FUNAMBOLI SULLA CITTÀ
Considerazioni su Socrate e Montesquieu
di Alessandro Sangalli
Saremo quello sguardo, null’altro che quello sguardo,
per trasformarci in spettatori di quel che fu la nostra
pesante gravità, la nostra vanitosa e sciocca futilità.
J. Starobinski
Cosa accomuna la pratica del funambolismo e l’attività critica della filosofia politica? È presto detto. La situazione dell’equilibrista sospeso sulla fune è stata spesso adoperata per rimandare metaforicamente alle condizioni in cui deve agire un filosofo politico: la peculiarità – o se vogliamo il paradosso – della filosofia politica è infatti quella di voler riflettere criticamente su un sistema dall’interno del sistema stesso, meditare su una realtà di cui si è parte, trattare scientificamente qualcosa con cui si ha una grande familiarità. Un’attività simile richiede quindi uno sforzo intellettuale che consenta di porre in discussione istanze politico-sociali che si vivono abitualmente come naturali e necessarie. Richiede, in altre parole, di straniarsi, di allontanarsi dall’oggetto del nostro interesse così da poterlo analizzare con uno sguardo più neutro e distaccato, sperando in questo modo di coglierlo nella sua integrità e globalità, afferrandone perciò il senso più vero[1]. Come tutte le discipline, anche la filosofia politica ha bisogno di uno specifico oggetto di studio, il quale, per definizione, deve essere altro rispetto al soggetto. Il problema consiste nel fatto che il soggetto dell’attività critica (filosofo) è per forza di cose un elemento dell’oggetto della sua stessa critica (comunità socio-politica): soggetto e oggetto vengono perciò a sovrapporsi, e questa disciplina si ritrova ad avere a che fare con una sorta di oggetto soggettivo difficile da analizzare perché difficile da mettere a fuoco.
Nello specifico della filosofia politica, dove l’oggetto di studio è – in senso lato – la città, diventa perciò necessario alzarsi al di sopra della dimensione sociale ordinaria e, da questa posizione elevata, esercitare con un libero sguardo la propria analisi sulle dinamiche della comunità sottostante. All’interno di questa cornice concettuale si inserisce l’immagine del funambolo-filosofo, che cammina lungo una corda tesa sopra la città, indirizzando il suo sguardo critico verso elementi che probabilmente non avrebbe potuto cogliere se fosse rimasto una decina di metri più in basso.
Funambolo par excellence è il Socrate dell’Apologia platonica, perennemente in equilibrio tra mondi differenti e atteggiamenti (apparentemente) contraddittori, caratterizzato da un’insolubile tensione tra dimensioni spesso opposte e mal conciliabili.
Socrate, ad esempio, sa bene di non essere un maestro e in più occasioni durante il suo discorso fa ironicamente pubblica professione della sua ignoranza: «Anch’io mi farei bello e insuperbirei, se avessi queste competenze: il fatto è che mi mancano, Ateniesi»[2] Tuttavia, egli è consapevole di essere diverso dalla maggior parte dei suoi concittadini, è conscio della sua eccentricità, sa di essere, in senso etimologico, un idiota. Socrate è un cittadino ateniese come tanti, ma ha qualcosa di particolare che lo contraddistingue, e cioè “l’etichetta di sapiente” (Apol. 23a) che si porta addosso come conseguenza dell’attività di indagine che ha intrapreso in ottemperanza alla sua missione filosofica. Quando Socrate durante la sua autodifesa afferma di non volersi abbassare a supplicare i giudici implorando pietà, arrivando addirittura a condurre in tribunale i propri figli per aumentare l’impatto emotivo della preghiera, giustifica la sua scelta (anticonformista rispetto alle abitudini ateniesi) con queste parole:
E perché non farò nulla di tutto ciò? Non per arroganza, Ateniesi […] È per riguardo alla reputazione mia, vostra e della città tutta che non mi par bello fare nulla del genere, alla mia età, e col nome che ho: sia questo giusto o sbagliato, tutti almeno concordano sul fatto che in qualcosa Socrate si distingue dalla maggior parte degli uomini.[3]
Socrate è quindi un cittadino particolare, eccentrico, in possesso di qualche caratteristica che lo rende diverso dagli altri: è allo stesso tempo dentro e fuori dalla polis, vive come sospeso su una fune al di sopra di Atene, per metà partecipe e per metà spettatore della vita pubblica dell’agorà. La dimensione funambolica della filosofia politica socratica permette proprio questa “sospensione” da ciò che il soggetto vive quotidianamente, permettendogli di attuare quella critica radicale della realtà politico-culturale in cui è immerso come se fosse un osservatore esterno. L’unico espediente per praticare una valida critica filosofica del proprio spazio politico è infatti quello di portarsi a debita distanza da esso, per poter così ragionare in modo più distaccato e analitico: in altre parole significa smettere di essere un attore e calarsi nei panni di uno spettatore.
