IL PROTAGORA

A cura di M.C.Pievatolo .

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INDICE
Commento del Protagora

Commento del Protagora

Che cosa insegna Protagora ? Di che cosa il sofista rende abili a parlare? Questo è il primo argomento del Protagora, che mette in scena, tramite la narrazione di Socrate , una conversazione in una casa privata, nella quale Protagora è ospite. Protagora di Abdera è un celebre sofista, che vende il proprio sapere. In che senso il sapere è vendibile? Perché questo sapere merita di essere acquistato? Queste domande sono complesse: come osserva Socrate , il rischio nell'acquisto degli insegnamenti è molto più grande che in quello del cibo. Il cibo è una cosa con cui si ha un rapporto, molto intimo, di incorporazione: ma i cibi si possono portare a casa in un recipiente e analizzare, mentre le cognizioni devono essere messe alla prova su sé stessi, nella propria anima. Con un vantaggio o un danno irreversibile: conoscere significa cambiare, in un senso "lineare" e irrevocabile, e non semplicemente soddisfare un bisogno che si presenta ciclicamente e che deve essere compensato per mantenerci in vita. Per questo, le cognizioni non possono essere valutate come se fossero cose. Il sofista vende qualcosa, e perciò può essere ingannevole nel lodare la sua merce, senza porsi il problema di sapere se faccia bene o male ai suoi "clienti". Il rapporto commerciante/cliente è un rapporto di manipolazione, nel quale chi vende si preoccupa solo di sfruttare a proprio vantaggio un bisogno dell'altro, o addirittura di suscitare nell'altro un bisogno che non ha. Il problema del bene dell'altro, in questo contesto, è del tutto superfluo, se non deleterio, rispetto allo scopo di vendere. Il potenziale di manipolazione insito nel rapporto fra commerciante e cliente è particolarmente grave quando si ha che fare con la conoscenza, che forma l'uomo più profondamente di quanto faccia il cibo, dato che offre strumenti per valutare tutto il resto. Ciò che si impara non può essere dimenticato allo stesso modo in cui ci si libera del cibo. Socrate osserva che tutti hanno la parola ad Atene, quando si deve deliberare sul modo di condurre gli affari di stato, mentre nelle altre arti - la medicina, per esempio - c'è una divisione del lavoro che porta ad affidare le deliberazioni tecniche alle persone competenti. Evidentemente, per gli Ateniesi, la politica non è insegnabile: se tutti hanno titolo a parlare di politica, tutti la conoscono già e dunque non occorre insegnarla. Protagora , tuttavia, dice di insegnare l'arte politica, che è l'arte di amministrare con senno tanto la propria casa, quanto le faccende pubbliche. Protagora illustra la sua tesi col mito di Epimeteo e Prometeo: Zeus, per render loro possibile vivere in società, ha distribuito aidos e dike a tutti gli uomini. Gli uomini hanno bisogno della cultura e dell'organizzazione politica perché sono creature prive di doti naturali, come artigli, denti e corna, immediatamente funzionali ai loro bisogni. Tutti partecipano di queste due virtù "politiche". Ma esse non vanno viste come connaturate all'uomo, bensì come qualcosa di sopravvenuto, qualcosa che è stato trasmesso in maniera consapevole, e non semplicemente attribuito in un processo cieco, "epimeteico", del quale si può render conto soltanto ex post: per questo è possibile insegnare aidos e dike agli uomini, mentre non si può "insegnare" a un toro ad avere corna e zoccoli. Socrate non è convinto: perché l'insegnamento della giustizia è spesso talmente fallimentare che la virtù del padre non riesce neppure ad essere trasmessa al figlio? Protagora risponde, questa volta, non con un mito, ma con un discorso o ragionamento: c'è o non c'è qualcosa di unico, cui è necessario che tutti i cittadini partecipino, se la città deve sussistere? Se questo qualcosa è andros arete (e cioè giustizia, pietà religiosa, temperanza, sapienza) allora nei suoi confronti ci si comporta come se fosse insegnabile. In primo luogo, si punisce chi si comporta ingiustamente, guardando al futuro, cioè allo scopo di impedire il colpevole o altri ricadano in quel comportamento: ma questo comportamento ha senso solo se si presuppone che sia possibile imparare ad essere giusti. Inoltre, anche il più ingiusto degli uomini che vivono in città partecipa della virtù (politica), proprio come tutti coloro che parlano il greco