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VITA E OPERE
Sergio Quinzio nasce ad Alassio, in provincia di Savona, il 5 maggio 1927: ha
prestato servizio per diciassette anni nella Guardia di finanza, da cui si è
congedato con il titolo di capitano. Ha poi vissuto in isolamento per
quattordici anni in un piccolo paese delle Marche (Isola del Piano), dove ha
intrapreso quello studio approfondito della Bibbia che è stato l'impegno
costante della sua vita. Saggista, commentatore di temi religiosi, teologo,
negli ultimi anni si è trasferito a Roma. Ha collaborato con La Stampa, il Corriere della sera, l' Espresso, unendo le sue doti di
fine biblista e di efficace divulgatore culturale. È morto a Roma il 22 marzo
1996. Tra le sue opere, ricordiamo: Diario profetico, Guanda, Milano,
1958; Religione e futuro, Realtà nuova, Firenze, 1962; Giudizio sulla
storia, Silva, Milano, 1964; Cristianesimo dell'inizio e della fine,
Adelphi, Milano, 1967; Laicità e verità filosofica. La religione nella
scuola, Armando, Roma, 1970; Le dimensioni del nostro tempo,
Rebellato, Cittadella, 1970; I potenti della letteratura, Rusconi,
Milano, 1970; Un Commento alla Bibbia, Adelphi, Milano, 1972 (II. ed.
1995); Monoteismo ed ebraismo, Armando, Roma, 1975; L'impossibile
morte dell'intellettuale, Armando, Roma, 1977; La fede sepolta,
Adelphi, Milano, 1978; Dalla gola del leone, 1980; L'incoronazione,
Armando, Roma, 1981; Silenzio di Dio, Mondadori, Milano, 1982; La
croce e il nulla, Adelphi, Milano, 1984; La speranza nell'apocalissi,
Ed. Paoline, Milano, 1984; Domande sulla santità, Ed. Gruppo Abele,
Torino 1986; Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano, 1991; La
sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1993; Mysterium iniquitatis,
Adelphi, Milano, 1995. PENSIERO
Sergio Quinzio ha dedicato la sua intera esistenza ad una approfondita esegesi
della Sacra Scrittura, nella quale gli strumenti della filologia sono messi al
servizio di una visione sinottica della civiltà ebraico-cristiana. Una
radicale meditazione teologica sulla fede cristiana, soprattutto in relazione
alla modernità intesa come secolarizzazione dell'escatologia biblica, ha
condotto Quinzio a ravvisare nei principali tratti del mondo moderno,
apparentemente ateo e scristianizzato, la trascrizione (da intendere come
parodia e contraffazione o come demitizzazione) della speranza giudaica. La
concezione biblica del mondo come radicale contingenza e storicità, in tal
senso, è opposta da Quinzio alla concezione pagana del mondo come natura
eternamente regolata da un logos. Questa dicotomia tra mondo greco (in cui il tempo è ciclicamente inteso) e mondo cristiano (in cui il tempo è inteso come una linea retta che procede senza sosta verso il futuro) presenta molti tratti in comune con quella di Karl Löwith. Quinzio è approdato, negli ultimi
anni, ad un cristianesimo tragico incentrato sulla "sconfitta di
Dio", sulla constatazione disperata che la promessa messianica è stata
elusa e delusa e che la stessa esistenza della divinità è minacciata
dall'impotenza e dal rischio. All'interno di questo orizzonte di pensiero che
pone in relazione nichilismo e cristianesimo, ontologia del declino e “Dio
debole”, si spiega il sodalizio intellettuale con Gianni Vattimo – il padre del
“pensiero debole” – e con altri filosofi e pensatori contemporanei.
