti della scrittura; nel Fedro (274c-276d) Socrate narra il mito egizio del dio Theuth e del faraone Thamus. Al dio che si presenta dicendo di avere inventato la scrittura, questi risponde che tale invenzione produce solamente opinione, non verità, e che deve essere utilizzata solo per ricordare ciò che già si conosce.Nello stesso Fedro si fa poi inoltre una chiara distinzione tra discorso scritto e discorso orale, l’uno immutabile e statico, destinato continuamente a ripetere se stesso, l’altro dinamico, capace di difendersi e di rispondere ad ogni interrogativo. E’ proprio questa immutabilità che rende il discorso scritto una sorta di compromesso agli occhi di Platone, necessario per superare il metodo socratico e per conferirgli dignità e stabilità. Non a caso l’uso delle cornici letterarie nei dialoghi, mantiene sempre viva la sensazione del “dibattere” sopra un’idea, un contenuto, anziché esporlo passivamente. La presenza di eventuali dottrine oltre i dialoghi sembra, inoltre, chiaramente dichiarata dal filosofo nella lettera VII: “certamente non vi è un mio scritto su questi argomenti[cos’è la filosofia e qual è la via per raggiungerla], né mai esisterà: infatti non è assolutamente qualcosa che si possa esprimere a parole, come gli altri insegnamenti, ma solo dopo una lunga dimestichezza e comunanza di vita, all’improvviso si manifesta nell’animo come luce che si accende da fuoco che guizza, e si nutre poi da se medesimo….”. Queste parole lasciano aperto un dibattito che probabilmente non verrà mai chiuso.In epoca moderna, Leibniz disse che chi avesse donato una forma sistematica al pensiero platonico, avrebbe compiuto un servigio all’umanità.Abbiamo poi l’interpretazione letterale di Schleiermacher, alla quale si sono opposti Nietzsche, che sottolinea l’importanza della spiegazione contenuta nel Fedro, e la scuola ermeneuta di Tubinga-Milano, che ha marcato fortemente la componente metadialogica degli scritti platonici. |
Si potrebbe obbiettare che il soggetto raggiunga la contemplazione attraverso una scelta della strada ascetica e, quindi, attraverso un atto volitivo a posteriori, ma, successivamente, si afferma: (208-e) “oἱ mèn oὖn ἐgkúmoneV .........katà tà sẃmata ὄnteV..........oἱ dè katàth̀n yuch́n” - coloro che sono gravidi nel corpo……coloro che sono gravidi nell’anima- quindi, solo chi è in partenza dotato di un eros filosofico (ma sempre eros) può intraprendere, con l’intervento delle altre facoltà, la strada della filosofia e la via più nobile per l’immortalità. D’altronde il punto di vista di Platone non è tanto quello del soggetto quanto quello dell’anima, che si purifica attraverso la metempsicosi, ragion per cui l’individuo si trova in una condizione statica che corrisponde ad una fase dell’ascesi della sua anima, che agisce comunque in virtù di questo eros-volontà. Grazie all’itinerario che aveva già avuto luogo nel Simposio, che portava dalla concezione dualistica dell’amore espressa da Pausania, tra amore pandemo e amore celeste, a quella sopra descritta, che individua un unico principio d’amore che caratterizza sia il filosofo sia l’uomo qualunque, possiamo ricondurre tutto quello che Nietzsche aveva rifiutato, in quanto valore non umano e non terreno, allo stesso principio dell’eros-volontà di potenza, che si manifesterebbe in forma diversa dall’egoismo.
Ciò che si oppone fondamentalmente all’egoismo è l’altruismo, inteso come conservazione non solo per se stessi, ma per la collettività, quindi contemplazione e ricerca del bene.
Tuttavia, il fatto che vi possa essere un uomo, il filosofo, che agisca esclusivamente in modo altruistico, oltre che alla luce dei fatti, non regge di fronte alla potente critica Nietzscheiana, secondo la quale siamo tutti soggetti al principio di mera autoaffermazione.
