"Dicendum est, sed ita ut nihil affirmem, quaeram omnia, dubitans plerumque et mihi diffidens". (M. T. Cicero, De divinatione II, 3)
La storia dell'Accademia conobbe nel terzo secolo a.C. una svolta importante . Essa fu dovuta ad Arcesilao; nato a Pitane, dove studiò con il matematico Autolico, egli si recò successivamente ad Atene, dove seguì l'insegnamento di Teofrasto, che poi abbandonò per entrare nell' Accademia, di cui fu scolarca dal 256 a.C. sino alla sua morte, avvenuta fra il 244 e il 240 a.C. Seguendo l'esempio di Socrate, egli non scrisse nulla, ma i contenuti della sua attività filosofica ci sono in parte noti attraverso ricostruzioni posteriori. Sulla falsariga del Socrate ritratto da Platone nei dialoghi aporetici, Arcesilao ritiene preferibile riconoscere l'ignoranza che pretendere di sapere. Utilizzando la tecnica dialettica dell'argomentare pro e contro una determinata tesi, egli giunge a riconoscere l'impossibilità da parte dei sensi e dell'intelletto di pervenire a una conoscenza certa. Non é chiaro se egli abbia trasformato questo riconoscimento nell'affermazione che nulla é conoscibile o se si sia limitato a sostenere la necessità di sospendere l'assenso, operazione denominata in greco epoch. In ogni caso, egli esprime un orientamento scettico dell' Accademia, che tuttavia non annulla la necessità della ricerca (in greco appunto skeyiV, da cui "scetticismo"). L'obiettivo polemico di Arcesilao é, soprattutto, la filosofia stoica, che appare come la filosofia dogmatica per eccellenza, ossia quella che enuncia e sostiene con forza una serie di dottrine (dogmata). Arcesilao accetta il lato negativo della definizione del sapiente, data dallo stoico Zenone: sapiente é chi non sbaglia nè corre il rischio di sbagliare, ma a suo avviso solo l'atteggiamento scettico può salvaguardare questo aspetto del sapiente. Infatti, non c'é alcuna rappresentazione che non possa essere falsa, quindi se il sapiente dà il suo assenso a una rappresentazione, opinerà; ma é proprio del sapiente non opinare; dunque il sapiente sospenderà il suo assenso (epoch). Paradossalmente, con questa argomentazione Arcesilao giunge a sostenere che la sospensione dell'assenso del filosofo scettico é la vera realizzazione del modello del sapiente, che non é mai in errore. Ma su quali basi poggerà allora la condotta dello scettico? Arcesilao avrebbe indicato il criterio della condotta in ciò che, una volta compiuto, é eùgolon (eulogon: eu, bene + logoV, ragione), "ragionevole", ossia può essere difeso ragionevolmente. La critica scettica di Arcesilao fu controbattuta, all'interno della scuola stoica, soprattutto da Crisippo di Soli. Uno dei massimi esponenti dello scetticismo fu senz' altro Pirrone di Elide (365-275 a.C. circa), che fu anche il fondatore del movimento: egli prese parte alla spedizione di Alessandro Magno in Oriente, giungendo in India dove potè conoscere il modo di vita dei cosiddetti "gimnosofisti" (cioè "sapienti nudi"): non è da escludere che questo modello possa aver inciso sul suo modo di concepire la vita filosofica. Pirrone sostenne che, così come i sensi ci ingannano quando il remo immerso in acqua ci appare spezzato, chi può dire che essi non ci ingannino sempre? E' proprio questo rifiuto di accettazione di tutto ciò che ci viene offerto dai sensi che contribuì a dare il nome di scetticismo alla scuola di pensiero. Non a caso si racconta che Pirrone si facesse investire dai carri e mordere dai cani di sua spontanea volontà, ragionando in questo modo : "chi mi dice che sia un male? I sensi, ma essi così come mi ingannano con il remo immerso in acqua possono ingannarmi sempre"; si racconta, tra l' altro, che gli amici chiedessero a Pirrone, dal momento che si faceva mettere sotto dai carri, mordere dai cani e quant' altro: "perchè non ti uccidi?" e che lui rispose: "perchè non so se é un bene o no". Per Pirrone, siccome non possiamo sapere nulla (neppure ciò che ci accade), non possiamo neanche conoscere le conseguenze di ciò che ci accade: chi mi dice, allora, che farmi mordere da un cane sia un male? Pirrone non scrisse nulla, ma il suo discepolo Timone di Fliunte (nato intorno al 325 a.C.) scrisse varie opere in versi e in prosa, nelle quali alla folla rissosa degli altri filosofi contrappone Pirrone come modello di sapiente imperturbabile. Alla base di tale imperturbabilità sta la convinzione che le cose per natura sono senza differenze, senza stabilità, indiscriminate. Ne segue che le sensazioni e le opinioni non sono né vere né false, cosicché non bisogna prestare loro credito. Occorre piuttosto non avere opinioni né inclinazioni. Chi raggiunge questa condizione si troverà in uno stato di afasia, ovvero – letteralmente – di silenzio. Ciò vuol dire che il filosofo non farà né affermazioni né negazioni sulle cose del mondo e, per tale via, egli potrà pervenire all’atarassia, l’imperturbabilità di fronte alle cose e agli accadimenti. Come Socrate, Pirrone scelse di non scrivere nulla, poiché convinto di non avere nulla da affidare allo scritto e che altri potessero apprendere: ed è per questo che egli non fondò alcuna scuola e gettò le basi dello scetticismo; dal punto di vista di Pirrone e degli Scettici, tutte le filosofie costituiscono un blocco unico, poiché pretendono di avere qualcosa da insegnare; si tratta, per di più, di un blocco dogmatico, dottrinario, che genera un labirinto di opinioni contrastanti e autoelidentisi. In contrapposizione a tutto questo, gli Scettici non hanno dogmi e non hanno persone a cui trasmettere le proprie verità, proprio perché non ne possiedono una. Dalle testimonianze di cui disponiamo, possiamo ipotizzare che anche la filosofia scettica abbia attraversato delle sue fasi: l’immediato successore di Pirrone, Timone, ha composto in versi delle critiche indirizzate agli altri filosofi; la tradizione, poi, testimonia che anche due platonici come Carneade e Arcesilao avrebbero aderito allo Scetticismo. Dopo di che, si perdono le tracce della filosofia scettica, fino al II secolo d.C., quando ad abbracciare la causa scettica fu Sesto Empirico, il quale si scatenò in un’accesa critica Contro i dogmatici e tratteggiò la figura del "filosofo pirroniano" (negli Schizzi pirroniani), facendo in tal modo di Pirrone un modello da seguire (un po’ come farà Lucrezio con Epicuro). Stando a quanto dice Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, Pirrone avrebbe desunto dallo Stoicismo i princìpi della akatalhyia (letteralmente "incomprensibilità") e dell’ epoch ("sospensione di giudizio"), mentre, attenendoci alla testimonianza di Sesto, Pirrone avrebbe cominciato da solo, senza influenze, la propria attività filosofica. L’opposizione allo Stoicismo appare tuttavia evidente: se gli Stoici parlano di "rappresentazione comprensiva", Pirrone nega invece la rappresentabilità (e quindi la comprensibilità) delle cose: la sua è una non-gnoseologia. Gli Scettici vengono così definiti dal termine greco skeyiV , che vuol dire "ricerca", "indagine" sulla natura delle cose per stabilire cosa esse siano: nella sua ricerca, però, lo scettico scopre che le cose sono incomprensibili per due ordini di ragioni. In primo luogo per il fatto che tutte le cose appaiono diversamente a chi le osserva in condizioni diverse, in secondo luogo per il fatto che sulle stesse cose si può riscontrare che gli uomini hanno pareri contrastanti, spesso addirittura opposti (c’è, ad esempio, chi dice che tutto è costituito da atomi, chi da elementi, e così via). Lo scettico, tuttavia, non si limita a dire che le cose sono inconoscibili (poiché questo sarebbe un dogmatismo), ma ritiene che si debba sospendere il giudizio (epoch): egli, cioè, non afferma né nega che le cose siano comprensibili e scopre che dalla sospensione del giudizio scaturisce una felicità irresistibile, sconosciuta a chi si ferma al dogmatismo. Secondo Timone, in particolare, occorre chiedersi tre cose per essere felici: a) quale è la natura delle cose? b) come ci si deve disporre nei confronti di esse? c) cosa