La spettatorialità è un elemento fondamentale della teoria politica, in quanto il filosofo, come uno spettatore che assiste ad una rappresentazione teatrale, dalla sua posizione esterna al palcoscenico (cioè dallo spazio dell’attività politica) riesce a vedere ogni cosa e trae un senso (una teoria) dall’azione considerata nella sua completezza. La radice stessa della parola “teoria” rimanda al verbo greco theorêin, che si può tradurre con “contemplare”, “meditare”, “assistere a uno spettacolo”, e theōria è la designazione tecnica della delegazione sacra inviata dalla città ad assistere ad una festa o a consultare un oracolo. Prendendo in prestito le parole di Hannah Arendt, possiamo affermare che il filosofo politico non può rimanere solo un attore, perché l’attore è sciocco, in quanto conosce solo la parte che recita e poco altro. Non ha quella visione complessiva del plot che può invece avere lo spettatore esterno: e oltretutto, per quanto informato sia, l’attore coglie comunque tutto dal suo punto di vista individuale, mentre l’esterno può ricostruire il senso globale dell’azione fruendo delle differenti prospettive degli attori[4].
Socrate dimostra di aver capito quanto era importante la dimensione della spettatorialità nella teoria politica proprio quando ha il coraggio di professare il suo motivato astensionismo dalla vita pubblica. Egli sa che, se vuol essere un buon filosofo, allora deve sospendere ogni azione politica, deve scegliere il primo termine della coppia concettuale spettatore-attore: se vuole comprendere e analizzare razionalmente tutte quelle istanze socio-culturali che i suoi concittadini vivono come semplici abitudini, se vuole mettere in discussione ciò che nessuno ha mai pensato si potesse discutere, se vuole passare da una vita automatica ad una vita esaminata (l’unica degna di essere vissuta), Socrate deve staccarsi dalla pratica politica attiva. L’astensionismo socratico – sebbene legittimo dal punto di vista del liberalismo moderno – è qualcosa di totalmente anacronistico rispetto alla cultura greca antica e ateniese in particolare, in quanto, usando le parole di James Colaiaco, «the democratic notion of the good citizen gave rise to social expectations and pressures to become active in the deliberative forums of the city»[5]. Insomma, astenersi dalla politica attiva era percepito quasi come un insulto alle istituzioni pubbliche cittadine e ai valori che esse rappresentavano. Se Socrate ha fatto una scelta simile è certamente perché percepiva questo “passo indietro” come strettamente necessario alla sua missione filosofica, che, se in ultima analisi può connotarsi come un’azione di riforma politica, non è certamente condotta secondo i canoni tradizionali. L’attività filosofica di Socrate persegue infatti una missione pubblica attraverso canali privati.
