CENNI INTRODUTTIVI



Occuparsi della riflessione di Federico Schlegel e di Novalis significa in prima battuta occuparsi del movimento di cui essi sono i padri fondatori: il Romanticismo, che nasce tra il 1797 e il 1801 nella città di Jena, situata nei pressi di Weimar, e che è sede di una piccola università che, in quel torno di anni, diventa la capitale culturale non solo della Germania, ma dell’intera Europa (tra gli altri, vi insegneranno Fichte e Schelling). Sia Schlegel sia Novalis nascono nel 1772 e, fin dalla prima gioventù, sono attorniati da una costellazione di amici di prim’ordine, fra i quali spiccano Guglielmo Schlegel, Schleiermacher e Schelling: appena venticinquenni, possono già essere definiti dei geni. In particolare, Schlegel può essere definito l’inventore stesso del concetto di “poesia romantica”, la quale, prima ancora di essere categoria estetica, è categoria etica, giacché pretende di essere la teoria di una nuova e superiore forma di esistenza. Sicché, predicando la poesia romantica, i nostri autori predicano non solo una nuova forma d’arte, ma anche e soprattutto una nuova forma dell’esistere. E in quanto è vita, la poesia romantica si vuole diversa dall’esistenza predicata dall’Illuminismo e praticata da una borghesia che, all’indomani della Rivoluzione Francese, si presenta sullo scenario sociale come classe vincente. Proprio in forza di ciò, l’Illuminismo è il grande avversario dei giovani Romantici, i quali però non sono semplicemente dei reazionari e dei tradizionalisti che si limitano a demonizzare gli infausti portati dell’età dei Lumi: è vero che, con la Restaurazione, si assistette anche al proliferare di una forma reazionaria e tradizionalista del Romanticismo, ma non è sicuramente il caso di Novalis e del giovane Schlegel (discorso diverso varrà per lo Schlegel maturo, che, mutata rotta, sarà cattolico, reazionario e funzionario alla mercé di Metternich). I giovani Romantici, infatti, lungi dall’essere conservatori, sono spregiudicati, innovatori e dirompenti, arditi teorici dell’emancipazione: la loro polemica anti-illuministica avviene – per così dire – da “sinistra” e si configura innanzitutto come polemica anti-borghese e anti-generazionale, cosicché la lotta che essi conducono è, prima di tutto, lotta contro i loro padri, fautori della passata Rivoluzione. Sicché essi sono dei veri e propri contestatori e la loro vuole essere una rivoluzione contro il pregiudizio e contro il sistema; così la famosa e dirompente espressione “l’immaginazione al potere”, comparsa in un’aula della Sorbona nel ’68 e tradotta da Marcuse in progetto filosofico, è di Novalis. E a un certo punto di Lucinde, il celebre romanzo di Schlegel, uno dei protagonisti è così tratteggiato, in termini che sembrano preludere al ‘68: “aborriva anche il più lontano ricordo dei legami borghesi, come pure ogni sorta di costrizione”. Quella che Schlegel, Novalis e gli altri giovani Romantici si propongono è una rivoluzione contro le ristrettezze entro cui uno spirito libero si sente limitato, una rivoluzione anche e soprattutto condotta contro le regole opprimenti e soffocanti di una società insostenibile. In questa prospettiva contestataria, il Romanticismo si presenta allora come una forma di anticonformismo ed è dunque paradossalmente vicino all’atteggiamento critico che aveva caratterizzato l’Età dei Lumi, a quell’atteggiamento demistificante, anti-oscurantista ed emancipatorio che aveva trovato in Kant il proprio eroe. Da ciò si evince come quella romantica sia critica non già del criticismo illuministico (cui anzi i Romantici stessi paiono rifarsi), ma della sclerotizzazione di quell’Illuminismo che era andato vieppiù istituzionalizzandosi, fino a rendersi tale da imprigionare gli spiriti liberi. Nell’agosto del 1793, anticipando le tematiche che saranno proprie dell’esistenzialismo kierkegaardiano, Schlegel scrive a Novalis: “io miro ad una vita autentica”, ossia ad una vita che sia libera da ogni condizionamento e da ogni costrizione. E così prosegue nella sua lettera: “io, esule, non ho casa, sono stato gettato via verso l’infinito”. Già da queste rapide battute si capisce come lo spirito romantico si senta a disagio nel mondo borghese, che per lui rappresenta una gabbia insostenibile; egli non può aver casa nel finito illuministico, ma si sente proiettato verso l’infinito. Sempre Schlegel scrive che “la Rivoluzione Francese, la ‘Dottrina della scienza’ di Fichte e il ‘Guglielmo Meister’ di Goethe sono le grandi tendenze dell’epoca”, segnalando come il Romanticismo abbia in qualche modo (e successivamente dovremo meglio comprendere in quale modo) a che fare con la Rivoluzione Francese, con la filosofia trascendentale di marca fichteana e con il