SPIRITO, NATURA, FIABA IN NOVALIS



I discepoli di Sais è un’opera incompiuta e suddivisa in due frammenti (Il discepolo e La natura), ai quali si aggiunge una ricca appendice di abbozzi e frammenti. La storia narrata nello scritto è quella di un giovane che, volendo afferrare il mistero dell’universo, si mette in viaggio verso il tempio di Sais, un luogo venerando e misterioso che tramanda una sapienza antica. In esso si venera l’immagine di una dea – Iside - coperta da un velo: chi arrivi a sollevarlo, avrà la rivelazione del mistero dell’universo. Quest’opera, che è la più fichteana tra quelle di Novalis, presenta un clima vivamente sognante, con una natura non descritta ma interiorizzata e ridotta a sogno. I punti cardinali che affiorano dalla lettura di questo scritto – che si presenta come un romanzo di formazione e di viaggio -  sono essenzialmente tre: in primis, in un abbozzo dell’appendice, Novalis dice che il viaggio termina con l’arrivo a casa propria dalla sposa. In secundis, in un altro punto del romanzo, si narra in maniera più diffusa la stessa vicenda ma sotto forma di favola. È la favola di Giacinto e di Fior di Rosa: i due vivono nell’amore reciproco, fino a che non arriva uno straniero che reca con sé un libro (che dona a Giacinto) e che con la sua parola suadente ammalia Fior di Rosa. Giacinto, depresso per l’amore perduto, si mette in cammino per arrivare – attraverso peripezie innumerevoli - alla dea Iside. Giuntovi, le solleva il velo e Fior di Rosa torna a gettarsi tra le sue braccia. Solo il sogno (che è congettura trascendentale del poeta che sogna qualcosa di inesistente nel reale e che è contrapposto alla coscienza desta dell’Illuminismo) riesce a condurre Giacinto alla meta: egli, quando all’inizio vive tranquillo e senza preoccupazioni la realtà, rappresenta il borghese illuminista; il vecchio straniero che gli fa dono del libro è Fichte stesso, che semina il dubbio e rende il mondo non più visibile negli antichi termini, sollecitando Giacinto ad una nostalgia che lo porterà a congedarsi da tale mondo e ad arrivare alla sua amata. In tertis, v’è un distico nell’appendice che così recita: “arrise ad uno di sollevare il velo della dea di Sais. Ebbene, che vide? Vide – meraviglia delle meraviglie – se stesso”. Egli trova cioè quel che già inconsapevolmente aveva ma che ora diventa consapevole e volontario. Il lungo e travagliato viaggio nella natura ha per fine il punto di partenza (l’Io), scoperto come principio della natura: è la scoperta del punto di vista trascendentale. In un altro abbozzo, Novalis passa in rassegna cinque diverse interpretazioni della natura: 1) quella economica, tipica della scienza, secondo cui la natura è “fucina e dispensa”; 2) quella religiosa, per cui la natura è intesa come tempio; 3) quella dell’educazione artistica (o incivilimento), per cui la natura è raffigurata dall’artista come idealmente perfetta; 4) quella orrifica, secondo cui la natura è una forza bruta, un “mulino di morte” tale da suscitare il terrore d’esserne sopraffatti; 5) quella liberatoria, per cui l’uomo, resosi consapevole della propria capacità di domare e di vincere la natura, non la teme più (è questa la prospettiva di Fichte). Non solo siamo liberi rispetto alla natura, ma – aggiunge Novalis – la terribilità stessa della natura è opera nostra, in quanto siamo noi a partorirla con la nostra immaginazione. Si può dunque rimuovere la terribilità della natura: il discepolo resta smarrito e interdetto fino a che non comprende che tali letture della natura non sono tra loro autoesclusive, ma costituiscono piuttosto le tappe successive verso la finale visione poetica della natura stessa, cioè verso la sua umanizzazione. Infatti, personificando la natura, il poeta ne sottolinea la familiarità e il suo continuo rimandare all’uomo stesso. Presto però il punto di vista fichteano è abbandonato ad Novalis, in quanto ritenuto inadeguato. Di fronte ad esso, il congetturare novalisiano si presenta spesso come un fantasticare soggettivistico e incurante della validità dell’argomentare. Come Schlegel approda ad un prospettivismo repubblicano e liberale, così in Novalis il fantasticare fa poi valere istanze filosoficamente pregevoli, prima fra tutte la rivalutazione della natura. Questa è prodotto inconsapevole