Se la filosofia politica nasce come riflessione sullo spazio sociale nella polis greca, essa è quindi fin dal principio profondamente caratterizzata dalla spettatorialità del funambolismo socratico. In questo senso è molto significativa l’analogia che Socrate istituisce fra sé stesso e Achille in Apol. 28c: il filosofo, come l’eroe in preda all’ira funesta, sceglie di chiamarsi fuori, di prendersi una pausa, di sospendere la propria partecipazione ad un’attività condivisa. Entrambi sono allo stesso tempo dentro e fuori la tradizione cui si rifanno, sono a metà strada, sono contemporaneamente in and out. Entrambi scelgono di osservare e fare da spettatori[6].
Sicuramente in accordo con l’impostazione della filosofia politica socratica, il Montesquieu delle Lettere Persiane riproduce attraverso una serie di espedienti letterari tutte le condizioni ideali per esercitare un’attività di critica politica adeguata. Come egli stesso dichiara nella Prefazione dell’opera, il suo intento è quello di presentare al pubblico la traduzione di lettere scritte da alcuni persiani che vivevano accanto a lui e con i quali era solito passare le giornate. Benché questo fosse un artificio non nuovo per l’epoca in cui furono pubblicate le Lettere[7], possiamo chiederci se la scelta di Montesquieu rappresenti solo la sua volontà di seguire la moda o se più probabilmente abbia anche qualche giustificazione teorica. In primo luogo, con questo espediente l’autore riesce a cancellare se stesso e ogni traccia della propria attività creativa, conferendo così alle lettere una loro autonomia, una verosimiglianza narrativa che sfuma nell’effettiva veridicità documentaria. In secondo luogo, Montesquieu ottiene – eliminandosi – una moltiplicazione degli autori: il libro, essendo una raccolta di lettere, avrà tanti autori quanti sono i protagonisti dell’epistolario (Usbek, Rica, le mogli, gli eunuchi e altri ancora). E questa molteplicità di autori non fa altro che garantire al lettore una pluralità di voci autonome e di punti di vista indipendenti, allo stesso modo in cui lo spettatore di una rappresentazione teatrale gode della varietà di prospettive dei diversi attori che danno vita alla pièce. Infine, non bisogna dimenticare che questi personaggi-autori sono persiani, quindi stranieri estranei alla società parigina e non avvezzi al modo di vivere occidentale. Tramite il loro sguardo Montesquieu ricerca quella spettatorialità e quell’ottica straniante che Socrate voleva garantire con la propria posizione funambolica, dal momento che “essere persiano a Parigi” non può che tradursi con “osservare una comunità che vive in modo curioso e insolito”[8]. La predilezione dell’autore per l’osservazione rispetto all’azione pratica è confermata anche da Jean Starobinski, quando presenta il lavoro del francese come una «lezione di intelligenza storica che non obbliga immediatamente all’azione politica»[9] oppure quando definisce Montesquieu uno spirito anti-faustiano, dal momento che si accontenta di quel piacere dello sguardo e della conoscenza di cui Faust è stanco fin dalla prima scena del dramma goethiano[10]. La dimensione dello spettatore è quindi sempre privilegiata nell’approccio filosofico di Montesquieu.
