SERGIO QUINZIO



A cura di Andrea Pesce

"La storia di Dio è, fin dalla prima pagina della Bibbia, una storia di sconfitte".


 

 

VITA E OPERE

Sergio Quinzio nasce ad Alassio, in provincia di Savona, il 5 maggio 1927: ha prestato servizio per diciassette anni nella Guardia di finanza, da cui si è congedato con il titolo di capitano. Ha poi vissuto in isolamento per quattordici anni in un piccolo paese delle Marche (Isola del Piano), dove ha intrapreso quello studio approfondito della Bibbia che è stato l'impegno costante della sua vita. Saggista, commentatore di temi religiosi, teologo, negli ultimi anni si è trasferito a Roma. Ha collaborato con La Stampa, il Corriere della sera, l' Espresso, unendo le sue doti di fine biblista e di efficace divulgatore culturale. È morto a Roma il 22 marzo 1996. Tra le sue opere, ricordiamo: Diario profetico, Guanda, Milano, 1958; Religione e futuro, Realtà nuova, Firenze, 1962; Giudizio sulla storia, Silva, Milano, 1964; Cristianesimo dell'inizio e della fine, Adelphi, Milano, 1967; Laicità e verità filosofica. La religione nella scuola, Armando, Roma, 1970; Le dimensioni del nostro tempo, Rebellato, Cittadella, 1970; I potenti della letteratura, Rusconi, Milano, 1970; Un Commento alla Bibbia, Adelphi, Milano, 1972 (II. ed. 1995); Monoteismo ed ebraismo, Armando, Roma, 1975; L'impossibile morte dell'intellettuale, Armando, Roma, 1977; La fede sepolta, Adelphi, Milano, 1978; Dalla gola del leone, 1980; L'incoronazione, Armando, Roma, 1981; Silenzio di Dio, Mondadori, Milano, 1982; La croce e il nulla, Adelphi, Milano, 1984; La speranza nell'apocalissi, Ed. Paoline, Milano, 1984; Domande sulla santità, Ed. Gruppo Abele, Torino 1986; Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano, 1991; La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1993; Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995.



PENSIERO

Sergio Quinzio ha dedicato la sua intera esistenza ad una approfondita esegesi della Sacra Scrittura, nella quale gli strumenti della filologia sono messi al servizio di una visione sinottica della civiltà ebraico-cristiana. Una radicale meditazione teologica sulla fede cristiana, soprattutto in relazione alla modernità intesa come secolarizzazione dell'escatologia biblica, ha condotto Quinzio a ravvisare nei principali tratti del mondo moderno, apparentemente ateo e scristianizzato, la trascrizione (da intendere come parodia e contraffazione o come demitizzazione) della speranza giudaica. La concezione biblica del mondo come radicale contingenza e storicità, in tal senso, è opposta da Quinzio alla concezione pagana del mondo come natura eternamente regolata da un logos. Questa dicotomia tra mondo greco (in cui il tempo è ciclicamente inteso) e mondo cristiano (in cui il tempo è inteso come una linea retta che procede senza sosta verso il futuro) presenta molti tratti in comune con quella di Karl Löwith. Quinzio è approdato, negli ultimi anni, ad un cristianesimo tragico incentrato sulla "sconfitta di Dio", sulla constatazione disperata che la promessa messianica è stata elusa e delusa e che la stessa esistenza della divinità è minacciata dall'impotenza e dal rischio. All'interno di questo orizzonte di pensiero che pone in relazione nichilismo e cristianesimo, ontologia del declino e “Dio debole”, si spiega il sodalizio intellettuale con Gianni Vattimo – il padre del “pensiero debole” – e con altri filosofi e pensatori contemporanei. Sergio Quinzio è uno dei più grandi esegeti italiani dei testi biblici e dei Vangeli, un pensatore scomodo per la chiesa cattolica come scomodi sono tutti quei credenti erosi dal dubbio della fede. Qiunzio era un credente “critico”, un uomo che durante la sua vita, purtroppo terminata nel 1996, si è posto tormentose e inquietanti domande sul rapporto tra l’uomo e il Dio della tradizione ebraico-cristiana.