partecipano alla sua conoscenza. La giustizia e il pudore, che la rende efficace, possono dunque essere considerate come la "lingua" della convivenza comune. E il sofista si distingue dagli altri perché sa aiutare chiunque a divenire buono e bello, cioè ad usare questa "lingua" in maniera eccellente. In altri termini: il sofista non conosce nulla più di quanto già conoscono tutti, ma la sua arte consiste nel saperlo esprimere ed insegnare meglio degli altri. La garanzia della sua competenza è solo la sua eccellenza personale. La comunicazione del sapere All'inizio del dialogo, Protagora aveva affermato che la sofistica è un'arte molto antica, risalente addirittura ai poeti Omero, Esiodo e Simonide. Qui se ne vede la ragione: il sofista, come il poeta, non fa che esprimere e tramandare un sapere comune. A questo punto Socrate , che era stato ad ascoltare il lungo argomento di Protagora , lo interrompe, osservando che alcuni oratori pubblici sanno fare lunghi e bei discorsi ma, come libri, se venissero interrotti e li si interrogasse, non saprebbero rispondere, né a loro volta porre domande. Piuttosto, replicherebbero con un altro lungo discorso, risuonando come bronzi percossi. Come nel Fedro , Socrate sembra pensare che un sapere comunicato monologicamente, sottraendosi al dialogo, sia un morto nozionismo, se non addirittura un esercizio di potere. Bisogna sottolineare che lo stile monologico di Protagora si concilia bene con il ruolo politico-educativo che il sofista attribuisce a se stesso: non occorre il dialogo, quando chi parla si limita ad esprimere al meglio ciò che gli altri già sanno - quando, cioè, la conoscenza etica e politica non è intesa come frutto di una faticosa costruzione, ma come una "dote" di fondo che si dà per presupposta. Socrate cerca di condurre Protagora ad una argomentazione dialogica, chiedendogli se giustizia, temperanza, santità sono parti dell'unica virtù, oppure sinonimi di un'unica realtà. Protagora risponde che sono come la parti di un volto, cioè parti di un intero qualitativamente differenti e coordinate fra loro, e non come le parti dell'oro, che differiscono fra loro solo quantitativamente. Socrate replica che, se è così, allora ogni parte della virtù è diversa dall'altra e si può avere una parte senza avere l'altra. Per esempio si può essere coraggiosi senza essere sapienti. Oppure, per fare un altro esempio, la giustizia può entrare in contrasto con la pietà religiosa: la giustizia può essere empia e la santità ingiusta. Questa conclusione andrebbe a scardinare la morale politica della città, con un conflitto "fra virtù" simile a quello della tragedia sofoclea Antigone. Socrate esprime la sua opinione: fra giustizia e pietà religiosa non può esserci conflitto, anzi, ci deve essere identità. Protagora replica che tutte le cose, anche se differenti, hanno qualche elemento in comune; ma non basta questo per chiamarle uguali. Pertanto, per la presenza di qualche elemento comune, la distinzione fra le parti della virtù non comporta necessariamente nè la loro identità nè la loro reciproca contraddizione. Non c'è dunque bisogno di trattare le virtù come se fossero una cosa sola. La morale politica, in altri termini, comporta la possibilità che virtù differenti siano fra loro armoniosamente coordinate in un unico intero. Socrate prosegue ponendo un altro problema concernente la relazione fra le virtù, e cioè: chi compie un atto ingiusto agisce da saggio? Protagora risponde che personalmente si vergognerebbe di affermarlo, ma che molti sostengono una tesi simile, e cioè che si può commettere ingiustizia e comportarsi saggiamente, quando se ne ricava dell'utile. Una logica di questo genere si trova, per esempio, nel dialogo degli Ateniesi con i Melii riportato da Tucidide. Protagora , per il quale, come sappiamo da un suo frammento, l'uomo è la misura di tutte le cose, afferma che l'utile è relativo al soggetto cui si indirizza: ci sono cose utili agli uomini e nocive ai cavalli, o utili se usate all'esterno e dannose all'interno del corpo e così via: "in effetti il bene è qualcosa di svariato e multiforme…." Questa conclusione è insidiosissima per le morale della polis, di cui Protagora si era presentato maestro. Se il bene si riduce all'utile, e l'utile è relativo al tipo di soggetto interessato, allora, come diceva Tucidide, si può parlare di giusto solo ove un'uguale costrizione o