Sospensione di sé, pluralità di prospettive, spettatorialità: niente di più attinente alle indicazioni socratiche, anche se Montesquieu dimostra di saper fare un passo avanti nell’efficacia del meccanismo dello straniamento, e lo fa attraverso la rigida applicazione dell’anonimato. «L’anonimato fa parte del sistema letterario delle Lettere Persiane in tutto ciò che riguarda l’occidente», scrive Starobinski, «[…] la regola quasi assoluta seguita nelle Lettere Persiane consiste nel non designare alcun francese col suo nome»[11]. Gli unici nomi propri che compaiono nella raccolta epistolare sono infatti i nomi dei viaggiatori persiani e nomi di paesi e città occidentali, ma nessun personaggio europeo è nominato esplicitamente. I personaggi di cui ci parlano Usbek e Rica sono di volta in volta identificati in base alla loro funzione sociale: compare “il Re di Francia”, non Luigi XIV, “il reggente”, non Filippo d’Orléans, e così via. Tramite l’ottica da spettatore ingenuo dei persiani, Montesquieu può attuare una riduzione sociologica della società francese, volta a spogliare l’individuo della sua identità personale per farne emergere il ruolo politico, il comportamento pubblico. Dalla posizione del funambolo[12], l’autore può con un unico colpo d’occhio osservare la società parigina nel suo complesso e descriverla per quella che realmente è, libero dalla ragnatela delle credenze abitudinarie e delle convenzioni sociali in cui una vita automatica tende ad imprigionare il soggetto. Uno sguardo libero e non prevenuto come quello di Usbek e Rica nelle Lettres Persanes corrisponde esattamente all’ottica scientifica e distaccata richiesta dalla filosofia politica: il loro è uno sguardo analitico nel senso etimologico del termine, in quanto scioglie, slega, scompone, decostruisce, in omaggio allo spirito socratico. È necessariamente il primo passo da effettuare sulla strada di una conoscenza critica di ciò che si vuole comprendere. Ecco come in poche righe l’autore riesce, tramite le parole semplici e ingenue di Rica, a fornire un’acuta analisi della politica militare adottata da Luigi XIV nel corso della guerra di successione spagnola:
Il re di Francia è il principe più potente d’Europa. Non possiede miniere d’oro come il re di Spagna suo vicino, ma ha più ricchezze di lui perché le ricava dalla vanità dei suoi sudditi, più inesauribile delle miniere. Gli si è visto intraprendere e sostenere grandi guerre senza altri fondi che titoli d’onore da vendere, e per un prodigio dell’orgoglio umano le sue truppe erano pagate, le sue piazzeforti munite (Lettera XXIV).[13]
L’occhio analitico di Montesquieu non si ferma solo ad una critica della società francese, ma colpisce anche tutte quegli oggetti su cui solitamente riposa l’immotivata fiducia delle persone. Sfruttando le carenze lessicali dei persiani, che spesso si trovano a dover descrivere nelle loro lettere cose che mai hanno visto prima, l’autore – qui vero e proprio “maestro del sospetto” – si dedica ad una riduzione materiale che è allo stesso tempo una de-sacralizzazione di luoghi e realtà convenzionalmente circondati da un’aura di rispetto comunitario. Per dirla con Starobinski, una dissacrazione universale. Nel linguaggio dei persiani, la chiesa diventa una moschea, il prete un derviscio, il Papa un grande e potente mago (o, nella Lettera XXIX, «un vecchio idolo, che ora viene incensato per abitudine»[14]), una sua bolla “un lungo scritto”, un rosario nient’altro che “delle palline di legno”. Starobinski riassume magistralmente questo atteggiamento in un paragrafo della sua Introduzione all’opera di Montesquieu:
Se scompare il codice linguistico in cui si inscrive la convinzione religiosa, non ne resta che la descrizione dei gesti richiesti dal rito, spogliata dalla giustificazione che ricevono dalla «catena» che unisce cerimonie, dogmi e «altre verità» […] La critica, la demistificazione consistono nell’abolire i nomi che ispirano fiducia per mostrare la futilità delle cose reali che esercitano, sulla fiducia, un prestigio abusivo. Fuori dal codice che le sacralizza, le cose non meritano più di essere rispettate.[15]
Parte della grandezza della filosofia politica di Montesquieu sta anche in questo suo essere in grado di fare simili considerazioni, forse ovvie per uno spettatore esterno, ma certamente ardue per un soggetto interno ad uno spazio politico-sociale condiviso: è sempre difficile valutare con lucidità ciò che ci è troppo familiare e consueto, a meno che non ci si sforzi di assumere una posizione nuova, che possa fornirci una diversa prospettiva sulle cose che abbiamo quotidianamente di fronte. È superfluo sottolineare come la posizione del funambolo, per come l’abbiamo definita finora, risulti ancora una volta la migliore strategia possibile per la pratica di una filosofia politica che sia allo stesso tempo critica e competente. Lo sguardo straniante di una filosofia politica così intesa risulta essere il metodo più adatto a produrre quello stupore e quella meraviglia nei confronti della realtà che Aristotele (Met. 982b) considerava come le fonti primarie di ogni genuina conoscenza filosofica.