dell’immaginazione produttiva e, pertanto, ha un’essenza spirituale, ancorché si tratti di spirito pietrificato: è proprio qui che appare insostenibile la posizione di Fichte, la quale svaluta la natura liquidandola come mero ostacolo al libero espandersi dello spirito (a tal punto che, se non vi fosse la natura, lo spirito potrebbe realmente essere tale, illimitato e perfetto). Proprio queste considerazioni inducono Novalis a congedarsi da Fichte e ad addivenire ad una concezione della natura rispetto alla quale la prospettiva fichteana appare inconciliabile: la natura non può in alcun caso essere ridotta a mero strumento dell’attività dello spirito, giacchè entrambi (natura e spirito) rimandano ad un principio superiore di cui sono il prodotto. Proprio qui sta il passaggio novalisiano dall’idealismo magico al neoplatonismo cristiano, che si configura eminentemente come avvicinamento a Plotino e a Spinoza (la cui metafisica è di impianto direttamente plotiniano). E Novalis fa valere in forma interrogativa i suoi dubbi circa la dottrina di Fichte: “Fichte non ha forse messo arbitrariamente tutto nell’Io? E con quale diritto? L’atto per cui l’Io si pone come Io deve essere congiunto con l’antitesi di un non-Io indipendente e col riferimento ad una sfera che li racchiuda: questa sfera la si può chiamare Dio”. La natura allora non è più rappresentazione inconsapevole dell’Io, ma anzi sussiste indipendentemente da esso ed è anch’essa il prodotto dell’unico principio – Dio – che è infinita pienezza di tutte le possibili forme d’essere. In un frammento che a tutta prima può sembrare di esclusiva pertinenza psicologica, scrive Novalis: “stati d’animo e sensazioni indeterminate, e non invece sensazioni e sentimenti determinati, rendono felici. Ci si sente bene allorquando non si osserva in sé alcuno stimolo particolare, alcuna serie determinata di pensieri e di sensazioni. Della coscienza più perfetta si può dire che è coscienza di tutto e di nulla”. È un elogio all’indeterminatezza, da Novalis (come da Schlegel) opposta all’ordine - borghese e illuministico – che regola l’esistenza di quanti si assoggettano alle leggi dell’utile e della produzione. Al contrario, l’indeterminatezza è esperita come piacevole perché interrompe la monotonia di quell’ordine e vi introduce un elemento di novità, un che di insolito. E il nuovo e l’insolito piacciono perché, rispetto alla prosaicità dell’ordinarietà, hanno un effetto poetico, esercitano un’azione liberatrice dalla soffocante angustia dell’ordinario e della routine. “Tutto ciò che è nuovo sortisce, in quanto estraneo, un effetto poetico. Tutto ciò che è antico [“antico” qui nel senso di “passato”] sortisce parimenti, in quanto interiore, un effetto romantico. Entrambi in contrasto con l’ordinario. La vita ordinaria è prosaica, è discorso e non canto. La quantità di ciò che è ordinario serve solo a rafforzare l’ordinarietà, onde l’impressione opprimente che fa il mondo se contemplato dal punto di vista utilitaristico, ordinario, prosaico”. Come in Schlegel, anche in Novalis c’è contrapposizione tra la poesia e la prosa: il regno dell’utile e del finito è opposto al romantico e al poetico, identificati da Novalis con l’eterogeneo, l’indeterminato, l’insolito. Sicché poetico è l’accidentale, l’imprevisto, tutto ciò che sfugge alla prosa rozza e volgare del quotidiano. In questa prospettiva, la poesia è allora irruzione di “altro” nel quotidiano e “ogni poesia interrompe lo stato abituale, la vita comune per rinnovare”. Malattie, incidenti, nuove conoscenze, imprevisti sortiscono allora un effetto che poetizza la vita, giacché ne interrompono la regolarità. Resta da chiedersi in che senso e perché l’esotico e l’insolito siano romantici: a questa domanda, Novalis risponde che essi sono romantici in virtù del fatto che la poesia è, lato sensu, l’altro mondo, quello più alto, soprasensibile e sovraterreno; in una sola parola, “poesia è l’Uno-Tutto”, cioè l’infinito stesso. Il principio della poesia è allora tutt’altro rispetto a questo mondo: esso si configura anzi come principio cosmico, il che era già vero ai tempi dell’idealismo magico, quando il principio cosmico della poesia era ricondotto all’Io assoluto (essendovi, all’origine della realtà, l’inconsapevole poetare dell’Io). Come si