LA RILETTURA TRASCENDENTALE DELL’EROS E DELL’ IO VOGLIO
Per risolvere questo problema è necessario costruire il passo successivo rispetto a quello che Diotima fa nei confronti di Pausania e che passa per il fenomenale “marchingennio trascendentale” di Kant (vedi scheda-il concetto di trascendentale).La categoria fondamentale, l’appercezione pura della facoltà intelletto è, per Kant, l’io penso; ne “Il testo filosofico- Cioffi-Luppi-Vigorelli-Zanette”, si afferma, per spiegare il punto di vista della filosofia di Schopehnauer, che l’io penso viene sostituito da un io voglio, che può essere visto come forma pura a priori della volontà e, quindi, come principio trascendentale.Da qui possiamo ancora meglio chiarire la differenza tra cosa costruisce la conoscenza, la facoltà intelletto tramite l’io penso, e cosa spinge l’uomo ad agire e per la conoscenza e per qualsivoglia altra cosa, ovvero ciò che possiamo definire facoltà istinto, ergo io voglio.Se applichiamo il concetto di trascendentale alla volontà di Schopehnauer, lo possiamo fare, alla luce dell’analisi precedente, anche per l’eros platonico, definendolo come una forma a priori dell’agire che si concretizza in azioni differenti a seconda delle circostanze: ognuno di noi è quindi “gravido” sia di un agire altruistico, sia di un agire egoistico ed è il fenomeno che determina quale di essi “scende in campo”.Abbiamo cosi sostituito l’ascesi platonica con quello che può essere definito il bipolarismo trascendentale della volontà, termine che da adesso può contenere anche implicitamente il concetto di eros. Infatti, questa disamina rende conto pienamente alle tesi Nietzscheiane, poiché si fa dipendere l’agire umano dal mondo sensibile e dalla necessità immediata della conservazione, ma, allo stesso tempo, viene salvaguardata la possibilità di contenuto diverso degli atti conservativi, sotto una medesima forma.Viene per il momento penalizzata la scelta dell’eros filosofico ma, come si è precisato nella parte introduttiva, quanto concerne le decisioni libere e consapevoli dell’uomo verrà trattato nella parte relativa al problema etico.
IL FUNZIONAMENTO DEL BIPOLARISMO TRASCENDENTALE
Se l’intelletto è costituito dalle categorie che a loro volta sono individuate dai principi e applicate tramite gli schemi, potremmo definire l’egoismo e l’altruismo come categorie fondamentali dell’io voglio i cui principi saranno quelli di immediatezza e lungimiranza, le due possibili strategie attraverso le quali si attua la conservazione. L’egoismo non è altro che un modo immediato di ottenere garanzia di sopravvivenza ed eventuali miglioramenti della propria esistenza.Quando si cerca di pervenire a tutto ciò tramite la collettività allora si mette in pratica un atteggiamento lungimirante, cioè che considera le conseguenze di un’azione a lungo termine. Lo schema di queste categorie è il tempo, inteso kantianamente come intuizione pura della sensibilità.
IL CONCETTO DI TRASCENDENTALE
“Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori”.Con queste parole Kant definisce l’elemento forse più importante del criticismo, che consente di formulare giudizi sintetici, comprensivi di nuovi elementi ed estensivi del sapere, ed allo stesso tempo a priori, quindi necessari ed universali, non perché derivino da un altro concetto scomposto analiticamente, ma perché nascono tramite la medesima forma del conoscere. Se l’universalità della conoscenza deriva dalle forme pure dell’intelletto che si applicano all’esperienza, quindi non da Dio e da certezze metafisiche innate e compiute, ecco che si inverte il rapporto tra uomo e verità: essa va, infatti, cercata solo nell’ambito del fenomeno e va considerata solo quella verità che rientra nelle possibilità conoscitive dell’intelletto, il cui principio formale di conoscenza, l’io penso, ne garantisce l’universalità dal punto di vista del modo in cui la si raggiunge.Questa sorta di rivoluzione copernicana dell’io, già profetizzata da Cartesio, raggiunge con Kant la sua consacrazione, tanto che le successive speculazioni filosofiche non potranno prescindere dalla riflessione kantiana. |
Ultimo elemento fondamentale di questo bipolarismo è il fatto che le categorie della volontà vengono quasi sempre applicate in maniera composita: solo per comodità si è parlato di atteggiamento lungimirante o egoistico, poiché in realtà si tratta della prevalenza, anche quando quasi totale, dell’uno o dell’altro. E’ bene precisare che queste categorie non possono avere la rigidità di quelle dell’intelletto, ma sono soggette ad un certo margine di relatività, che dipende da diverse variabili esterne ed interne al soggetto e fondamentalmente contingenti.