Sergio Quinzio è uno dei più
grandi esegeti italiani dei testi biblici e dei Vangeli, un pensatore scomodo
per la chiesa cattolica come scomodi sono tutti quei credenti erosi dal dubbio
della fede. Qiunzio era un credente “critico”, un uomo che durante la sua vita,
purtroppo terminata nel 1996, si è posto tormentose e inquietanti domande sul
rapporto tra l’uomo e il Dio della tradizione ebraico-cristiana. Uno
dei punti centrali della riflessione di Quinzio è il ribadire con forza che il
concetto di “immortalità dell’anima” non è di matrice cristiana ma greca
(platonica precisamente); conclusione alla quale peraltro era già pervenuto
Nietzsche affermando che il cristianesimo non era altro che un “platonismo
volgarizzato”. La Chiesa cattolica apostolico-romana offre ai suoi fedeli la
“resurrezione della carne” alla fine dei tempi. Proprio in questa visione
escatologica (dal greco éschata “cose ultime”) risiede la grande
differenza tra mito e religione, due concezioni che non vanno assolutamente
confuse. Ecco il giudizio di Quinzio: “Si sente comunemente parlare di “mito
biblico”, e persino di “mito cristico”; ma questo significa non percepire la
lontananza e la drammatica opposizione fra il mito che è protologico, e la
fede, che è invece escatologica, e quindi rivolta al futuro e non al passato”[1].
Il mito non consiste in una progressione lineare della storia ma in una
ciclicità degli eventi nell’eterno ritorno dell’uguale. Il telos, il
senso della storia si dà, in ambito religioso, con la fine dei tempi e il
Giudizio Universale per opera di Dio, che riporterà sulla terra la giustizia e
la verità. Lo
scenario prospettato alla fine della storia è davvero apocalittico (dal greco apo-kalypto
“togliere il velo”): i morti risusciteranno dalle tombe e, con la minoranza dei
vivi[2],
si sottoporanno al severo giudizio divino. Su questo aspetto Quinzio non manca
di precisare che: “Il giorno del Signore, grande e terribile, che già i profeti
avevano insistentemente annunciato, e ossessivamente descritto con estrema
violenza, come farà l’Apocalisse a sigillo delle Scritture, è “giorno di
furore, giorno di tribolazione e d’angoscia, giorno di devastazione e di
desolazione, giorno di tenebre e di oscurità, giorno di nembi e di nuvole,
giorno di tromba e di gridi di guerra” (Sof 1, 15-16). […] Questo è il giorno
che gli uomini e Dio, dovrebbero desiderare e invocare. L’orrore come estrema,
unica possibilità di salvezza. Un’invocazione necessaria e impossibile insieme”[3]. Frasi,
queste, da sottoporre ad una interpretazione di tipo allegorico o metaforico?
Quinzio non è di questo parere: “La resurrezione dei morti è quanto di più
difforme si possa immaginare dall’esperienza comune e dalle ragionevoli
aspettative umane. Eppure il Simbolo degli Apostoli afferma la “resurrezione
della carne” per “la vita eterna”, e il Credo di Nicea-Costantinopoli afferma
la “resurrezione dei morti” per “la vita del mondo che verrà”. Se ci si
limitasse a parlare di resurrezione dei morti per la vita eterna, forse sarebbe
ancora possibile dare un’interpretazione metaforica di questa verità. Ma dalle
formule usate nei due venerandi testi della Chiesa antica risalta
l’affermazione che sarà la carne a risuscitare per vivere nel mondo che verrà.
E su questo non sono ammesse interpretazioni metaforiche: questa è la promessa
di Cristo, il cuore di quell’annuncio cristiano che noi troppo spesso tendiamo
a dimenticare, fingendo di non vedere ciò che la Scritture stesse dicono chiaramente”[4]. Sono
trascorsi più di duemila anni da quando il sepolcro di Cristo è stato trovato
vuoto e, malgrado i continui annunci dell’incombente fine del mondo nel
Giudizio di Dio, nessuno ha ancora visto gli angeli discendere dal cielo e i
morti risorgere dalle tombe. Tutto ciò ha ormai assunto la forma di una
sconfitta di Dio in un inarrestabile indebolimento della fede. Altro snodo cruciale è quello
della incontestabile presenza (per non dire dominio) del male nel mondo. Su
questo punto Quinzio è molto semplice e diretto. Partendo dalla constatazione
di vivere in un universo in cui gli orrori fanno parte della quotidianità (dal
bambino morto cadendo in un pozzo artesiano, alle continue devastazioni causate
dalle guerre), egli si domanda come possa esistere il male se il Dio della
Creazione si è rivelato come Dio di infinito bene, di misericordia e perdono.