ricorderà, l’immaginazione produttiva è l’unica fonte di poesia che produce il mondo (inconsapevolmente) e la poesia che lo canta (consapevolmente), ma questa seconda può modificare il primo, in direzione di un’umanizzazione della natura. Il poeta può dunque rifare in meglio il mondo rispetto a come l’ha creato l’immaginazione produttiva, la quale – in quanto inconsapevole – può essere smodata e arrivare a produrre il già ricordato “orrido in natura”. Abbandonato l’idealismo magico, nella fase neoplatonico/cristiana la poesia come principio cosmico coincide con l’Uno-Tutto, ossia con Dio, che dobbiamo intendere come un infinito reale e sussistente prima rispetto ai suoi effetti, di cui è principio e complicazione (li include in sé virtualmente). E questo Uno-Tutto non ha nulla a che vedere col panteismo dinamico di Schlegel: secondo Novalis, infatti, l’infinito non sussiste divenendo (come credeva Schlegel), ma è anzi reale e attuale (ancor prima del suo produrre). La poesia originaria è questo Uno-Tutto di cui il poeta, con la sua opera, dà rivelazione: e la vera interazione che vige tra l’infinito e il molteplice finito, ossia tra il mondo soprasensibile e quello sensibile, è platonicamente intesa come partecipazione, nel senso che le tante cose di questo mondo sono sospese all’altro mondo, del cui essere partecipano, da cui cioè ottengono di essere ciò che sono e di esistere come tali. Scrive Novalis: “il visibile è sospeso all’invisibile, l’udibile all’inudibile, il percettibile all’impercettibile, e così forse il pensabile all’impensabile”. Il termine “partecipazione” deriva dal latino partem capere, ma è una parola equivoca perché fa sembrare che la relazione sia tra due soggetti preesistenti al loro rapporto di partecipazione: ma così non è, in quanto uno dei due è prodotto dal parteciparsi del principio. Prima che ciò avvenga, non v’è nulla che partecipi dell’essere del principio. Si tratta del parteciparsi del principio che “crea”: sicché la partecipazione è il principio stesso che diventa i suoi effetti, modificandosi in essi. È, allora, un’autocontrazione del principio, che si limita nei suoi prodotti ma senza per ciò cessare di esser principio. Simultaneamente, l’Uno sussiste come infinita pienezza che resta tale e come modificazione nei suoi prodotti. Esso si partecipa, contraendosi, nei suoi effetti (spinozianamente: nei suoi “modi”) e lo fa per una traboccanza d’essere, il che è ben sintetizzato dall’afermazione di Platone secondo cui la divinità non è invidiosa. Sicché l’Uno è, al contempo, immanente e trascendente, è “ubique et nusquam”: è ovunque, perché è in tutte le cose; ma è anche da nessuna parte, poiché non si esaurisce in nessuna delle cose che è. E la produzione del mondo nulla aggiunge all’Uno e nulla gli toglie. Per chiarire questo punto, Plotino ricorre all’immagine della sorgente, la quale diventa fiume senza però cessare di essere sorgente, e all’immagine della radice, che produce l’albero restando però radice. Ciò spiega anche come l’Uno sia al contempo onninominabile e ininnominabile e, di conseguenza, come siano possibili tanto una teologia catafatica quanto una apofatica: è onninominabile perché tutte le cose sono sue modificazioni, e dunque il nome di ogni cosa già allude all’Uno; ma è anche ininnominabile perché nessun nome esaurisce la sua essenza (e neanche la somma di tutti i nomi può farlo, giacché esso è anche trascendenza). Modificandosi, allorché li produce, l’Uno è mal ridotto nei suoi enti, poiché la partecipazione può avvenire solo “discensive” (Tommaso), ossia procedendo dall’infinito al finito, cosicché nella partecipazione viene meno l’infinita pienezza d’essere. E il cosiddetto “male metafisico” di cui parla Leibniz è appunto la finitezza del finito, il fatto che ogni cosa sia soltanto se stessa. Tale finitezza è però un male solo se considerata dal punto di vista dell’infinitezza di Dio: ciò non di meno, in presenza del male metafisico, può insorgere il “male morale”, dal momento che la finitezza implica necessariamente contrapposizione, discordia, antagonismo, lotta, dissidio, egoismo. Infatti, tutto ciò che è soltanto se stesso si trova immediatamente opposto a quel che esso non è. È questo il principio prosaico virtualmente presente nel finito, di contro alla poesia dell’infinito, il