Uno dei punti centrali della riflessione di Quinzio è il ribadire con forza che il concetto di “immortalità dell’anima” non è di matrice cristiana ma greca (platonica precisamente); conclusione alla quale peraltro era già pervenuto Nietzsche affermando che il cristianesimo non era altro che un “platonismo volgarizzato”. La Chiesa cattolica apostolico-romana offre ai suoi fedeli la “resurrezione della carne” alla fine dei tempi. Proprio in questa visione escatologica (dal greco éschata “cose ultime”) risiede la grande differenza tra mito e religione, due concezioni che non vanno assolutamente confuse. Ecco il giudizio di Quinzio: “Si sente comunemente parlare di “mito biblico”, e persino di “mito cristico”; ma questo significa non percepire la lontananza e la drammatica opposizione fra il mito che è protologico, e la fede, che è invece escatologica, e quindi rivolta al futuro e non al passato”[1]. Il mito non consiste in una progressione lineare della storia ma in una ciclicità degli eventi nell’eterno ritorno dell’uguale. Il telos, il senso della storia si dà, in ambito religioso, con la fine dei tempi e il Giudizio Universale per opera di Dio, che riporterà sulla terra la giustizia e la verità.

Lo scenario prospettato alla fine della storia è davvero apocalittico (dal greco apo-kalypto “togliere il velo”): i morti risusciteranno dalle tombe e, con la minoranza dei vivi[2], si sottoporanno al severo giudizio divino. Su questo aspetto Quinzio non manca di precisare che: “Il giorno del Signore, grande e terribile, che già i profeti avevano insistentemente annunciato, e ossessivamente descritto con estrema violenza, come farà l’Apocalisse a sigillo delle Scritture, è “giorno di furore, giorno di tribolazione e d’angoscia, giorno di devastazione e di desolazione, giorno di tenebre e di oscurità, giorno di nembi e di nuvole, giorno di tromba e di gridi di guerra” (Sof 1, 15-16). […] Questo è il giorno che gli uomini e Dio, dovrebbero desiderare e invocare. L’orrore come estrema, unica possibilità di salvezza. Un’invocazione necessaria e impossibile insieme”[3].

Frasi, queste, da sottoporre ad una interpretazione di tipo allegorico o metaforico? Quinzio non è di questo parere: “La resurrezione dei morti è quanto di più difforme si possa immaginare dall’esperienza comune e dalle ragionevoli aspettative umane. Eppure il Simbolo degli Apostoli afferma la “resurrezione della carne” per “la vita eterna”, e il Credo di Nicea-Costantinopoli afferma la “resurrezione dei morti” per “la vita del mondo che verrà”. Se ci si limitasse a parlare di resurrezione dei morti per la vita eterna, forse sarebbe ancora possibile dare un’interpretazione metaforica di questa verità. Ma dalle formule usate nei due venerandi testi della Chiesa antica risalta l’affermazione che sarà la carne a risuscitare per vivere nel mondo che verrà. E su questo non sono ammesse interpretazioni metaforiche: questa è la promessa di Cristo, il cuore di quell’annuncio cristiano che noi troppo spesso tendiamo a dimenticare, fingendo di non vedere ciò che la Scritture stesse dicono chiaramente”[4].

Sono trascorsi più di duemila anni da quando il sepolcro di Cristo è stato trovato vuoto e, malgrado i continui annunci dell’incombente fine del mondo nel Giudizio di Dio, nessuno ha ancora visto gli angeli discendere dal cielo e i morti risorgere dalle tombe. Tutto ciò ha ormai assunto la forma di una sconfitta di Dio in un inarrestabile indebolimento della fede.

Altro snodo cruciale è quello della incontestabile presenza (per non dire dominio) del male nel mondo. Su questo punto Quinzio è molto semplice e diretto. Partendo dalla constatazione di vivere in un universo in cui gli orrori fanno parte della quotidianità (dal bambino morto cadendo in un pozzo artesiano, alle continue devastazioni causate dalle guerre), egli si domanda come possa esistere il male se il Dio della Creazione si è rivelato come Dio di infinito bene, di misericordia e perdono. Eppure fin dalle prime pagine della Bibbia entra in scena la morte, dopo la ribellione di Adamo e Eva, con l’assassinio di Abele compiuto dal fratello Caino. Un Dio onnipotente che non aveva creato la morte deve subirla, come più tardi, di fronte ai costruttori della torre di Babele, proverà un sentimento di paura (Gn 11, 6) verso la creatura da lui stesso creata?