Eppure fin dalle prime pagine della Bibbia entra in scena la morte, dopo la
ribellione di Adamo e Eva, con l’assassinio di Abele compiuto dal fratello
Caino. Un Dio onnipotente che non aveva creato la morte deve subirla, come più
tardi, di fronte ai costruttori della torre di Babele, proverà un sentimento di
paura (Gn 11, 6) verso la creatura da lui stesso creata? Kenosys è la parola greca che significa caduta, abbassamento,
declino. Nella creazione del mondo molti teologi hanno visto una perdita di
potenza da parte di Dio, così come l’aspetto kenotico è fortemente presente
nell’Incarnazione in Cristo. Viene il sospetto, a questo punto, che Dio non sia
completamente onnipotente e non possa impedire al male di propagarsi
all’interno del creato. In effetti se Dio vuole il male allora è in
contraddizione con la sua parola rivelata, parola di amore, pace e fratellanza;
in alternativa potremmo affermare che Egli non vuole il male ma è costretto a
subirlo a causa della perdita di controllo sul mondo derivante dalla creazione.
Dubbio lacerante già esposto dal filosofo Hans Jonas nella sua memorabile
riflessione Il concetto di Dio dopo Auschwitz, riassunto nella frase
“Quale Dio ha permesso che ciò accadesse?”. L’esperienza di Auschwitz non può
essere compresa con le categorie teologiche tradizionali, ma produce una
rottura tra il modo di intendere Dio dell’Antico Testamento (interventista e
presente) e quello col quale noi oggi dobbiamo convivere: un Dio silente,
lontano, incomprensibile. Riportare nel creato la giustizia, la misericordia,
valori portanti del mistero dell’Incarnazione, fa chiaramente intendere che il
mondo è imperfetto e bisognoso di continui aggiustamenti. L’aver dato vita
all’uomo come creatura libera, ha inevitabilmente fatto cortocircuitare
l’intera costruzione divina nell’esposizione al peccato. Non è possibile
concludere questo ragionamento senza dedurre che per evitare il peccato,
all’uomo non dovrebbe essere lasciata la libertà di scelta, ma subire
l’eterodirezione della volontà di Dio. In questo caso sarebbe allora lo stesso
Dio a doversi autopunire per le colpe da egli stesso commesse. A
ben rifletterci il culmine dell’auto-punizione di Dio potrebbe coincidere con la Passione di suo figlio Gesù Cristo sulla croce. Tuttavia, sfruttando l’intensità e il rigore
delle riflessioni in ambito religioso contenute nei film di Ingmar Bergman,
possiamo citare il dialogo tra il pastore Ericsson e il suo sacrestano nel film
“Luci d’inverno” del 1962. Dopo aver premesso che la lettura dei Vangeli gli
serviva come cura per i dolori corporali che l’affliggevano alla sera prima del
sonno, il sacrestano afferma che non è bene soffermarsi troppo sulla sofferenza
fisica di Gesù durante la Passione. L’uomo dichiara che, nel suo piccolo, ha
sofferto quanto Gesù Cristo e, malgrado l’agonia del Messia sia stata
abbastanza lunga (circa quattro ore), ben più terribile deve essere stato
l’abbandono subito prima ad opera degli apostoli (colpevoli di non avere
compreso il messaggio cristico) e poi del Padre, invocato con voce altissima
sulla croce, in una simbolica e quanto mai evidente umana e straziante
dubbiosità nei confronti del Divino. “Non sarà stato quello il momento in cui
Egli soffrì di più? Per il Silenzio di Dio?”, conclude il sacrestano. Ora,
già il fatto di soffrire una morte temporale per liberare gli uomini da una
morte eterna[5],
può suscitare qualche dubbio logico. Emanuele Severino lo sottolinea nel suo
libro Pensieri sul cristianesimo quando afferma: “Cristo ha sofferto una
morte temporale che non meritava - cioè la morte del corpo, seguita
dalla resurrezione -, per liberare gli uomini da una morte eterna, cioè
dalla dannazione che essi meritavano. In questo modo, Cristo muore troppo
poco: muore una morte temporale per riscattare una pena e una morte eterna”[6].
