RIVISTA DI FILOSOFIA NEO-SCOLASTICA
Anno XCIX, Gennaio-Marzo 2007.
Ilaria Ramelli: recensione a Diego Fusaro, La farmacia di Epicuro: la filosofia come terapia dell’anima, Il Prato, Saonara, Padova, 2006. Pp. 212.
L’opera costituisce un compendio della filosofia epicurea, vòlto a coglierla nei suoi aspetti terapeutici. Nella presentazione (pp. 5-9) Giovanni Reale illustra l’essenza di quella che giustamente l’Autore denomina la “rivoluzione copernicana” attuata da Epicuro, il quale non dedusse l’eudaimonia dal suo sistema filosofico, bensì adattò il sistema stesso all’ideale eudemonistico che costituisce il cuore della sua filosofia. Reale propone inoltre un’osservazione di estremo interesse: Epicuro aveva ben compreso che il problema della vita non può essere risolto da ciò che oggi chiamiamo scienza, intravedendo una netta distinzione tra filosofia prima, ossia ontologia in senso forte – nell’Epicureismo fondata sui princìpi supremi degli atomi e del vuoto, essi soli eterni –, e filosofia seconda, consistente nella spiegazione fallibile dei fenomeni particolari. Altri rilievi a mio parere di grande importanza riguardano la precisazione del tipo di edonismo che caratterizza la filosofia di Epicuro: non va inteso “nel senso comune e riduttivo del termine: l’atteggiamento del nostro filosofo di fronte al piacere è, oserei dire, di carattere ascetico” (p. 8). Inoltre, anche grazie all’alto ideale dell’amicizia, che di gran lunga trascende l’edonismo, “Epicuro si pone come una delle voci più autentiche della sua età”, che ha ancora molto da offrire agli uomini del nostro tempo, soprattutto in virtù di una teoria che non rimane astratta, ma vuole trovare immediata applicazione come terapia dei mali dell’anima. Nel sottotitolo del suo libro, infatti, Fusaro – come spiega nella prefazione (pp. 11-13, costituente il cap. 1) – si richiama espressamente al titolo di una monografia dello stesso G. Reale, La filosofia di Seneca come terapia dell’anima, Milano 2003, dedicata ad un altro filosofo ellenistico che conferiva alla filosofia un simile valore terapeutico. Il titolo del presente libro è ispirato invece a J. Derrida, La farmacia di Platone, tr. it. Milano 1985: seguendo l’ambivalenza del termine farmakon, Fusaro fa osservare che la filosofia di Epicuro è, da un lato, medicina, come la tipizzazione del quadrifarmaco aveva reso ben evidente già dall’antichità, ma che, dall’altro lato, risulta essere anche un veleno, in rapporto al concetto tradizionale di filosofia invalso fino a quel momento, in cui l’aspetto teoretico era privilegiato su quello pratico: Epicuro invece asserisce senza mezzi termini che la felicità ha il primato sulla verità e che una filosofia incapace di donare la felicità agli uomini non ha alcun valore.
Il cap. 2 (pp. 14-26), infatti, si concentra sull’eudemonismo come caratteristica essenziale del pensiero epicureo e sulla Lettera a Meneceo come manuale dedicato a chi vuole essere felice, a partire dall’eliminazione delle paure. Fusaro, presentando l’ellenismo come culla dell’epicureismo, sottolinea l’universalità del messaggio di Epicuro, che ritiene la filosofia adatta a giovani e vecchi, uomini e donne, ricchi e poveri. Il cap. 3 (pp. 27-53) illustra come l’epicureismo ponesse la fisica al diretto servizio dei suoi fini eudemonistici. L’Autore opportunamente ripercorre il background della fisica epicurea, soffermandosi soprattutto su Parmenide e su Democrito, che al suo pensiero aveva reagito, e sull’aspetto sotto il quale Epicuro si distaccò dalla fisica democritea, con la teoria della paregklisis: questa è fondamentale per il risvolto che ha in etica, e per questa ragione sta a cuore ad Epicuro, in quanto consente la libertà. Essa, giustamente considerata dall’Autore una libertas a coactione, viene dunque a fondarsi sull’intrinseca indeterminatezza della fisica, dal che risulta ulteriormente chiaro che ad Epicuro, assai più della fisica, interessava l’etica. Nel cap. 4 (pp. 54-80) Fusaro indaga come l’epicureismo ponesse anche la gnoseologia, fondata sulla dottrina degli eidola, al servizio della felicità, accordando una tale fiducia al resoconto dei sensi da far coniare a G. Reale (Storia della filosofia greca e romana, V, p. 126) la definizione di “religione laica”. Questo dogmatismo di Epicuro è confrontato da Fusaro con lo scetticismo di Democrito; la scelta del primo da parte di Epicuro è dovuta, ancora una volta, a motivi etici, in quanto il dogmatismo procura una serenità che lo scetticismo non può offrire, come afferma espressamente Lucrezio (IV 507-512).