quale è concordia e amore. Dove la finitezza si pretende autonoma, là entra nella prospettiva utilitaristica ed eudemonistica che con l’Illuminismo celebra i suoi trionfi. Facendo essere le cose quelle che sono attraverso la partecipazione, l’infinito – nota Novalis – è presente in tutte le cose, senza tuttavia ridursi ad alcuna di esse. Ecco perché Novalis riprende invariato lo slogan neoplatonico dell’ubique et nusquam (pantacou kai oudamou, in greco): “il mondo patrio è ovunque e in nessun luogo”; con questo linguaggio accentuatamente neoplatonico, egli sottolinea come la patria non sia questo mondo, col quale tuttavia è intimamente intrecciata, a tal punto che “il mondo superiore ci è più vicino di quanto comunemente non crediamo”. Ecco che ci avviciniamo al redde rationem: ogni cosa sensibile è vestigio del suo principio soprasensibile; “vestigio” nel senso forte di “immagine”, di riproduzione, ad evidenziare come ogni cosa visibile non sia che un’immagine e un riflesso del mondo invisibile. Se dunque a questo mondo inerisce lo statuto di immagine e – spinozianamente – di “modo” dell’infinito, allora esso è poetico: infatti, se l’infinito è poesia (e abbiamo visto che lo è), allora anche questo mondo – che ne è simulacro – è poetico, ossia aperto all’altro mondo, che attraverso esso filtra e traspare. Proprio perché questo mondo dipende in toto dall’altro, ipso facto è rimando al suo principio. La sua inconsistenza ontologica è già sempre un rinvio al principio stesso e proprio in ciò risiede la natura teofanica del nostro mondo, della quale l’Illuminismo s’è scordato. Così inteso, il mondo è un libro scritto da Dio, come sostiene una lunga tradizione di matrice medievale, cosicché il libro scritturale è affiancato dal liber naturae, da quello che spesso è stato definito il “gran teatro del mondo”, nel quale Dio nasconde e, insieme, manifesta se stesso. Egli si manifesta, poiché – platonicamente – l’effetto non può che somigliare alla causa (e dunque il mondo è un costante rinvio a Dio), ma al contempo si cela, giacché la causa è sempre qualcosa di più del suo effetto, che ne è una restrizione. Proprio in questa prospettiva si inserisce la riflessione di Novalis, il quale recupera – come Schlegel – la distinzione tra spirito e lettera: sicché ogni cosa del mondo è un nome predicabile di Dio, da cui tutto dipende. L’errore sta nel ritenere che le cose di questo mondo siano autonome e tali da rimandare solo a se stesse: è questo il nefasto atteggiamento della scienza moderna, che vede nelle cose soltanto la loro finitezza. In questo senso, il mondo è “una rivelazione dello spirito, ma è trascorso il tempo in cui lo spirito di Dio era comprensibile”. Pertanto “il significato del mondo è andato perduto”, siamo rimasti fermi alla lettera o – come dice Novalis – “è rimasta la manifestazione, ma abbiamo perso ciò che vi si manifesta”. Da trasparente che era, il mondo s’è fatto opaco e tale intervenuta opacità, la quale non è che il prosaicizzarsi del mondo stesso, è frutto dell’assolutizzazione della sua finitezza: esso è ridotto a “monotona ripetitività d’una macchina autosufficiente e in sé conchiusa”, con l’esclusione di ogni riferimento ad un fondamento che lo trascenda. In questa prospettiva, il mondo ha il solo significato letterale decriptato dalla scienza, la quale non ne ammette altri: “un tempo, tutto era apparizione di spirito; ora vediamo solo una morta ripetizione che non comprendiamo”. In altri termini, manca il senso del geroglifico: come è noto, lo stesso Plotino fu un grande estimatore del geroglifico, inteso come simbolo equivoco plurisignificante e, dunque, adatto ad esprimere l’insondabile infinitezza dell’Uno, giacché è l’esempio lampante di una lettera che racchiude in sé infiniti significati. Ogni cosa, proprio perché una, è un rimando all’Uno stesso: ognuna di esse risulta dall’unione di una pluralità di fattori uniti in modo non caotico, ma ordinato e tale da manifestare il loro essere effetti di un’unità superiore che, mediante essi, si manifesta. Sicché ogni molteplicità partecipa già sempre dell’Uno, come rileva Proclo: ecco la ragione per cui ognuna di esse è una (è se stessa e non le altre) e per cui il mondo stesso non si risolve in una congerie di schegge disordinate, ma in un quid di