risulterà a coloro che si trovano in questa disposizione? Come Timone stesso asserisce, le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili, indiscriminabili e perciò le nostre sensazioni e opinioni possono essere vere e false, poiché non disponiamo di criteri per distinguere le differenze tra le cose. Di fronte a quest’assoluta mancanza di certezze e verità, Carneade e Arcesilao (rivelando in ciò la loro ascendenza platonica) ovviavano, rispettivamente, con la nozione di piqanon ("probabile") e con quella di eulogon ("ragionevole"): ma per Pirrone, invece, "si deve vivere senza opinioni, senza inclinazioni, senza agitazioni", poiché il seguire le opinioni ci turba; occorre, piuttosto, dire che " ogni cosa è non più di quanto non è ". Ne derivano l’ afasia ("il non pronunciarsi") e l’ ataraxia ("assenza di turbamenti"). Ma, in questa prospettiva, come conduce lo scettico la propria esistenza? Come dice Sesto Empirico, lo scettico è uomo tra gli uomini, sospende il giudizio ma dà assenso alle rappresentazioni naturali (la fame, la sete, ecc), non ha maestri ma impara come tutti gli altri uomini a leggere e a scrivere perché ciò è utile nella vita quotidiana; in altri termini, lo scettico si adatta alle condizioni comuni, vive seguendo i fenomeni, senza dar valori: non dice, ad esempio, che il miele è dolce, ma che sembra tale. Da notare che lo scetticismo, man mano che passano gli anni, tende sempre più a perdere la dimensione metafisica per accentuare quella etica: se Platone aveva ipotizzato due mondi - uno immutabile e perenne degli enti intelligibili, l'altro mutevole e molteplice degli enti empirici -, gli Accademici successivi (Carneade e Arcesilao) abbandonano il "mondo delle idee" e si concentrano su quello empirico, nel quale (come aveva detto Platone) non ci può essere conoscenza certa; messo da parte il mondo delle Idee (l’unico di cui si potesse per Platone avere conoscenza certa), resta solamente quello empirico, del quale tuttavia non sono date certezze: sicchè l’atteggiamento migliore è quello di chi, anziché affaticarsi nel tentativo di capire il mondo, sospende il giudizio su di esso. Dalla sospensione del giudizio scaturisce l'atharassia (ataraxia, letteralmente "assenza di timore") che gli scettici prospettano come scopo della loro filosofia: con la piena conoscenza dell' irraggiungibilità della conoscenza, l' uomo trova la felicità ( é il "sapere di non sapere" socratico" o quella che Cusano chiamerà "dotta ignoranza"): il sapere di non sapere sarà il presupposto per un' indagine continua (skeyiV) della realtà. In una seconda fase dello Scetticismo – precisamente quando in esso confluiscono gli esponenti dell’Accademia platonica - si fa sempre più sentire la necessità di precisare le forme e i contenuti dell'atteggiamento scettico, al che provvide soprattutto Carneade. Nato a Cirene, frequentò l'Accademia, della quale divenne scolarca nel 167/166 a.C. Nel 155 a.C. fece parte della celebre ambasceria inviata a Roma dagli Ateniesi multati per aver saccheggiato Oropo; qui riscosse successo argomentando, in due giorni successivi, a favore e contro l'esistenza di una legge naturale universalmente valida. La sua morte avvenne nel 129/28 a.C. Anche Carneade non scrisse nulla, ma il suo discepolo, Clitomaco, originario di Cartagine, ne espose le argomentazioni nei suoi scritti, che sono però andati perduti. L'obiettivo polemico di Carneade é soprattutto la filosofia stoica, in particolare Crisippo. Egli muove una critica serrata alla teologia stoica, alla sua concezione della provvidenza e della divinazione. Secondo Carneade, tra i filosofi dogmatici c'é disaccordo ( in greco diafonia) sull'esistenza della provvidenza, come su qualsiasi altra dottrina: gli epicurei, per esempio, negano la provvidenza; questo disaccordo é irresolubile e ciò conferma che non esistono prove nè a favore nè contro di essa. Così il fatto che una predizione si dimostri vera non é argomento a favore del determinismo: un evento futuro non é l'effetto