IL RAPPORTO TRA INTELLETTO E VOLONTA’ E LA MORTIFICAZIONE
Questo eros-volontà trova un illustre, anche se per molti aspetti diverso, antenato nell’amore cristiano (ma anche neoplatonico) di Agostino, che definisce il male come un amore rivolto verso se stessi anziché verso Dio.Nel “De civitate Dei” si legge (XVI, 28) “Fecerunt itaque civitates duas amores duo”-Due amori generarono due città, ovvero l’amore per se stessi, quindi l’egoismo e l’amore verso Dio, che in un ottica tipicamente cristiana, può rappresentare l’altruismo. Anche se la morale cristiana prevede un ideale profondo quale possa essere Dio, esso non è, come vedremo, sufficiente ed, inoltre, essa tende, dal punto di vista della vita pratica, a mortificare la natura umana in quanto volontà di autoaffermazione. Su un altro fronte possiamo citare un pensatore meno conosciuto di nome Hadler, allievo di Freud, che, in polemica con il maestro, diceva che la volontà di potenza, di cui la libido era una manifestazione, si esplicasse nella dimensione sociale dell’uomo in maniera positiva. A questo proposito è importante il concetto di conatus, a partire dal quale Spinoza dirà che nell’uomo è ineliminabile la passione e che essa si deve perseguire in maniera giusta, secondo le esigenze della collettività, ma senza alcuna mortificazione dell’io nella sua ricerca della conservazione. A questo punto possiamo, come prima introduzione alla problematica etica, dare una spiegazione in merito al rapporto tra intelletto e volontà. Luogo comune non solo della filosofia, ma anche a livello culturale, è il conflitto tra istinto e ragione.In realtà la ragione, intesa come intelletto, può essere strumento sia della volontà nella sua forma immediata, sia nella sua forma lungimirante.Il fatto è che, a livello collettivo, un’analisi razionale compiuta in circostanze neutre, (che non pongono il problema immediato della conservazione) ritiene più vantaggioso l’agire lungimirante e a quest’ultimo si tende a dare l’appellativo di razionale. Questo mero calcolo dell’intelletto, che bolla come istintivi o irrazionali gli atteggiamenti, alla luce della loro utilità alla conservazione, e che è all’origine di quelle che si potrebbero definire le morali passive, come il famosissimo “convenzionalismo borghese”, è, quindi, estraneo a Spinoza, il quale, sebbene dica che la moralità consiste nel condursi secondo ragione, non postula, ecco il suo pregio, in alcun modo la repressione delle pulsioni interiori, elemento che, dal pensiero cristiano, giunge qualche misura anche fino a Kant e che, come abbiamo, visto viene aspramente denunciato da Nietzsche.
PERCEZIONE E RAGIONE: IL PROBLEMA ETICO
Il bipolarismo trascendentale della volontà si presta facilmente ad una soluzione di tipo etico che rivaluti l’immediatezza delle pulsioni interiori, ma il problema dell’etica, nel momento in cui si è preso atto che l’agire umano mira alla mera conservazione, al di la del recupero o meno delle pulsioni e del rapporto con l’intelletto, diventa quello di dare un senso alla vita, di dire se vale la pena viverla o meno.Vi sono due facoltà che permettono all’uomo di porsi queste domande; una di queste è la ragione, intesa kantianamente come la facoltà che, diversa dall’intelletto, si rivolge alla conoscenza della cosa in sé della totalità che sta al di la dell’esperienza. Per rendere meglio il concetto, se l’intelletto è un auto da corsa, la ragione è il suo pilota.Le idee della ragione hanno, infatti, per Kant valore regolativo. Ma prima che l’uomo possa riflettere sul significato dell’esistenza, egli percepisce con il sentimento la sua condizione di precarietà e di mancanza di senso: Questa facoltà è alla base della ricerca morale di ogni individuo e costituisce il fondamento della filosofia esistenzialista.Nella nostra analisi individuiamo il principio di questa facoltà in un io sento trascendentale, forma a priori di ogni percezione della vita, modo in cui ogni uomo si rapporta con l’esistenza.Attraverso questa facoltà la coscienza vive autenticamente il problema morale ed esistenziale e quando quest’ultimo si riduce all’accettazione passiva della lungimiranza, semplicemente come strategia considerata migliore dall’intelletto per la conservazione, non solo si reprime, come già detto, il mondo dell’immediatezza, ma si perde il più importante “canale d’accesso” alla morale, che è quello personalissimo di ogni coscienza che vive autenticamente l’esistenza, percependo allo stesso modo l’io voglio con l’io sento e interrogandosi su di esso con l’io penso della ragione.Questa perdita costituisce l’origine della maggior parte delle forme di alienazione del soggetto da stesso.Nel caso della morale cristiana, l’idea di Dio manca sia di un riferimento pratico nella concretezza, da cui si origina l’alienazione dalla volontà, ma soprattutto di una possibilità di partecipazione razionale, in quanto proposta di soluzione al problema esistenziale.Per cui, in molti, la percezione io sento che ha dato origine, nei primi cristiani, all’idea di Dio, si concretizzerà in esigenze e contenuti morali diversi.