romanzo. Ma, in termini più propriamente filosofici, che cos’è il Romanticismo? E, da un punto di vista storico, qual è la posizione ch’esso occupa nel panorama della storia del pensiero moderno? Sostenere che il Romanticismo è reazione all’Illuminismo e al razionalismo è corretto, ma troppo generico. Pertanto, per meglio rispondere alla domanda, è opportuno interrogare l’autore che per primo meditò sul rapporto intrattenuto dal Romanticismo con l’Illuminismo: Hegel. Questi, contemporaneo di Schlegel, di Novalis e degli altri giovani Romantici, mai aderì al Romanticismo, di cui anzi fu aspro avversario. In quasi tutte le opere della sua vasta produzione, Hegel esamina con grande sagacia il rapporto tra le due età e tra i due atteggiamenti (quello romantico e quello illuminista), a partire dallo scritto giovanile Fede e sapere (1802), poi nella Fenomenologia dello spirito (1807), nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, nelle Lezioni di filosofia del diritto e nell’Estetica. Il risultato dell’Illuminismo – nota Hegel – è l’appiattimento del sapere in scienza del finito, ovvero in scienza di questo mondo, con l’inevitabile conseguenza che l’unico sapere ritenuto valido finisce per essere quello utile e immediatamente fruibile nei problemi d’ordine quotidiano, rinunciando ad ogni pretesa metafisica, ad ogni impossibile quanto inutile ricerca della verità eterna: l’Illuminismo, infatti, esorta i pensatori ad occuparsi solo delle verità terrene di questo che è l’unico mondo, cosicché il sapere che ne sorge è materialistico, pragmatistico, utilitaristico, filantropico. In questi termini, la modernità non è che una “conversione dal cielo alla terra”, abbandonando per sempre le celesti verità tanto della religione quanto della metafisica, in favore di un sapere che sia frutto di una ragione calcolatrice. Il Romanticismo, dal canto suo, si pone come reazione a tutto ciò: esso è innanzitutto “scontentezza del solo finito”, incapacità di accontentarsi del semplice finito - tanto caro agli Illuministi – e di questo mondo disciplinato dalla scienza. Il Romanticismo è allora un deciso e perentorio rifiuto della proposta illuministica di realizzarsi solamente in terra: è, pertanto, rifiuto della terra e nostalgia del cielo. Ma se è nostalgia del cielo, allora può riassumersi in certa misura come rivendicazione dell’eros - di contro alla sua soppressione tentata dall’Illuminismo -, di quell’eros platonicamente inteso come desiderio e nostalgia dell’infinito e dell’Uno. Il Romanticismo, dunque, si configura come nostalgia di un altro mondo rispetto a questo in cui viviamo, nostalgia dell’infinito rispetto al finito che quotidianamente ci soffoca. Se le cose stanno in questi termini, abbiamo trovato la ragione ultima e il significato filosofico di quella che è forse la caratteristica più nota del Romanticismo: il desiderio e la nostalgia dell’infinito, ribaditi in forma quasi ossessiva tanto da Schlegel quanto da Novalis. Ancor prima di definire che cosa sia l’infinito, limitiamoci a dire che i nostri autori ne hanno una nostalgia esasperata e sconvolgente: come le litanie religiose, che sempre si ripetono, così negli scritti di Schlegel e Novalis ritorna sempre e di nuovo questa nostalgia dell’infinito, ancorché declinata in forme diverse: “anelito all’infinito”, “vocazione all’eternità”, “dolce nostalgia”, “sete bruciante di infinito”, “nuovo mondo”, “eterno archetipo”, “patria”, “territorio dell’aldilà”, “spiaggia celeste”, e così via. L’idea dell’infinito come una patria a cui fare ritorno rinvia a Plotino e alle Enneadi (I 6.8), in cui si dice: “Fuggiamo dunque verso la nostra cara patria [...]. La nostra patria, da cui siamo venuti, è lassù, dove è il nostro Padre. Ma che viaggio è, che fuga è? Non è un viaggio da compiere con i piedi, che sulla terra ci portano per ogni dove, da una regione all'altra; nè devi approntare un carro o un qualche naviglio, ma devi lasciar perdere tutte queste cose, e non guardare. Come chiudendo gli occhi, invece, dovrai cambiare la tua vista con un'altra, risvegliare la vista che tutti possiedono, ma pochi usano”. Ed è in questi termini di ritorno alla “cara patria” che i Platonici e i Padri della Chiesa leggono l’Odissea: sicché le peripezie di Odisseo per far ritorno a Itaca altro non sono se non le peripezie dell’anima che brama di ritornare in patria; si tratta cioè della nostalgia che l’uomo prova per il proprio principio originario, cui è chiamato a ritornare passando per i pericoli del mondo. Si tratta di una metafora che ha vita lunga, la ritroviamo in Ficino – che parla di “patria celeste” e di “dolcezza del ritorno in patria” – e poi nei Romantici di cui ci occupiamo. Se quello che abbiamo a grandi linee