necessità lo rende "utile" per tutte le parti in causa. Altrimenti, non c'è nessun ostacolo all'etica aristocratica della prevalenza del più forte e della legge non più comune, bensì solo personale. Il nucleo dell'obiezione di Socrate è questo: se le parti della virtù vanno intese come parti fra loro differenti, si pone il problema del principio della loro coordinazione. Un volto con le sue parti, per usare la metafora di Protagora , è un intero già dato. Ma se le virtù sono cose che si imparano, e non doti naturali, allora la loro coordinazione deve essere costruita e giustificata. Socrate interrompe Protagora , chiedendogli ironicamente di spezzare i suoi lunghi discorsi, altrimenti, a causa della sua scarsa memoria, egli non riesce a seguirlo. Protagora replica che se avesse parlato come voleva l'avversario, ora non sarebbe il migliore, nè sarebbe diventato famoso. Socrate minaccia di andarsene e si perviene a un compromesso. Questa interruzione è importante: Socrate pone il problema del potere nella comunicazione del sapere. Se il sapere è qualcosa che è oggetto di competizione - se si deve fare a gara a chi è il miglior sofista, per esempio - inevitabilmente verrà scelta la modalità di comunicazione più vantaggiosa per chi parla. Il discorso lungo e monologico è un espediente ottimo se si vuole mettere a tacere l'avversario, e rendergli difficile seguire - e criticare - i nostri passaggi logici. Una comunicazione funzionale al potere prediligerà, pertanto, la "macrologia" monologica, ossia una argomentazione ampia, diffusa e non "interattiva". Protagora è un sofista: uno che vende il proprio sapere in un regime di libera concorrenza. La sua comunicazione deve essere intrisa di una logica di potere e di monopolizzazione del tempo e dell'ascolto del suo pubblico: non potrebbe permettersi - neppure economicamente - di valersi del principio dialogico, che è collaborativo e critico. Se il sapere deve essere venduto, chi discute con noi è giocoforza o un concorrente o un cliente, e non un nostro pari nella ricerca della conoscenza. Dopo un interludio, dedicato all'esegesi di un passo del poeta Simonide, Socrate propone di ritornare sull'argomento della conversazione, che era il problema dell'insegnabilità - e dunque della scientificità - della virtù. Parlare dei poeti, che non si possono neppure interrogare su quello che dicono, è come far suonare la voce estranea del flauto ai banchetti, perché non si ha nulla da dire con la propria voce. Socrate chiede di nuovo se sapienza, coraggio, temperanza, giustizia, pietà religiosa (le virtù tradizionali del cittadino) sono cinque nomi che si riferiscono a un solo oggetto, cioè sono sinonimi. Oppure ciascuno di questi termini si riferisce a qualcosa che non abbia una potenzialità identica all'altra, cioè a elementi reciprocamente diversi? Protagora risponde che sono tutte parti della virtù, ma il coraggio può esserci anche in mancanza di sapienza, temperanza, giustizia e pietà religiosa. Socrate replica che il coraggioso - che non è lo sconsiderato - è uno che ha coraggio in cose che sa fare. Dunque sapienza e coraggio sono identici. Protagora obietta che così ragionando, si potrebbe dire che chi è fisicamente forte è potente, e chi ha imparato la lotta è più potente, e dunque sapienza e forza fisica sono la stessa cosa. Possiamo provare a interpretare la tesi di Protagora in termini insiemistici: l'insieme F dei forti interseca l'insieme S dei sapienti: la zona grigia dell'illustrazione conterrà persone forti e sapienti. Possiamo anche sostenere, in termini intensionali, che la sapienza rende possibile usare la forza con criterio, e dunque rende più forti. Ma da ciò non segue che forza e sapienza siano la stessa cosa. Se ci mettiamo in una prospettiva estensionale, possiamo vedere senza difficoltà che esistono sia sapienti che non sono forti (parte gialla di S), sia forti che non sono sapienti (parte grigio scuro di F). Socrate , però, si propone di dimostrare che tutte le virtù hanno, intensionalmente, come loro componente essenziale la conoscenza. Questo implica che ciascuna virtù possa avere anche altri caratteri, ma che sia identificabile come virtù perché ha la connotazione essenziale della sapienza o conoscenza. Socrate sposta la questione, conducendo Protagora ad affermare che alcune cose piacevoli sono buone; altre no; altre sono indifferenti; e lo stesso discorso