Radicamento e memoria storica
Di Antonietta Pistone
Assistiamo tutti, più a meno impotenti, allo smarrimento del senso delle nostre esistenze. Si tratta della patologia maggiormente diffusa nel settore contemporaneo della cultura. Essa corrisponde ad un abbandono ignorante dell’umanesimo per le applicazioni della tecnologia senza contenuti. Insignificanti e fredde. Glaciali come l’uomo, figlio dell’epoca in cui viviamo. Lo smarrimento generale si imprime nella paura dei giovani. Delle generazioni che devono costruirsi un futuro. Ma quale significato, quale scopo, per un obiettivo nebuloso ed indistinto? Cosa consegnerà ai posteri la contemporaneità? Quale eredità senza un passato? Forse il rimedio c’è. Come esiste una terapia per ogni malattia. La salvezza si chiama radicamento. E ne parlava già Simone Weil nel 1949, subito dopo la seconda guerra mondiale, quando scriveva, nella Francia stravolta dall’orrore delle truppe naziste, il suo capolavoro filosofico intitolato La prima radice. Ma il pubblico di fruizione dell’opera è ben più vasto, e si estendeva allora a tutta l’Europa stordita e distrutta dalla guerra devastante. Così come si rivolge oggi alla totalità del globo terrestre. Offeso dalla mancanza di valori di pace. Ferito dalla grettezza mentale di chi non conosce il dialogo costruttivo con l’altro, il rispetto per l’alterità, la relazione interattiva e comunicante. Sempre alla ricerca di risposte significative a domande angosciose e problematiche per tutti gli esseri umani. Siamo, comunque, persone radicate in qualcosa: dal grembo materno prima di venire al mondo, alla famiglia, agli affetti, alle amicizie, al lavoro, alla società in cui viviamo dopo. Non possiamo né dobbiamo dimenticarlo. Ma ogniqualvolta, rei di amnesia, smarriamo le coordinate della nostra reciproca esistenza, finiamo col perdere anche noi stessi e le nostre vite alienate che non ci appartengono più. Dobbiamo recuperare la prima radice, che è insieme umana e affettiva. Esistenziale e storica. Perché storico è il tempo degli uomini. Kant chiamava a-priori lo spazio e il tempo, proprio perché strutture ontologiche del pensiero umano, incapace di possedere elementi razionali differenti di coordinazione del reale. Di modo che, se si vuole conoscere il nuovo, non è possibile inquadrarlo e definirlo entro altre forme del pensiero, a prescindere, appunto, da quelle spazio-temporali. Il tempo, la storia, garantiscono il radicamento dell’uomo nel passato, e permettono la formazione dell’identità individuale e collettiva di un popolo. Se vogliamo guardare avanti fiduciosi nel futuro, dobbiamo avere saldi punti di riferimento nella storia, nella memoria collettiva di chi ci ha preceduto. Non per restare malinconicamente rivolti indietro, ma per poter sorvolare dall’alto la prospettiva a lungo termine che ci si apre dinanzi. Siamo nani sulle spalle dei giganti. Paradossalmente, l’amore per la storia è riferibile ad un interesse crescente per il presente e per la progettualità di un futuro ancora tutto da scrivere. Nel quale, ci auguriamo, che i giovani possano lasciare una significativa impronta del loro passaggio e della loro presenza. Il recupero della memoria storica e collettiva di un popolo si muove di pari passo con l’attenzione ai contesti locali e territoriali dove si sono svolti i fatti. E allora, le fonti orali, la tradizione, o i documenti scritti, tutto entra a fare parte della cultura di quel popolo e della identità della sua gente. Eccoci giunti al radicamento di cui parla Weil. Le radici di un uomo sono nella sua storia personale, in quella familiare, in quella locale e territoriale. Infine, nella memoria collettiva dei suoi connazionali. La Storia, pertanto, stabilisce il legame selettivo e critico con il passato. Rinvigorendo il presente. E infondendo speranza operativa nel futuro. Il recupero dei valori della tradizione fissa l’identità dell’individuo, favorendo quel processo di autoriconoscimento all’interno di un gruppo sociale di cui egli sente di far parte. Il senso di appartenenza sviluppa il radicamento. E nei giovani contemporanei questo bisogno di appartenenza è assai forte. Inoltre, contribuisce alla costruzione di un mondo significativo, ricco di senso, perché pregnante di contenuti e di valori universali per tutta l’umanità. Combattere lo sradicamento contemporaneo con la cultura storica, e costruire reti di relazioni significative e significanti. Questo lo scopo e la terapia, tecnica di salvezza utilizzabile per colmare il vuoto di valori in cui rischiamo di precipitare in un suicidio collettivo. Portando fiumi di acqua viva ad innaffiare quell’arido deserto di senso, di cui parlava Heidegger, che ormai tutti abbiamo paura di scorgere davanti ai nostri increduli occhi.
Antonietta Pistone
Docente di storia e filosofia
Articolo comparso sul Provinciale di Foggia, anno XVI-n.3, marzo 2004