prodotto dalle proposizioni vere che lo riguardano. Per esempio, la proposizione "Socrate sarà condannato", enunciata prima della condanna, é vera, ma ciò non significa che essa sia la causa del prodursi della condanna: la necessità che riguarda queste proposizioni é una necessità logica, non casuale o fisica. In generale, a riguardo del criterio di verità, Carneade afferma che nessuna rappresentazione sensibile può garantire di essere in accordo con i fatti. Che essa sia vera é possibile, ma non é possibile accertare che essa sia tale, come provano le rappresentazioni che abbiamo in stato di sogno o di allucinazione o l'impossibilità di distinguere tra due uova o due gemelli identici. Alcune rappresentazioni, tuttavia, possono essere apparentemente vere e persuasive: in ciò consiste il criterio del pithanòn (piqanon, dal verbo greco peiqw, "persuado"), tradotto abitualmente con "probabile", ma che significa propriamente "persuasivo". Il carattere di persuasività della rappresentazione riguarda la relazione della rappresentazione non con l'oggetto, bensì con il soggetto della percezione. Infatti, l'unico tipo di rapporto possibile con l'oggetto é dato appunto dalla rappresentazione. Quali devono essere allora i contrassegni di una rappresentazione persuasiva ? Secondo Carneade essi sono tre: 1) l'evidenza, per cui in condizioni di scarsa visibilità, per esempio, non é opportuno fidarsi della vista. 2) Il non essere contraddetta da altre rappresentazioni e il concorso (o sindrome) di altre rappresentazioni a supporto di essa; 3) l'esame o controllo di ciascuna rappresentazione in ogni sua parte, sul modello del comportamento del giudice. Essi determinano in successione il grado crescente di persuasività di una rappresentazione ed é sulla loro base che il filosofo scettico orienterà la propria condotta . Carneade é il fondatore del cosiddetto probabilismo, per il quale Cicerone stesso rivelò una profonda simpatia: é vero che non si può conoscere la realtà, ma si possono comunque tracciare gradi di conoscibilità, ossia ci saranno cose più vere e cose meno vere, delle probabilità: é più probabile che sia così che non altrimenti. Tuttavia allo scetticismo (soprattutto a quello carneadeo) si possono muovere due critiche (e saranno le critiche ad esso mosse da tutti i suoi detrattori, tra cui Lucrezio – De rerum natura, IV): 1) se non posso sapere niente, allora non posso sapere neanche di non sapere niente: lo scetticismo é autocontraddittorio nella misura in cui nega che si possa conoscere la verità e, al contempo, propone ciò come verità. 2) Il concetto di probabilismo di Carneade non lo si può accettare: esso é infatti indisgiungibilmente correlato a quello di certezza: per poter dire che una cosa é più probabile rispetto ad un'altra, devo per forza avere una pietra di paragone; se conosco con certezza alcune cose, allora sì che posso parlare di probabilità. Ma se non conosco nulla con certezza (come di fatto sostengono gli scettici), allora non posso neanche parlare di probabilità. Lo scetticismo, probabilmente in virtù del fatto che mai venne a costituirsi come scuola in senso istituzionale, godrà di grande fortuna, ripresentandosi di epoca in epoca sotto nuovi sembianti, ma mantenendo invariato il suo carattere portante di avversione verso la metafisica e, in generale, verso ogni dogmatismo: abbiamo citato Sesto Empirico (della fine del II secolo d.C.), ma rientrano in una cornice scettica anche autori come Montaigne e Hume, come Cicerone (per quel che concerne il piano conoscitivo) e Nicola di Autrecourt. In sostanza, possiamo dire che l’intera storia della filosofia è percorsa da due grandi filoni tra loro contrapposti e guerreggianti: da un lato, il filone "metafisico" e dogmatico, che propone presunte verità incrollabili (per le quali si è spesso pronti anche a brandire la spada), e, dall’altro, il filone "scettico" e anti-metafisico, che alle presunte verità incrollabili contrappone una skeyiV destinata a non potersi mai dire conclusa.