D’altro canto, com’è evidente, la condizione del funambolo porta con sé anche qualche inevitabile rischio. L’efficacia semantica di quest’immagine risiede proprio nel fatto che essa riesce a racchiudere insieme vantaggi e svantaggi che l’atteggiamento fin qui descritto comporta nell’ambito di un’analisi filosofico-politica.
In linea generale, i rischi connessi con l’adozione di un simile metodo critico possono essere ricondotti a due casi generali. In primo luogo, si può notare come quella del funambolo sia una posizione necessariamente instabile, sempre in pericolo di perdere quel precario equilibrio si cui fa affidamento: la rete di protezione solitamente stesa al di sotto della corda su cui passeggia l’acrobata dimostra che la precarietà è parte costitutiva di questa pratica. Il filosofo politico che con uno sforzo intellettuale è riuscito a conquistare quella posizione privilegiata di straniamento e spettatorialità rimane quindi perennemente in pericolo di perdere l’equilibrio e (ri)cadere nella città: fuor di metafora, di ricadere nella vita automatica da cui si era elevato, di perdere la sua eccentricità, di restare prigioniero di un conformismo che omogeneizza e intorpidisce. Platone, riguardo alla forza del conformismo della massa, scrive che «se uno entra in relazione con questa gente […] viene a trovarsi nella cosiddetta necessità diomedea di fare ciò che piace alla massa»[16]; in altre parole, si corre il rischio di perdere la propria libertà critica e creativa. Tornando alle parole della Arendt, perdere questo equilibrio significa cadere di nuovo sul palcoscenico, tornare ad essere (uno sciocco) attore, dotato di una vista corta e limitata. In secondo luogo, una condizione così vacillante potrebbe spingere il filosofo politico a cercare più sicurezza, più stabilità, pur senza perdere i vantaggi che una posizione elevata porta con sé. L’immagine che si può usare è quella di una collina o di un monte: da questa collocazione il filosofo può godere della vista della città senza i pericoli della provvisorietà insita nella pratica del funambolismo. Il distacco, tuttavia, sarebbe troppo radicale, troppo netto per rendere ancora possibile una filosofia che voglia davvero definirsi politica. La città (polis) è e deve essere la matrice prima della filosofia politica, che da essa trae linfa vitale e che è condannata al silenzio fuori dai confini di quella[17]. Detto altrimenti, è ovvio che gli standard critici della filosofia siano parzialmente derivati da ciò che dalla filosofia viene criticato, e perdere totalmente il contatto dall’oggetto significherebbe in definitiva perdere ogni reale contenuto critico.
La critica politica praticata secondo il metodo del funambolo-spettatore è quindi una disciplina vocazionalmente instabile, sempre in pericolo di cadere in atteggiamenti estremi ed opposti, tradendo così i principi stessi su cui si fonda.
A questo proposito, Starobinski ci fornisce qualche considerazione preziosa riguardo al nostro Montesquieu:
Egli non rinuncerà all’ambizione di una visione panoramica e istantanea. Ciò che cerca è un luogo più alto da cui poter dominare la concatenazione dei fenomeni, conciliare l’intuizione istantanea e la successione delle cause nel tempo. […] I principî, qui [nell’Esprit des Lois], configurano la più alta torre, sotto la quale lo spettacolo della storia, in modo magico e quasi spontaneo, si ordina e diventa comprensibile.[18]
Montesquieu corre veramente il rischio di eccedere nel suo sguardo straniante e distaccarsi troppo radicalmente dalla realtà socio-politica oggetto della sua analisi critica? Facendo necessariamente affidamento sulle parole di un illustre critico come Starobinski per quanto concerne la sua affermazione su Lo Spirito delle Leggi, ci sentiamo tuttavia di poter escludere questo pericolo in un’opera ricca di genuina ironia critica come le Lettere Persiane.