LEOPARDI E L’ETICA DELL’IO SENTO
Il filosofo, o presunto tale (vedi scheda-Leopardi filosofo), che ha per primo assunto il punto di vista dell’io sento trascendentale è Leopardi. Per una spiegazione più esauriente di questa tesi rimandiamo alla scheda già indicata.
“LA GINESTRA”E IL SUO VALORE
Come si è gia visto in questa analisi, “La ginestra o fiore del deserto” esprime forse meglio di ogni altro componimento i contenuti del pensiero leopardiano.Essa può essere considerata una sorta di testamento spirituale del poeta, sia perché, vi ritroviamo le tematiche sulle quali si è sviluppata nel tempo l’intera filosofia dell’autore, dal materialismo alla critica dell’idealismo, dalla teoria delle illusioni alla ricerca del vero, ma, soprattutto, in virtù del fatto che la verità alla quale il poeta è giunto non è più solo oggetto di pessimistica contemplazione, ma viene proiettata nell’ambito del sociale, interessa ogni uomo e diventa un nuovo punto di riferimento della vita sociale.La grande metafora del Vesuvio e della ginestra, che rappresentano l’uomo e la sua condizione, immagini come l’utero tonante e la social catena, insieme a sapienti effetti fonetici e indovinate disposizioni sintattiche, rendono in maniera lampante la carica del pessimismo eroico, onde è approdata la poetica leopardiana. Proprio su questo punto si è aperto un acceso dibattito teorico: può questo vero, che fonda effettivamente su nuove radici la solidarietà, far avvicinare Leopardi a posizioni progressiste? Secondo la posizione di Binni e Timpanaro tale tesi può essere avvallata, evidenziando come l’esortazione alla solidarietà e alla fraternità, rappresentino la necessità di andare oltre la mera consolazione della poesia, riunendosi in una vera lotta sociale contro la natura.E’ chiaro come una simile opinione propone una lettura in chiave politico ideologica di Leopardi, aspetto che, però, rischia di essere sopravalutato. Contro questa interpretazione si schiera Gioanola, che sottolinea, invece, la problematica esistenziale del componimento e ritiene che la ginestra, debole, indifesa, ma gratuitamente bella e profumata, rappresenti la poesia, ovvero l’unica consolazione concessa al genere umano, proprio per la sua bellezza che non deve chiedere nulla. A mio avviso, è lecito supporre che la poesia come consolazione, costituisca quell’atto disinteressato rispetto alla volontà, quel momento in cui con dignità si prende atto della propria condizione cercando una bellezza che non sia integrata nel disegno della mera conservazione. Ma tutto questo si ripropone anche nei rapporti con gli individui, non in chiave politica, ma in chiave etica, in quanto la solidarietà con l’altro, permette di superare momentaneamente l’egoismo e, quindi per Leopardi la crudeltà della natura. |
Il suo pensiero è inizialmente contrassegnato da un pessimismo di tipo storico e da una critica della modernità, che ha distrutto le illusioni della natura e ha fatto si che l’uomo prendesse coscienza del vero. Ma in seguito, a partire, dal periodo dell’adesione al materialismo, si delinea una necessità di accettare questa verità, che è proprio la presa di coscienza di una natura che mira solo all’autoconservazione, e una consapevolezza dell’impossibilità di un ritorno alle illusioni degli antichi. Anche se Leopardi tende a mantenere una concezione dualistica tra l’uomo e la natura, se interpretiamo quest’ultima semplicemente come condizione umana, le affinità con la volontà e l’io voglio risultano determinanti.
