ROSENZWEIG

A cura di Diego Fusaro



Franz RosenzweigFranz Rosenzweig nacque a Kassel (Germania) il 25 dicembre 1886 in una famiglia ebrea di raffinata cultura. Studiò in un primo tempo medicina, ma poi si allontanò da tali studi per dedicarsi in toto alla storia e alla filosofia, annoverando fra i suoi maestri Rickert e Meinecke. Rosenzweig – ebreo ma con tiepidi sentimenti religiosi – progettò di convertirsi alla religione cristiana, ma dopo un’intensa e lunga crisi – che segnò il punto nodale della sua vita – riscoprì l’antica religione e decise – nell’ottobre del 1913 – di rimanere ebreo. Affetto da una gravissima malattia, restò paralizzato e riuscì a studiare solamente in virtù delle cure prestategli dalla moglie, alla quale indicava, su uno speciale apparecchio, le lettere dell’alfabeto che compongono le parole. Morì nel 1929, a soli quarantatré anni di età. Le sue opere principali, degne di menzione, sono: Hegel e lo Stato (1920), La Stella della redenzione (1921) e Il nuovo pensiero (1925). Alla base del pensiero filosofico di Rosenzweig sta il netto rifiuto delle pretese idealistiche e totalizzanti della filosofia, la quale, pur radicandosi nella limitata condizione mortale del singolo, finisce per negare la realtà della morte e del tempo. Da ciò deriva la tesi a effetto con cui Rosenzweig apre il suo complesso capolavoro, la paura della morte genera la filosofia, ma la filosofia nega la realtà della morte:

"Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia" (La Stella della redenzione).

Infatti, pur traendo origine dal timore della morte, la filosofia tenta di circuire l’uomo attraverso l’idea del Tutto:

"Poiché, certo, un Tutto non morrebbe e nel Tutto nulla morirebbe. Soltanto ciò ch’è singolo può morire, e tutto ciò ch’è mortale è solo" (La Stella della redenzione).

Pur muovendosi nella medesima atmosfera esistenzialistica del primo Heidegger – quello prima della Kehre -, a cominciare dal tema della natura irriducibilmente personale della morte (che per Heidegger è la nostra possibilità più autentica), Rosenzweig non tematizza l’uomo senza Dio (gottlos), ma l’uomo immerso in un insieme di rapporti al cui vertice stanno la comunità, il mondo e Dio. In particolare, egli si impegna nella ricerca di un "nuovo pensiero" (da qui il titolo di una sua celebre opera) alternativo a quella tradizione filosofica che va "dalla Jonia fino a Jena". I caratteri cardinali di questo nuovo pensiero, che dopo aver demolito le totalità speculative del passato mira ad edificare una nuova totalità rispettosa delle esigenze del singolo, sono la fedeltà all’esperienza (ovvero alla concretezza del reale) e l’unione di filosofia e teologia (ossia l’individuazione di una filosofia teologica, o – se preferiamo – di una teologia filosofica, capace di procedere al di là dei limiti della filosofia e della teologia tradizionali). Secondo Rosenzweig, ogni uomo vive di due cose: credere e sapere. Parlando riduttivisticamente per esse di religione e di filosofia, se ne fanno meramente delle discipline specialistiche, una mera faccenda privata che non toccherebbe la concretezza pubblica della vita. Non che fede e sapere siano lo stesso: la fede è dono, invece il sapere è acquisizione. Eppure anche la fede è in relazione con un'attività e con il sapere: "l'azione non è opera di una libertà [...] bensì l'adempimento di una preghiera". Nel rapporto fra docente e allievo indicato da Rosenzweig sta forse il suo messaggio educativo ancora oggi innovatore: il docente non deve soltanto insegnare, ma innanzitutto sapere ascoltare. Questo crea un rapporto interpersonale fondato sull'oralità capace di instaurare una vera e propria amicizia. La rottura della totalità idealistico/panteistica fa sì che il pensiero si trovi dinanzi ai tre elementi di base che costituiscono da sempre il nucleo della sua esperienza dell’essere: Dio, il mondo e l’uomo. Siffatti elementi, dotati di una natura pre-riflessiva e meta-fisica, che li colloca al di là del pensare concettualmente fissato, non devono però essere colti nel loro isolamento e nella loro separatezza (come avviene nella percezione astratta o pagana delle cose), ma nella loro connessione reciproca. Il legame che connette Dio al mondo è la creazione; il legame che connette Dio all’uomo è la rivelazione; il legame che collega il mondo all’uomo è la redenzione. La creazione si attua in un dire che permea le cose – "Egli disse e la cosa fu" (Sal. 33,9) – facendo sì che la sequenza del reale si risolva nella trama linguistica che al vivifica. Particolar rilievo assume dunque il linguaggio, concepito come la forma stessa delle relazioni che collegano Dio, l’uomo e il mondo. I concetti teologici di base – creazione, rivelazione, redenzione – divengono quindi in Rosenzweig vere e proprie "categorie ontologiche", come ha brillantemente rilevato Lévinas. Con il risultato di fare della religione (da religare, "unire") la struttura e la verità profonda dell’essere. Della verità religiosa ebraismo e cristianesimo, nella loro complementarità, rappresentano le incarnazioni più elevate: di tale verità – prosegue Rosenzweig – occorre che i singoli e i popoli rechino testimonianza, giacchè – egli ammonisce – il "camminare nella luce del volto di Dio" – cioè il muoversi all’interno dello spazio aperto dalla Stella della redenzione – è unicamente dato a chi segue le parole che la bocca di Dio emana. Come affiora dai versi del profeta antico Michea (6,8) riportati dalla Stella: "Egli ti ha detto, o uomo, ciò che è bene e ciò che esige da te l’Eterno tuo Dio, cioè praticare la giustizia, essere buono nel cuore e camminare in semplicità con il tuo Dio". Partito dalla constatazione della morte, il libro di Rosenzweig, passato attraverso la rivelazione e l’amore, mette quindi capo al "non-più-libro" della vita, ovvero all’impegno etico/religioso nei confronti dell’esistente e del prossimo. Egli cercò di opporsi con risolutezza all’idealismo, che considerava la base culturale dello stato totalitario (tema a cui dedica il suo scritto Hegel e lo Stato), contrapponendo ad esso la concretezza dell’io e dell’esistenza, che sono legati al futuro, ma anche al nulla, alla morte e alla trascendenza. Egli mette tra l’altro in evidenza quanto la filosofia sia inadeguata di fronte alla morte e quanto lo sia anche la solitudine del suicidio: "nel timore della morte egli [l’uomo] deve rimanere", asserisce Rosenzweig.

"Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia. Tutto quanto è mortale vive in questa paura della morte, ogni nuova nascita aggiunge nuovo motivo di paura perché accresce il numero di ciò che deve morire. Senza posa il grembo instancabile della terra partorisce il nuovo e ciascuno è indefettibilmente votato alla morte, ciascuno attende con timore e tremore il giorno del suo viaggio nelle tenebre. Ma la filosofia nega queste paure della terra. Essa strappa oltre la fossa che si spalanca a ogni passo. Permette che il corpo sia consegnato all’abisso, ma l’anima, libera, lo sfugge librandosi in volo. Che la paura della morte nulla sappia di una pretesa divisione in anima e corpo, che essa urli: io, io, io! e non voglia saperne di far risalire la paura esclusivamente al "corpo", che importa questo alla filosofia? L’uomo si appiatti pure come un verme nelle fenditure della nuda terra davanti al sibilare dei colpi della cieca morte implacabile, e poi senta violentemente, inevitabilmente senta quanto altrimenti non avrebbe mai percepito: che se mai morisse, il suo io sarebbe soltanto un illud e perciò, con tutta la voce che gli resta in gola urli, urli ancora il suo io in faccia all’implacabile che lo minaccia di un cosí inconcepibile annientamento. A tutta questa miseria la filosofia rivolge il suo vacuo sorriso e alla creatura, che è squassata in tutte le membra dalla paura del suo aldiqua, mostra con l’indice teso un aldilà di cui essa nulla vuol sapere. Perché l’uomo non vuol affatto sottrarsi a chissà quali catene, vuol rimanere, vuole vivere. La filosofia che davanti a lui esalta la morte come la propria prediletta e come la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita, sembra soltanto prendersi gioco di lui. L’uomo sente fin troppo bene di essere condannato alla morte, ma non al suicidio. E quella raccomandazione filosofica saprebbe soltanto suggerire il suicidio, non rendere accettabile la morte che a tutti incombe. Il suicidio non è la morte naturale, bensí quella assolutamente contro natura. La raccapricciante capacità di suicidarsi distingue l’uomo da tutti gli esseri che conosciamo e che non conosciamo. Essa designa addirittura l’atto di uscire dall’ambito complessivo della natura. Certo è necessario che almeno una volta nella vita un uomo si spinga fuori; egli deve accostare a sé almeno una volta in trepida meditazione la fiala preziosa, egli deve essersi sentito almeno una volta in tutta la propria terribile povertà, solitudine e lacerante separazione dal mondo intero ed essere rimasto un’intera notte faccia a faccia con il nulla. Ma la terra lo reclama di nuovo. Non gli è concesso, quella notte, bere fino in fondo la pozione. Per sfuggire alla strettoia del nulla un’altra via gli è destinata, una via diversa da questo precipitare nelle fauci dell’abisso. L’uomo non deve rigettare da sé la paura terrena, nel timore della morte egli deve rimanere" (La Stella della redenzione).



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