La Lettera a Pitocle è il centro dell’attenzione nel cap. 5 (pp. 81-93), in cui si mostra come la meteorologia sia stata trattata da Epicuro sempre ai fini della felicità. Le molteplici spiegazioni dei fenomeni celesti che infatti Epicuro ammette, riprendendole forse da Teofrasto, assolvono al compito di rasserenare l’animo, liberandolo dal timore di cause sovrannaturali per i fenomeni. La teoria epicurea, al contempo, elimina anche ogni dicotomia tra mondo celeste e mondo terreno. La teologia epicurea è studiata nel cap. 6 (pp. 94-110), soprattutto nei suoi aspetti di degna concezione degli dèi, mancata provvidenza e negazione del finalismo. Sono richiamati i passi lucreziani più celebri contro la superstizione dei sacrifici pagani: l’immolazione di un vitellino e la sofferenza di sua madre in II 352-366, e, celeberrimo, il sacrificio di Ifigenia (I 84-101). Fusaro risponde acutamente alla domanda relativa alla ragione per cui Epicuro abbia mantenuto gli dèi tradizionali anziché ricusarli tout court: sia perché questo avrebbe creato ansia e disorientamento di fronte a un’abitudine ormai cristallizzata, sia soprattutto poiché gli dèi, nella loro assoluta ataraxia e felicità, hanno un valore paradigmatico per noi. Nel cap. 7 (pp. 111-125) è analizzato come Epicuro risolva i problemi della morte e del dolore quali minacce alla felicità. Il primo è definito a buon diritto da Fusaro come un “incontro mancato”, a causa del quale, secondo Epicuro, soffrono assai più quanti rimangono. Il cap. 8 (pp. 126-138) delinea accuratamente il concetto di piacere catastematico, ponendone giustamente in luce tutta la moderazione e la natura essenzialmente negativa, di aponia, e insistendo a buon diritto nel mostrare quanto esso sia lontano da ogni sfrenatezza ed eccessiva mollezza, e quanto esso prediliga quelli che chiameremmo piaceri intellettuali.
Nel cap. 9 (pp. 139-162) l’Autore considera se l’ideale epicureo possa essere veramente definito come individualista, per concludere che questo non è veramente possibile, soprattutto in virtù dell’altissima concezione dell’amicizia riscontrabile in Epicuro, che Fusaro difende a ragione dall’accusa di utilitarismo, dato che per Epicuro l’amicizia nasce dal reciproco giovamento, ma presto trascende questa dimensione per divenire fine a se stessa. Potremmo parlare di individualismo solo in senso universale e trasversale, rivolto all’uomo in quanto tale. Quanto alla vita politica, difficilmente compatibile con l’ataraxia, l’Autore richiama opportunamente l’interessante motivazione addotta da Diogene Laerzio per l’astensione di Epicuro da essa: la sua eccessiva modestia. Dal punto di vista del diritto, Epicuro nega che ne esista uno secondo natura, e si pone alle radici del positivismo giuridico. Il cap. 10 (pp. 163-171) è dedicato ad alcune riflessioni conclusive sulla valenza terapeutica della filosofia secondo Epicuro, uno scopo cui egli piega tutto il resto. La profonda coerenza tra la predicazione filosofica di Epicuro e la sua vita, raramente presente nei filosofi, è sottolineata nel cap. 11 (pp. 172-178). Il cap. 12 (pp. 179-204), infine, fornisce una breve storia del pensiero epicureo e delle sue influenze attraverso i secoli: esso rimase sostanzialmente invariato, ma fu anche impiegato a supporto di teorie assai diverse, fino all’avvicinamento al cristianesimo tentato da Guglielmo di Conches, Lorenzo Valla e altri: credo tuttavia che l’Autore abbia ben ragione nel notare alcune profonde incompatibilità tra epicureismo e cristianesimo. Per Lucrezio, Fusaro suppone che il suo poema possa essere anche non finito; il suo titolo si richiama certamente al monumentale Perì fuseos di Epicuro, in trentasette libri, i cui frammenti, recuperati soltanto di recente nella villa epicurea di Ercolano, attendono ancora di essere disponibili in un’edizione italiana complessiva. Conclude l’opera una breve bibliografia (pp. 205-212).
Si tratta di un contributo chiaro, sintetico e ben articolato, che poggia su solide basi scientifiche e su una sicura e approfondita conoscenza del pensiero epicureo, e che al contempo si legge piacevolmente e si presenta come un invito ad accostarsi ad un pensiero dotato di profonda coerenza e finalizzato primariamente alla ricerca della felicità. Anzi, come Fusaro mostra bene, risulta precisamente costruito ad hoc.
Ilaria Ramelli, Università Cattolica del S. Cuore, Milano