LEOPARDI FILOSOFO
E’ possibile definire tale il Leopardi, naturalmente oltre che poeta, alla luce del nuovo punto di vista filosofico da lui inaugurato.E’ comunque un dato di fatto che egli abbia inaugurato una moderna prosa filosofica il lingua italiana. Il suo pensiero si esprime tramite la poesia e la forma dialogica delle operette morali e, se è vero che non ha la sistematicità della trattazione filosofica, guardando alle origini della filosofia occidentale troviamo proprio un poema, quello di Parmenide e dei dialoghi, ancora più famosi, quelli platonici.Una delle fonti delle operette morali sono del resto i dialoghi di un autore greco, Luciano. Inoltre, nel novecento, Heidegger dirà che la poesia è una forma di filosofia in quanto manifestazione dell’essere. Da un punto di vista contenutistico, le operette morali svolgono una critica consapevole alla società moderna, e alla nuova filosofia idealista che, per il Leopardi recide il contatto diretto tra l’uomo e la vita. Infatti, Leopardi si fa portavoce di un problema esistenziale che non può essere sottovalutato nella sua portata filosofica.Ne “La scrittura e l’interpretazione - Luperini-Cataldi-Marchiani-Marchese”in merito al pensiero del leopardi, si dice: “ogni ipotesi deve perciò essere verificata al cospetto della propria esperienza e al cospetto della molteplicità delle esperienze. Le “leggi” del sistema devono, per essere vere, restare valide tanto davanti ai requisiti della propria esperienza individuale quanto davanti a quelli di ogni altra esperienza: devono avere cioè valore sia soggettivo che oggettivo” Ne “Il testo filosofico” gia citato nel corso dell’analisi, leggiamo inoltre: “All’universalità della condizione umana nel senso dell’identità materiale, fisico biologica, si sostituisce l’universalità della condizione dolorosa dell’umanità”. Infine è importante un’osservazione del Baldi, che nell’analizzare “A Silvia” evidenzia che ciò che unisce i due poeti non è un rapporto fisico, ma la condizione esistenziale, prima illusi dalla natura, e ora angosciati di fronte al vero.A partire da queste interpretazioni è possibile confutare sia l’opinione del De Sanctis, secondo il quale un Leopardi idillico esorta alla poesia e condanna la filosofia, sia la posizione di coloro che ritengono che l’eventuale filosofia del Leopardi sia viziata dal pessimismo di partenza.In realtà è proprio questo punto di partenza che costituisce il cuore della filosofia leopardiana, il modo di sentire e di percepire la vita nella sua mancanza di senso, l’io sento trascendentale.Non a caso Emanuele Severino ha definito Leopardi un precursore del nichilismo e uno dei più grandi filosofi della modernità. |
Leggiamo nello Zibaldone (179-181, luglio 1820) “Anzi è notabile come quel sentimento(il desiderio di piacere) che pare a prima giunta la cosa più spirituale dell’animo nostro, sia una conseguenza immediata e necessaria (…) della cosa più materiale che sia negli esseri viventi, cioè dell’amor proprio e della propria conservazione, di quella cosa che……….può parer propria in certo modo di tutte le cose esistenti”.
Ciò che Leopardi percepiva come natura, era certamente la volontà; la conservazione viene definita, in questo brano, come il principio di ogni cosa.
Dunque, gli uomini, che hanno ormai perso la strada delle illusioni, devono cercare un’altra via che non sia né quella del progresso moderno che vede la società nell’egoismo e nella barbarie più totali, né quella filosofia idealistica, che appare a Leopardi un passo indietro.
Nella Ginestra leggiamo (53-59) “secol superbo e sciocco \……..del ritornar ti vanti \ e procedere il chiami. Per andare avanti è necessaria “un’ultrafilosofia” (Zibaldone) che Leopardi troverà nel momento etico.
Sempre nella Ginestra, infatti, possiamo leggere (111-114) “Nobili natura è quella \ che a sollevar s’ardisce \ gli occhi mortali incontra\ al comun fato……”.
Si osserva qui chiaramente l’approccio trascendentale (comun fato) e la strada dell’io sento come vita vissuta e autentica.