Kenosys è la parola greca che significa caduta, abbassamento, declino. Nella creazione del mondo molti teologi hanno visto una perdita di potenza da parte di Dio, così come l’aspetto kenotico è fortemente presente nell’Incarnazione in Cristo. Viene il sospetto, a questo punto, che Dio non sia completamente onnipotente e non possa impedire al male di propagarsi all’interno del creato. In effetti se Dio vuole il male allora è in contraddizione con la sua parola rivelata, parola di amore, pace e fratellanza; in alternativa potremmo affermare che Egli non vuole il male ma è costretto a subirlo a causa della perdita di controllo sul mondo derivante dalla creazione. Dubbio lacerante già esposto dal filosofo Hans Jonas nella sua memorabile riflessione Il concetto di Dio dopo Auschwitz, riassunto nella frase “Quale Dio ha permesso che ciò accadesse?”. L’esperienza di Auschwitz non può essere compresa con le categorie teologiche tradizionali, ma produce una rottura tra il modo di intendere Dio dell’Antico Testamento (interventista e presente) e quello col quale noi oggi dobbiamo convivere: un Dio silente, lontano, incomprensibile. Riportare nel creato la giustizia, la misericordia, valori portanti del mistero dell’Incarnazione, fa chiaramente intendere che il mondo è imperfetto e bisognoso di continui aggiustamenti. L’aver dato vita all’uomo come creatura libera, ha inevitabilmente fatto cortocircuitare l’intera costruzione divina nell’esposizione al peccato. Non è possibile concludere questo ragionamento senza dedurre che per evitare il peccato, all’uomo non dovrebbe essere lasciata la  libertà di scelta, ma subire l’eterodirezione della volontà di Dio. In questo caso sarebbe allora lo stesso Dio a doversi autopunire per le colpe da egli stesso commesse.

A ben rifletterci il culmine dell’auto-punizione di Dio potrebbe coincidere con la Passione di suo figlio Gesù Cristo sulla croce. Tuttavia, sfruttando l’intensità e il rigore delle riflessioni in ambito religioso contenute nei film di Ingmar Bergman, possiamo citare il dialogo tra il pastore Ericsson e il suo sacrestano nel film “Luci d’inverno” del 1962. Dopo aver premesso che la lettura dei Vangeli gli serviva come cura per i dolori corporali che l’affliggevano alla sera prima del sonno, il sacrestano afferma che non è bene soffermarsi troppo sulla sofferenza fisica di Gesù durante la Passione. L’uomo dichiara che, nel suo piccolo, ha sofferto quanto Gesù Cristo e, malgrado l’agonia del Messia sia stata abbastanza lunga (circa quattro ore), ben più terribile deve essere stato l’abbandono subito prima ad opera degli apostoli (colpevoli di non avere compreso il messaggio cristico) e poi del Padre, invocato con voce altissima sulla croce, in una simbolica e quanto mai evidente umana e straziante dubbiosità nei confronti del Divino. “Non sarà stato quello il momento in cui Egli soffrì di più? Per il Silenzio di Dio?”, conclude il sacrestano.

Ora, già il fatto di soffrire una morte temporale per liberare gli uomini da una morte eterna[5], può suscitare qualche dubbio logico. Emanuele Severino lo sottolinea nel suo libro Pensieri sul cristianesimo quando afferma: “Cristo ha sofferto una morte temporale che non meritava - cioè la morte del corpo, seguita dalla resurrezione -, per liberare gli uomini da una morte eterna, cioè dalla dannazione che essi meritavano. In questo modo, Cristo muore troppo poco: muore una morte temporale per riscattare una pena e una morte eterna”[6]. Cristo, dunque, affinchè il debito sia pagato nei confronti di Dio, dovrebbe patire la pena eterna e non una inferiore (quella corporea, per intenderci). In tal modo vi sarebbe la perpetuazione della rapina e infrazione della norma Divina, che esige il pagamento per intero del dovuto.