tratteggiato è il cuore della prospettiva romantica, fin da ora possiamo dedurne una pletora di motivi portanti, a partire dalla  malinconia, che è in origine sentimento che compendia la tristezza del finito (il suo tedio e la sua noia) e l’ansia bramosa dell’infinito, verso cui si prova nostalgia. Un motivo portante del Romanticismo è anche il culto della notte, la quale è metafora dell’infinito nella sua sfuggente ineffabilità e del sentimento stesso dell’infinito; del resto, la notte si contrappone in maniera diretta ai lumi della ragione illuministica, che pretende di gettar una luce rischiarante su ogni cosa. Un altro leitmotiv del Romanticismo è il culto della morte, fisica e spirituale, ossia del morire ai propri e dolorosi limiti della finitezza: si tratta di una mors mystica alla finitezza che serve come passaggio all’infinito, cosicché la morte diventa affermazione di una vita superiore, infinita e autentica. In stretta relazione con la morte, si impone una nuova concezione dell’amore, inteso dai Romantici come veicolo di morte (di qui il celebre nesso amore/morte), ossia come porta che si apre su una vita superiore. Amare significa infatti morire a se stessi, è cioè il modo più alto di realizzare la morte della finitezza indispensabile per attingere l’infinito. Amare vuol dire cessare di vivere solo per se stessi e prendere a vivere per un altro, rompendo i vincoli della propria egoità. In questo senso, gli amanti si aiutano ad uscire dai limiti angusti del proprio io, amandosi a vicenda: e dunque si mettono sulla via che porta all’infinito; essi sono in cammino verso l’Assoluto e non è un caso che il tema del viandante sia uno dei più diffusi in età romantica. L’amore che lega gli amanti è, platonicamente, amore dell’infinito, cosicché essi amandosi muoiono al finito per rinascere all’infinito. Nasce in questo contesto il gusto, tipicamente romantico, per il viaggio, per l’avventura, per il vagabondare senza una meta, errando all’infinito. E del resto, a ben pensarci, la mobilità continua – reale e metafisica -, l’incapacità di star fermi (che si traduce in nomadismo e irrequietezza) manifesta l’irrequietezza stessa dell’eros, che è tutto fuorché un quid immobile e stazionario. Altro tratto portante dei Romantici è il gusto per l’esotico, per il diverso, per lo strano e per lo sconfinato, rifiutando tutto quel che si caratterizza come ordinario e limitato. All’origine di questo atteggiamento v’è la polemica generazionale dei Romantici contro i loro padri, che vivono in un sistema e giudicano entro confini preordinati senza riuscire perciò a capire quel che è fuori dagli schemi. Questo ribellismo si declina anche nella forma di rivolta metafisica, in quanto rivendicazione dell’infinito, e religiosa, giacché la relazione con l’infinito è intesa come religione stante al di là di ogni confessione, appunto come religio in senso latino (da religare, cioè “connettere”, “unire”): una rivolta indirizzata contro la modernità antimetafisica e antireligiosa, della quale però i Romantici fanno propria la dimensione perennemente critica; da ciò segue che il Romanticismo, lungi dall’essere una frattura nei confronti della modernità, rappresenta piuttosto una tappa di essa, un tentativo di correggerla dal suo irrigidirsi nelle istituzioni vigenti. A questa religione aconfessionale e metafisicizzante spetta l’arduo compito di riaccendere l’amore per ciò che è più alto e di trasformare la vita, da volgare, in superiore, secondo le eleganti parole di Schlegel: “di nulla il nostro tempo ha tanto bisogno quanto di un contrappeso spirituale al dispotismo che esso esercita sugli spiriti con la concentrazione del massimo interesse profano”. In rottura con la filosofia dell’Illuminismo, che si presenta nelle vesti di etica utilitaristica e dell’amor proprio, “dobbiamo – dice Schlegel - guarire dal timore dell’infinito” e “dobbiamo combattere il finito, che vuole usurpare i sacri diritti dell’infinito”. Occorre dunque innalzarsi al di sopra di tutti gli scopi che sono finiti e, per ciò stesso, spregevoli: “liberate la religione e un’umanità nuova avrà inizio”, dove la religione a cui Schlegel fa qui riferimento è pura relazione con l’infinito, mero rifiuto del riduzionismo economicistico: “l’odio dell’economia è il contrassegno della religione”. I nostri autori assumono spesso una prospettiva chiliastica, quasi come se avessero il sentore di un imminente inizio di qualcosa di realmente nuovo: il tono dei loro scritti è, perciò, frequentemente profetico, come in questo breve brano di Schlegel: “prossimamente si manifesterà religione: essa è la grande incognita dell’epoca. Religione, cioè contrappeso dell’economia”. 

 


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