unitario e disciplinato che si configura come teofania. Del resto, in un mondo opacizzato e senza poesia, ogni cosa non può che svilupparsi all’insegna dell’utile, del basso e dell’ordinario: ma ciononostante, sebbene soffocata dallo scientismo imperante, l’intrinseca natura spirituale del mondo è solamente stata obliata e occultata, non abolita. Ne segue che colui il quale è infelice in questo mondo e non vi trova ciò che cerca, conserva intatta la possibilità di una ripoetizzazione del mondo stesso, una sua romanticizzazione (riaffiora qui, invariato, il tema romantico della nostalgia). Perché si possa riscoprire la sua dimensione teofanico/poetica, occorre anzitutto smettere di guardare le cose troppo da vicino e con l’ausilio di un “rischiaramento” (Aufklärung in tedesco, termine che designa l’Illuminismo) artificiale che, facendo troppo risaltare le cose nella loro finitezza, ne enfatizza la consistenza ontologica facendola sembrare maggiore di quanto non sia. Questo guardar troppo da vicino finisce infatti per attribuire ad esse un’autosufficienza di cui in realtà sono prive, poiché dipendenti dall’Assoluto. E pertanto, se si vuole ripoetizzare questo mondo, bisogna in primis rigettare la volontà di dominio – fatta valere dall’Illuminismo - su di esso, guardando le cose con distacco: così facendo, esse torneranno a mostrarsi per quelle che sono, nella loro reale natura poetica ed allusiva. È un po’ come quando contempliamo le cose da distante e nella luce incerta del crepuscolo, in cui perdono i loro contorni ben definiti e la loro marcata delimitatezza, cosicché ogni cosa si dissolve e sfuma, smarrendo la sua apparente consistenza e facendo tornare trasparente ciò di cui è immagine. A tal proposito, Novalis afferma che “nella lontananza, tutto diventa poesia” e, di conseguenza, tutto diventa romantico e affiora la nostra natura originariamente poetica. Nell’Enrico di Ofterdingen, il Medioevo in cui è ambientato il romanzo è significativamente concepito come epoca romantica perché caratterizzata dal contrasto tra chiaro e scuro: quella medievale è dunque un’epoca crepuscolare, contrapposta ai tempi moderni che offrono l’immagine di un giorno generalizzato (ciò è dovuto all’eccesso di luce prodotto dall’Illuminismo). La ripoetizzazione del mondo, che dev’essere la stella polare dell’agire del Romantico, fa riemergere la dimensione teofanica e poetica del mondo, ed è opera del poeta romantico, il quale, alla prosa illuministica, sostituisce la propria poesia e, così facendo, riscopre il mondo come poema di Dio. In ciò, egli riesce nella misura in cui è in grado di rappresentare un mondo dai contorni sfumati – quale era quello medievale -, con dissolvenze e lontananze, con brume e crepuscoli. Per meglio comprendere questa poetica del non-finito, possiamo fare riferimento a Michelangelo che, campione artistico del non-finito, segue quella poetica platonica secondo la quale lo sfumato e l’incompiuto tendono a negarsi e, per ciò stesso, alludono ad altro. Infatti – nota Novalis – un’immagine sfocata è allusiva, vince la rigidità dei contorni fatta valere dalla scienza: ne emerge un mondo fluttuante e disancorato quale effettivamente è, non avendo in sé la propria radice (a mettere sulla tela i precetti novalisiani saranno Friedrick e Turner). Dunque la poetizazzione rende al mondo il suo significato originario, restituendo all’ordinario la funzione di veicolo dello straordinario. In questi termini, romanticizzare è potenziare qualitativamente, in quanto si conferisce “all’ordinario un altro significato, all’abituale un aspetto misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita”. Questa teoria è così sintetizzata da Novalis: “il senso per la poesia ha molto in comune col senso per il misticismo: è il senso dell’originario, del personale, dell’ignoto, dell’arcano, di ciò che deve essere rivelato. Rappresenta l’irrappresentabile, vede l’invisibile, percepisce l’impercettibile. La sensibilità poetica è molto affine alla sensibilità profetica e, in generale, a quella religiosa e divinatrice”. E questo mondo ci è dal poeta presentato come meraviglioso: infatti, in un mondo veramente poetico, tutto è naturale ma meraviglioso, si crede che nulla potrebbe essere diversamente ed è come se si fosse fino ad ora dormito. Il mondo