La nuova “confusio linguarum” La deriva semantica nel linguaggio politico-amministrativo



Baumgarten e Shaftesbury

 

Di Andrea Pesce

Stabilire con certezza la causa di alcune derive semantiche nel linguaggio comune e, ancor di più, in quello adottato dal mondo della politica, è compito assai complesso e richiederebbe l’apporto di grandi linguisti o di esperti nelle trasformazioni dei sensi delle parole. Malgrado la difficoltà tecnica che si incontra in tali disamine, anche all’uditorio meno preparato in materia, sarà accaduto di non riuscire più a comprendere il senso di molti discorsi pronunciati da uomini politici, alti prelati, manager di grandi imprese o intellettuali; in alcune circostanze anche chi ricopre funzioni che dovrebbero offrire il massimo grado di trasparenza e chiarezza discorsiva, come per i vertici delle organizzazioni sindacali, è caduto nella trappola di quello che un tempo era definito il “politichese”, un tipo di discorso teso a confondere più che a chiarire, che fa sprofondare l’uditorio nelle sabbie mobili delle astruserie partitiche. E’ bene sottolineare che alcune contraddizioni in termini (valga per tutte quella offertaci dall’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, durante la campagna elettorale del 2001, si autodefinì “il Presidente operaio”) hanno puramente un valore transitorio, legate a particolari momenti della vita politica come elezioni o congressi di partito, e risultano essere talmente banali e propagandistiche che vengono immediatamente “isolate” dai parlanti e considerate alla stregua di battute da osteria. La situazione si fa più seria e, per certi aspetti, drammatica quando alcuni personaggi di spicco del nostro paese fanno affermazioni con le quali è possibile stabilire comunità d’intenti, fiducia e, soprattutto, vengono pronunciate con tale e tanta convinzione da risultare pienamente condivisibili. L’imprenditore italiano Diego Della Valle, in prossimità delle ultime elezioni politiche, ha partecipato a molte trasmissioni televisive ed ha rilasciato parecchie interviste a importanti giornali italiani ed esteri in cui era palesemente dichiarata la sua appartenenza politica. Inoltre, durante l’assemblea generale di Confindustria, a poco più di un mese dalle politiche del 9 e 10 aprile 2006, è stato protagonista di un duro scontro con Silvio Berlusconi che lo accusava di essere un sostenitore del comunismo (quello che faceva bollire i bambini in Cina…sic!), ossessione delirante con la quale Berlusconi ci ha tormentati per cinque lunghi anni. Ora, basta domandare ad un dipendente della Tod’s (l’industria calzaturiera di proprietà di Della Valle) quali sono le condizioni in cui egli si trova a lavorare e si viene a sapere che le contrattazioni integrative aziendali sono inesistenti, che l’indice di sindacalizzazione nell’azienda è scarsissimo e che, tra i lavoratori, serpeggia una muta rassegnazione per la paura di imminenti delocalizzazioni, magari proprio in quella Cina in cui i bambini non vengono bolliti ma sono segregati all’interno delle fabbriche e costretti al lavoro per dieci ore al giorno. Proclamarsi in televisione “imprenditore di sinistra”, può essere definito un atto linguistico “performativo”, un enunciato che: “non descrive e né constata alcunchè ma la cui emissione comporta o si identifica con il compimento di un’azione” [Austin, 1962]. “Le parole sono importanti!” diceva Nanni Moretti in “Palombella rossa”, non vanno prese alla leggera, è sempre gradito, e forse anche conveniente, il silenzio. “Nazismo di sinistra”, “fascismo rosso”, “destra democratica”, “bomba intelligente”, sono solo alcuni esempi di inconciliabilità terminologica con i quali conviviamo linguisticamente da tempo. E che dire della storica dicitura “Democrazia cristiana”, ossimoro da lungo tempo metabolizzato, al quale non si presta più attenzione e che distrugge l’impianto stesso della religione cattolica, che è confessione verticistica, le cui decisioni sono in mano ad un unico capo, ruolo che riveste il Papa (tutelato nel suo decidere dal dogma dell’ “infallibilità papale”) e non si può certo definire la massima realizzazione di un sistema democratico? Nel difficile e sempre più travagliato mondo del lavoro si deve segnalare almeno una definizione che forse, più di tutte, ha subito uno stravolgimento semantico (per ragioni di convenienza che valgono sia per il datore di lavoro e sia per il lavoratore) ormai giunto a livelli davvero inaccettabili: stiamo ovviamente parlando della concezione di “lavoro straordinario”. Il dizionario Garzanti di Diritto lo definisce in questo modo: “Lavoro prestato in aggiunta al normale orario settimanale, fissato dalla legge (40 ore) o dai contratti collettivi nazionali”. Oggi, in Italia, praticamente tutte le aziende, basano la loro produzione di merci o servizi e la loro sopravvivenza nel mercato sul “lavoro straordinario”, concordandolo e programmandolo, abbattendo abbondantemente il tetto delle 40 ore settimanali, nello spregio più assoluto delle leggi vigenti in materia; in ultimo, questo tipo di gestione aziendale, impedisce nuove assunzioni ed inserimenti nel mondo del lavoro, per l’ovvia ragione che i posti di lavoro disponibili vengono cannibalizzati dai dipendenti già presenti nelle imprese. Potrà apparire paradossale ma da questa anomalia si potrebbe ricavare qualcosa di buono e forse giungere ad una soluzione per l’annoso problema dei frequenti scioperi dei lavoratori che garantiscono servizi. Se questi dipendenti si astenessero dal lavoro straordinario, eviterebbero di coinvolgere l’utenza (che viene resa partecipe di un conflitto che non la riguarda), e paralizzerebbero le aziende senza incorrere in nessun procedimento penale. L’ultima raccolta di saggi di Umberto Eco si intitola non a caso “A passo di gambero”, titolo che vuole rimarcare l’attuale tendenza della nostra società ad un arretramento culturale, politico, economico, con rigurgiti di schiavismo lavorativo nell’illusoria rincorsa al profitto senza limiti, rappresentato parossisticamente dal liberalismo dei mercati e dalla globalizzazione. Quando una società giunge ad un tale grado di distanza dal significato originario delle parole che utilizza per comunicare, è una società malata, inaffidabile. In questo modo il contatto con la realtà sarà sempre più problematico e le contraddizioni tra gli uomini diventeranno una costante dagli esiti sicuramente catastrofici.

 

 

 


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