[1] È lo stesso espediente che dovremmo mettere in pratica se ad una mostra d’arte ci trovassimo davanti alla Grande Jatte di Seurat o ad altri capolavori del divisionismo: per apprezzare veramente l’opera dovremmo necessariamente fare qualche passo indietro. In alcune occasioni, infatti, una distanza maggiore dall’oggetto che stiamo osservando, comporta un grado di chiarezza più elevato.
[2] Apol. 20c; trad. it. di M.M. Sassi in Platone, Apologia di Socrate. Critone, Milano, Rizzoli 2006, p. 111.
[3] Apol. 34e-35a; trad. it. cit., p. 155. Corsivi miei. Anche in Crit. 44c Socrate professa la sua indifferenza verso ciò che pensano i più, dal momento che conta solo l’opinione dei migliori e dei più competenti, cioè di coloro che – per competenza e sapienza – si distinguono dalla maggioranza.
[4] È un po’ come rileggere il mito di Edipo raccontato dalla penna dissacrante di Friedrich Dürrenmatt ne La morte della Pizia. Attraverso i racconti dei vari “attori” dell’Edipo Re che si confessano e si sfogano davanti al tripode della sacerdotessa, il lettore può ricostruire una trama molto più intricata e complessa di quanto ogni singolo (sciocco?) personaggio può concepire.
[5] J.A. Colaiaco, Socrates against Athens. Philosophy on trial, New York, Routledge 2001, p. 151.
[6] L’analogia con Achille è senza dubbio fondamentale anche per la questione della coerenza e della dimensione dell’ethos socratico, ma è stata qui tralasciata come non strettamente pertinente.
[7] Per questo punto e altri elementi cfr. J. Starobinski, Introduzione alle Lettere Persiane, in Montesquieu, Lettere Persiane, Milano, Rizzoli 2006, pp. 5-37.
[8] Per quanto il paragone possa apparire fuori luogo, non ho potuto fare a meno di pensare alla bellissima Englishman in New York di Sting (1987), dove l’autore riesce nell’impresa di riassumere tutta la complessa differenza socio-culturale esistente tra Regno Unito e American way of life citando tutti quei piccoli particolari che solo un sguardo estraneo come il suo può notare nella vita quotidiana di una grande metropoli. Mutatis mutandis, è la medesima situazione che si trovano ad affrontare Usbek e Rica a Parigi.
[9] J. Starobinski, Montesquieu, Genova, Marietti 1989, p. 12.
[10] Ivi, p. 29.
[11] J. Starobinski, Introduzione cit., p. 10.
[12] A onor del vero, Montesquieu avrebbe forse preferito l’immagine del campanile. In una nota del Journal de Voyage ci confida infatti: «Quando arrivo in una città salgo sempre sul campanile più alto, per vedere tutto l’insieme» (cit. tratta da J. Starobinski, Montesquieu cit., p. 26).
[13] Montesquieu, Lettere Persiane cit., p. 94.
[14] Ivi, p. 101.
[15] J. Starobinski, Introduzione cit., p. 14-15, passim. Starobinski ritrova questa stessa volontà demistificatoria anche nei giudizi di Montesquieu sull’amore e sulla passione, in particolare nell’opera dei Pensées, dove i nobili sentimenti amorosi sono ridotti nient’altro che ad una metamorfosi dell’amor proprio e della vanità. Montesquieu, in questo campo come in altri, non accetta di lasciarsi ingannare così facilmente dalle apparenze (per questo punto cfr. J. Starobinski, Montesquieu cit., pp. 29-34).
[16] Resp. 493d; trad. it. di F. Sartori in Platone, La Repubblica, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 207.
[17] Socrate dimostra di aver ben inteso il senso dell’impossibilità di questa “filosofia apolide” quando rifiuta con decisione la pena dell’esilio (Apol. 37c-e), che pure sarebbe stato il compromesso ideale tra le parti in causa e avrebbe evitato al filosofo la definitiva condanna a morte. Lo stesso troviamo in Crit. 45b e 52c.