Cristo, dunque, affinchè il debito sia pagato nei confronti di Dio, dovrebbe
patire la pena eterna e non una inferiore (quella corporea, per intenderci). In
tal modo vi sarebbe la perpetuazione della rapina e infrazione della norma
Divina, che esige il pagamento per intero del dovuto. Nella
preghiera più importante per il cristiano, che è il Padre Nostro, è presente
una frase a dir poco enigmatica: “Non indurci in tentazione, ma liberaci dal
male”. Perché mai Dio dovrebbe tentarci? La parola tentazione si è
soliti associarla al maligno per eccellenza: il Diavolo. Dia-bolos
deriva da gettare (ballein) e attraverso (diá), ovvero
allontanare, separare; così come oppostamente il termine simbolo era syn-ballein,
tenere insieme. Questa separazione da parte di Dio dal maligno, da sempre
perentoriamente rimossa dalla cultura cristiana come realtà assolutamente non
appartenente al dogma divino, è evidente anche nel segno della croce che tutti
i credenti effettuano come testimonianza della loro fede. Il demoniaco, parte
dell’arcaica simbiosi tra le due opposizioni originarie, è estromesso dal
movimento della mano destra: nel momento in cui dovrebbe coincidere col
nominare Satana, avviene l’omissione attraverso il prolungamento della dizione
dello Spirito Santo anche sulla spalla sinistra. Di questo se ne era già
accorto Jung quando nel saggio L’interpretazione psicologica del dogma della
Trinità scriveva: “Il diavolo non ha un giusto posto nel cosmo trinitario.
[…] Come avversario di Cristo dovrebbe assumere una posizione antitetica
equivalente, ed essere parimenti un figlio di Dio. Ciò potrebbe condurre
direttamente a certe vedute gnostiche, secondo le quali il diavolo come Satana
era il primo figlio di Dio, Cristo il secondo. Un’altra conseguenza logica
sarebbe l’abolizione della formula trinitaria e la sua sostituzione con una
quaternità. […] Certo allora non è più dubbio che di vita comune non respirano
solo il Padre e il Figlio luminoso, ma anche il Padre e la creatura tenebrosa”[7]. Dopo
questa rapida esposizione di alcuni temi trattati da Sergio Quinzio e altri
pensatori sul rapporto tra l’uomo e la Rivelazione di Dio attraverso le scritture, non è facile credere senza percepire l’instabilità delle fondamenta su cui
poggia la fede. Quasi al termine del suo saggio La sconfitta di Dio,
Quinzio ammonisce i suoi lettori con un passo che ha il sapore dell’amara
constatazione che le cose potrebbero restare in un inalterabile status quo, senza
più l’ausilio della religione e il suo ruolo di contenimento del Sacro[8]:
“La fede guarda da una fine che potrebbe non venire. Tutto potrebbe continuare
indifferentemente e indefinitamente così come lo conosciamo, e procedere
nell’oblio di Dio, nell’allontanamento da colui che ha creato e sostiene tutte
le cose, verso la consumazione di ogni aspettativa e di ogni prospettiva,
avanzando in uno spazio dove il permanere degli oggetti e la loro dissoluzione,
l’atto di torturare un bambino e quello di accudirlo amorevolmente, diventano
sempre più equivalenti e indistinguibili. Questo è l’orizzonte che si profila,
dal momento che il nostro orizzonte è quello che ci appare dal punto di vista
della storia che abbiamo vissuto e in cui siamo collocati, dal momento insomma
che non possiamo appellarci a nessuna presunta oggettività di cui sapremmo
qualcosa al di là di ciò che sperimentiamo guardando le cose, appunto, dal
nostro punto di vista”[9].
[1] S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995, p. 101.
[2] E’ davvero sconcertante e assolutamente non augurabile l’essere presenti al Giudizio Universale. Gli sciagurati “ultimi uomini” che avranno questa possibilità, non possono certo essere considerati degli eletti bensì creature alle quali è negato addirittura il diritto di morire naturalmente… il tutto in nome di un presenzialismo che ha il sapore di una “coercizione metafisica”.
[3] S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992, p. 73, 74.
[4] S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995, p. 15.
[5] Frase contenuta nel De Trinitate di S. Agostino (XIII, 16, 21)
[6] E. Severino, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano, 1995, p. 238.
[7] C.G. Jung, Saggio d’interpretazione del dogma della trinità, Opere, Boringhieri, Torino, 1988, p. 170, 171.
[8] Questo tema è molto ben trattato da Umberto Galimberti nella raccolta di saggi Orme del sacro, edito da Feltrinelli. Il filosofo nell’introduzione dichiara esplicitamente che al regno del sacro non appartengono solo le creature soprannaturali, i mostri o i Santi, ma anche gli istinti, le pulsioni, le malattie, insomma tutto ciò che Freud descrisse e relegò tra gli oscuri meandri dell’inconscio.
[9] S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992, p. 98, 99.