ci appare tutt’altro ed è così che la poesia sana le ferite procurate dall’intelletto, giacché essa riscopre il meraviglioso del mondo stesso e lo libera dalla soggezione al finito. La meraviglia dev’essere però distinta dallo stupore: quest’ultimo è uno stato di coscienza attonito e, per così dire, stupido ed ignorante, in quanto ci si stupisce di ciò che si ignora. È pertanto uno stato d’animo prodotto da qualcosa che ancora non si sa. Sull’altro versante, la meraviglia presenta l’etimo del latino mirari e mirabilis: a suscitarla è qualcosa di miracoloso, e non è un caso che tanto Platone quanto Aristotele pongano il qaumazein (che è meraviglia, non stupore) come initium philosophiae, riferendosi non solo all’inizio in senso cronologico, ma anche come principio animatore e permanente dell’indagine filosofica e del sapere, che mai può essere interamente dissolto da ciò che via via è saputo. Su questa scia, Novalis sostiene che, a partire dalla conoscenza di questo mondo finito, si può risalire al sapere infinito: le cose sono meravigliose nel senso che destano meraviglia in quanto specchi riflettenti l’infinitezza divina, con la conseguenza che ammirare il mondo è già sempre ammirare il principio divino cui esso rinvia. Un tal sapere mirante all’infinito culmina, da ultimo, in un non sapere o, per dirla con Cusano, in una “dotta ignoranza”. E una creazione poetica che sia apparizione e rivelazione del meraviglioso, è per sua stessa natura fiaba: “il fiabesco è il trasparire del sovraterreno, il mirabile riflesso del mondo superiore; tutte le fiabe sono solo segni di quel mondo patrio che è ovunque e in nessun luogo”. Quanto più è poetica l’opera del poeta, tanto più essa è fiabesca: e la fiaba non è che “il canone della poesia”, con la conseguenza che tutto quel che è poetico deve essere fiabesco. E Novalis attribuisce alla poesia lo statuto di fiaba perché quest’ultima implica una visione onirica delle cose che capovolge quella scientifica, la esorcizza, la supera e restituisce al mondo il suo significato originario. “La fiaba è propriamente come un’immagine onirica: senza nesso, un insieme di cose e di accadimenti meravigliosi”, cosicché, in luogo della visione scientifica di un ordine regolato dal principio di causalità (il quale riduce il mondo a macchina il cui solo significato è il prestarsi all’uso umano), la visione fiabesca instaura disordine e anarchia che regnano tra le cose, là dove esse siano legate tra loro da un’associazione poetica intenzionalmente arbitraria. “Non v’è nulla di più contrario allo spirito d’una fiaba che una connessione che abbia rigore di legge”: nelle fiabe regna infatti un’autentica anarchia naturale, un “mondo astratto, mondo di sogno”. Aggiunge Novalis: “il poeta adopera le cose e le parole come tasti e tutta la poesia si fonda su di un’attiva associazione di idee, su di un’autonoma intenzionale produzione di casualità (fortuita, libera associazione)”. Poetici – egli rileva – sono allora l’antro di un mago, il laboratorio di un fisico, una stanza per bambini, un ripostiglio, una dispensa, insomma tutti i luoghi in cui regna il caos, poiché la disposizione casuale degli oggetti recupera il loro autentico significato. Nella fiaba, poi, i due mondi (quello finito e quello infinito) tornano ad apparire intrecciati: “in un’autentica fiaba, tutto deve essere meraviglioso, misterioso, incoerente: l’età dell’anarchia universale, la condizione ex lege, la libertà”. In quanto fiaba, la poesia orienta di nuovo verso il meraviglioso l’uomo moderno che l’ha perso di vista. Il poeta scompagina l’ordinario contesto entro cui le cose sono costrette, rendendole straordinarie e poetiche: ed è allora che esse diventano piacevoli. Riaffiora a questo punto il tema dell’esotico e dell’insolito: grazie al disordine in cui vengono presentate, le cose tornano ad essere occasioni di poesia, la quale è foriera del meraviglioso. Così la missione del poeta romantico si configura come produzione di quell’effetto di piacevole straniamento che da sempre ha suscitato l’attenzione di Novalis, in forza della sua portata poetica: “l’arte di estraniare in maniera piacevole, di rendere un oggetto estraneo e tuttavia noto e accattivante: questa è la poetica romantica”.

 


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