Nella preghiera più importante per il cristiano, che è il Padre Nostro, è presente una frase a dir poco enigmatica: “Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male”. Perché mai Dio dovrebbe tentarci? La parola tentazione si è soliti associarla al maligno per eccellenza: il Diavolo. Dia-bolos deriva da gettare (ballein) e attraverso (diá), ovvero allontanare, separare; così come oppostamente il termine simbolo era syn-ballein, tenere insieme. Questa separazione da parte di Dio dal maligno, da sempre perentoriamente rimossa dalla cultura cristiana come realtà assolutamente non appartenente al dogma divino, è evidente anche nel segno della croce che tutti i credenti effettuano come testimonianza della loro fede. Il demoniaco, parte dell’arcaica simbiosi tra le due opposizioni originarie,  è estromesso dal movimento della mano destra: nel momento in cui dovrebbe coincidere col nominare Satana, avviene l’omissione attraverso il prolungamento della dizione dello Spirito Santo anche sulla spalla sinistra. Di questo se ne era già accorto Jung quando nel saggio L’interpretazione psicologica del dogma della Trinità scriveva: “Il diavolo non ha un giusto posto nel cosmo trinitario. […] Come avversario di Cristo dovrebbe assumere una posizione antitetica equivalente, ed essere parimenti un figlio di Dio. Ciò potrebbe condurre direttamente a certe vedute gnostiche, secondo le quali il diavolo come Satana era il primo figlio di Dio, Cristo il secondo. Un’altra conseguenza logica sarebbe l’abolizione della formula trinitaria e la sua sostituzione con una quaternità. […] Certo allora non è più dubbio che di vita comune non respirano solo il Padre e il Figlio luminoso, ma anche il Padre e la creatura tenebrosa”[7].

Dopo questa rapida esposizione di alcuni temi trattati da Sergio Quinzio e altri pensatori sul rapporto tra l’uomo e la Rivelazione di Dio attraverso le scritture, non è facile credere senza percepire l’instabilità delle fondamenta su cui poggia la fede. Quasi al termine del suo saggio La sconfitta di Dio, Quinzio ammonisce i suoi lettori con un passo che ha il sapore dell’amara constatazione che le cose potrebbero restare in un inalterabile status quo, senza più l’ausilio della religione e il suo ruolo di contenimento del Sacro[8]: “La fede guarda da una fine che potrebbe non venire. Tutto potrebbe continuare indifferentemente e indefinitamente così come lo conosciamo, e procedere nell’oblio di Dio, nell’allontanamento da colui che ha creato e sostiene tutte le cose, verso la consumazione di ogni aspettativa e di ogni prospettiva, avanzando in uno spazio dove il permanere degli oggetti e la loro dissoluzione, l’atto di torturare un bambino e quello di accudirlo amorevolmente, diventano sempre più equivalenti e indistinguibili. Questo è l’orizzonte che si profila, dal momento che il nostro orizzonte è quello che ci appare dal punto di vista della storia che abbiamo vissuto e in cui siamo collocati, dal momento insomma che non possiamo appellarci a nessuna presunta oggettività di cui sapremmo qualcosa al di là di ciò che sperimentiamo guardando le cose, appunto, dal nostro punto di vista”[9].



[1] S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995, p. 101.

[2] E’ davvero sconcertante e assolutamente non augurabile l’essere presenti al Giudizio Universale. Gli sciagurati “ultimi uomini” che avranno questa possibilità, non possono certo essere considerati degli eletti bensì creature alle quali è negato addirittura il diritto di morire naturalmente… il tutto in nome di un presenzialismo che ha il sapore di una “coercizione metafisica”.

[3] S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992, p. 73, 74.

[4] S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995, p. 15.

[5] Frase contenuta nel De Trinitate di S. Agostino (XIII, 16, 21)

[6] E. Severino, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano, 1995, p. 238.

[7] C.G. Jung, Saggio d’interpretazione del dogma della trinità, Opere, Boringhieri, Torino, 1988, p. 170, 171.

[8] Questo tema è molto ben trattato da Umberto Galimberti nella raccolta di saggi Orme del sacro, edito da Feltrinelli. Il filosofo nell’introduzione dichiara esplicitamente che al regno del sacro non appartengono solo le creature soprannaturali, i mostri o i Santi, ma anche gli istinti, le pulsioni, le malattie, insomma tutto ciò che Freud descrisse e relegò tra gli oscuri meandri dell’inconscio.

[9] S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992, p. 98, 99.


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