vale per le cose dolorose. Dunque il piacere, preso a sé, non è un bene. La scienza - chiede ancora Socrate - ha capacità di coordinazione delle azioni umane, oppure queste sono guidate da piacere, dolore, amore talvolta, più spesso paura, e la scienza è come un loro servo? Oppure la scienza è qualcosa di bello, capace di avere in mano il governo dell'uomo, tanto che se si conosce il bene e il male non si può essere dominati da null'altro? Protagora , in quanto sofista, sceglie la seconda opzione. Ma aggiunge che la maggioranza degli uomini dice che pur conoscendo il meglio e potendolo seguire, non lo fa perché sopraffatta da paura, dolore, piacere e altre passioni. Socrate osserva, assumendo il punto di vista della maggioranza, che certi piaceri sono riconosciuti cattivi perché conducono a dolori, e certi dolori buoni perché conducono a piaceri. Ma questo significa che bene e piacere coincidono. E dunque chi dice di fare il male perché sopraffatto dal piacere, dice in effetti contraddittoriamente che fa cose spiacevoli, cioè cattive, perché sono piacevoli, cioè buone. E anche affermando che si scelgono piaceri minori presenti contro piaceri maggiori futuri, si ricade nella stessa difficoltà. Si può però dire che l'apparenza dei piaceri vicini è più forte ed evidente di quella dei piaceri futuri e lontani. Ma allora la felicità sta nell'arte della misura, o nella forza dell'apparenza? Se vale la prima risposta, la salvezza della nostra vita consisterà nella scienza. Lasciarsi sopraffare dal piacere è ignoranza. L'essere vinto da se stesso è ignoranza, il vincere se stesso sapienza. Nessuno fa volontariamente e consapevolmente qualcosa che ritiene male. Ragionando così, Socrate deve sostenere, in contraddizione con i suoi dubbi iniziali, che la virtù è scienza, e dunque è insegnabile; mentre se fosse come diceva Protagora , non lo sarebbe: se trattiamo la virtù come una pluralità di facoltà, nulla ci assicura che queste ultime siano in armonia fra loro. Protagora stesso lo riconosce, quando sostiene che certe virtù, come il coraggio, possono non essere accompagnate da sapienza. Bisogna però sottolineare che la "scientificità" della virtù di Socrate è ben diversa dall'insegnabilità di cui parlava Protagora . Non si tratta di esprimere meglio qualcosa di comune e acquisito con tutte le sue potenziali incoerenze, ma di governare consapevolmente la propria vita. Il tema della comunicazione del sapere, anche se compare solo come interludio nella discussione fra Socrate e Protagora , è intrecciato a quello della virtù. Se virtù è conoscenza, come capacità di cosciente autogoverno, essa può svilupparsi solo nella consapevolezza personale, e non nell'ascolto passivo di lunghi monologhi propagandistici. Non a caso, Socrate conclude dichiarando di preferire Prometeo a Epimeteo, perché questi gli permette di provvedere alla sua vita nella sua interezza. Infatti, mentre Epimeteo distribuisce cose già pronte per l'uso, e utilizzabili solo in un modo, Prometeo - il dio della techne - dona all'uomo consapevolezza e possibilità di uno sviluppo autonomo. Socrate non dice nulla della terza distribuzione del mito di Protagora , quella compiuta da Zeus, che dà a tutti aidos e dike. Si può però sospettare che questi doni siano, nella sua prospettiva, dei palliativi "epimeteici", cioè meri strumenti che gli uomini devono ricevere passivamente, da un dio o da un sofista, proprio come gli animali hanno ricevuto da Epimeteo le loro zanne e i loro artigli. E che la virtù come conoscenza sia qualcosa che non si può nè ricevere, nè comprare, ma che ciascuno, discutendo con gli altri, deve comprendere e costruire da sè. La conclusione di questo dialogo può essere vista come un esempio di ironia complessa. Protagora è riuscito a convincere Socrate sul fatto che la virtù sia qualcosa di insegnabile? Sì e no: Socrate dichiara esplicitamente di aver cambiato idea: questo, letteralmente, è quello che è accaduto. Ma, come abbiamo visto, egli intende per "virtù insegnabile" un esercizio di critica e di consapevolezza che è assai diverso dall'espressione sofistica dei valori politici della cultura civica. Socrate , in realtà, non è d'accordo col sofista, ma è stato da lui "convinto", perché ha indotto Protagora a riconoscere una prospettiva alternativa a quella che egli aveva inizialmente proposto.

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