Una volta che gli uomini avranno riconosciuto il nemico comune nella natura, Leopardi afferma che (153-154) “E giustizia e pietade, altra radice \ avranno allor che non superbe fole, ”.
Il nuovo modello etico della solidarietà, da un senso all’esistenza e con dignità accetta la sua condizione (come l’umile ginestra), ragion per cui esso può costituire il più solido fondamento delle regole del vivere sociale.
Le “superbe fole”, ovvero favole, sono la cultura cristiana, e più in generale la mera imposizione della legge statale.
La condizione di vita impersonata dalla ginestra(vedi scheda-“La Ginestra” e il suo valore), che rifiuta sia questi elementi, sia qualsiasi tipo di slancio metafisico, per vivere con umiltà e dignità il presente, oltre ad essere alla base della soluzione etica, anticipa alcune tematiche prettamente esistenzialiste.
KANT E L’ETICA DELLA RAGIONE
Possiamo, dunque, accogliere la proposta della Ginestra come una soluzione morale che scaturisce dall’io sento trascendentale. Ma, come si è detto prima, l’indagine sul problema morale coinvolge anche la facoltà della ragione ed è quindi necessaria una definizione di morale che tenga conto anche di questa facoltà.
Nonostante Spinoza abbia compiuto un’ottima analisi antropologica (superiore a quella kantiana), che lo aveva portato a postulare la necessità che la morale dovesse rendere conto di ogni pulsione interiore proveniente dal conatus, la proposta morale razionale (ma non antropologica) che va, a mio avviso, rivalutata viene ancora una volta da Kant e dal suo più che mai trascendentale imperativo categorico.
Dopo la nostra analisi, non possiamo ovviamente accettare che l’uomo, se libero, agisca fondamentalmente secondo questo principio, ma esso costituisce un parametro morale fondamentale, in quanto non postula la necessità di possedere idee adeguate finite e complete, che sono quelle del determinismo razionalista, ma afferma l’autonomia della ragione e soprattutto la bontà o meno del modo di agire e non dell’azione.
Nella la seconda formulazione dell’imperativo categorico, l’agire buono è quello che ha l’uomo come fine e non lo prevede mai come mezzo.
Dunque, Partendo dalla percezione dell’esistenza, la ragione realizzerà che il senso ultimo della vita è la prevalenza, seppur immediata e quasi mai totale, della categoria dell’altruismo, nell’ambito di un perenne conflitto tra le due categorie della volontà.
Oltre ad essere raggiunta tramite una ragione che non è, chiaramente, quella dell’intelletto, questa definizione di senso ha il pregio di poter essere il punto di arrivo di una riflessione attiva, che, avvalorata da un interesse profondo della coscienza, frutto della latente, ma sempre presente percezione angosciosa dell’io sento, esalta l’uomo nella sua tensione alla ricerca del senso e lo realizza, già solo per questo, proprio in quanto essere umano dotato di percezione e ragione.
Tutto questo è, chiaramente, agli antipodi, rispetto all’accettazione di una qualsiasi morale passiva.
DEFINIZIONE DELL’ETICA COME “PARADIGMA DEL SENSO DELLA VITA”
In conclusione, i punti di vista di Leopardi e di Kant, rappresentano il ruolo che l’io sento e l’io penso hanno nella formulazione di una qualunque teoria morale.
Parliamo, infatti, di trascendentali, cioè di modi di pensare e di sentire che possono concretizzarsi anche in modi diversi. Siamo, comunque, in grado di definire quale sia l’origine e l’essenza della morale per ogni coscienza: una percezione del senso supportata dalla razionalità come strumento; tramite la percezione del senso, si avverte la necessità di dare un significato alla vita, intendendo, infatti, il senso come il principio di conservazione, mentre, con la ragione, l’uomo va alla ricerca di questo significato, senza mai prescindere dalla natura della volontà e quindi, come dice Spinoza, senza mai mortificare se stesso.
E’ bene, infatti, sottolineare che nessuna facoltà si sviluppa al di fuori e per un fine differente da quello della conservazione, anche quelle che nell’uomo sono destinate a trovarvi un senso nell’indagine etica e nello studio della coscienza.
Questo è il modo in cui ogni coscienza va alla ricerca di un significato e l’etica stessa, configurandosi proprio come una ricerca di questo tipo, potrebbe essere definita come “paradigma del senso della vita”.
Rosario Coco