IL ROMANZO SECONDO SCHLEGEL |
Parlando della teoria schlegeliana del romanzo, slitteremo dal piano dell’etica a quello dell’estetica. Schlegel definisce la poesia, nel suo significato artistico, come il “superiore linguaggio della vita nobile”: essa è dunque la traduzione di una vita poetica in un’opera letteraria, la quale si presenta come un vero e proprio compendio enciclopedico “dell’intera vita spirituale di un individuo geniale” e ciò perché il poeta è uno di quegli uomini superiori abitati dall’infinito, ispirati da Dio e tali da avere un’intuizione originale dell’infinito stesso e da abbracciare in sé l’intero universo della poesia. Così tratteggiato, il poeta è un autentico portavoce di Dio ed è questa la conditio sine qua non affinché si possano comporre poesie. Ora, la poesia di un tale poeta è “universale e progressiva”: questa è precisamente la poesia romantica. In particolare, essa dovrà essere progressiva e universale come è lo spirito dell’autore che la esprime: ed è romantica perché il romanzo è – o, meglio, deve essere – la “forma letteraria” che meglio di ogni altra riesce ad incarnarla. In effetti, come nota Schlegel, l’infinita pienezza di vita che il poeta reca in sé può manifestarsi solo in un’opera che sia essa stessa infinitamente piena e caotica: tale è il romanzo come Schlegel lo intende. La sua essenza è la mescolanza di tutti i generi poetici: nel romanzo tutti i diversi generi poetici (lirica, epoV, dramma, commedia, ecc) si intrecciano e si intersecano senza soluzione di continuità, sortendo quella forma caotica che fa del romanzo la sede più appropriata per la rivelazione dell’infinito in divenire. Nella misura in cui riunisce e mescola in sé tutti i generi, il romanzo diventa un “sistema di opere reciprocamente integrantisi”, corrispondendo al “sistema di individui” che è il poeta. Ne nasce una “poesia progressiva” che ha agio di esprimere la progressività infinita dell’autore stesso: Schlegel sa bene come questa sua teoria del romanzo rivoluzioni l’intera poesia, gettando lo scompiglio nella distinzione dei generi romantici che contraddistingueva l’estetica all’epoca in auge. Così, un unico genere poetico – il romanzo – si trova a riunire in sé tutti gli altri, ragion per cui “compito imprescindibile del romanzo è la commistione e l’intreccio di parti quanto mai eterogenee fra loro”. Il termine tedesco per esprimere l’italiano “romantico” è Romantisch, mentre Romanisch significa “romanzo” nel senso di “proprio delle lingue romanze”: romanzi e romanze erano tutte le opere scritte non già in metri classici, bensì in queste lingue romanze (ad esempio, il romanzo di Re Artù). Per Schlegel, “romantico” significa anzitutto “peculiare del romanzo”, ovvero della produzione poetico/letteraria romanza (e quindi non latina): in primis i poemi cavallereschi medievali. Ma, accanto ai poemi cavallereschi, Schlegel ha in mente Dante, Petrarca e Ariosto: sicché “poesia romantica” significa in primis “poesia non latina”, cui tuttavia Schlegel ascrive anche i drammi che si sottraggono alla precettistica espressa nella Poetica di Aristotele: Calderon de la Barca e Shakespeare, quest’ultimo ancora considerato da Voltaire come un barbaro. La caratteristica di questi autori – da Dante a Shakespeare – è la mescolanza di prosa e poesia, di filosofia e poesia, di generi, di alto e basso, di volgare e di nobile: la loro è una produzione letteraria che esula dai canoni della classicità. E tale mescolanza torna a riproporsi anche in opere più recenti, come il Don Chisciotte di Cervantes, Jacques le fataliste di Diderot e le Confessioni di Rousseau. In senso meta-storico, romanzo è la forma ideale della poesia romantica, della progressione dello spirito romantico, ossia di uno spirito che non nasce con Schlegel ma che è da sempre presente e che già si è manifestato in questi Romantici ante litteram che sono Dante, Shakespeare, Petrarca, ecc. Ancor prima di entrare in medias res per quel che riguarda la teoria del romanzo, dobbiamo spendere qualche parola sulla poesia in senso strettamente artistico: a tale trattazione Schlegel dedica il Dialogo sulla poesia, in cui esordisce dicendo che “romantico è ciò che ci rappresenta una materia sentimentale in una forma fantastica”. Nella fattispecie, la “materia sentimentale” è l’oggetto della nostalgia del poeta, mentre la “forma fantastica” è tale nel senso che è attiva la fantasia inventiva dell’entusiasmo che, sul piano della produzione poetica, si esprime in sempre nuove invenzioni poetiche. L’altra definizione della poesia romantica che fornisce Schlegel è quella secondo cui essa sarebbe “universale e progressiva”: così dicendo, egli capovolge l’estetica classica, rigettandone i canoni. Infatti, l’estetica di Aristotele, dei Rinascimentali e dei Classicisti è universale, giacché il suo oggetto è non già un particolare, bensì l’universale stesso, di contro alla storia, la quale descrive le peripezie dei singoli individui: l’estetica classica, infatti, riguarda non la particolarità di questa o quella cosa, ma il suo essere nell’universalità, ossia l’essere che la cosa è (e che la accomuna alle altre di quella specie) nella sua perfezione universale, nella sua idealità. Una tal concezione universalistica dell’arte configura la poesia come un qualcosa di volta in volta in sé conchiuso: così, quando l’arte raffigura l’uomo, non fa che guardare all’essenza dell’esser uomo nella sua piena attuazione; ad esempio, rappresentando la virtù di Odisseo, essa rappresenta l’uomo stesso nella sua archetipicità. Ma questa è, com’è naturale, una raffigurazione che inizia e che si conclude: ha cioè un inizio e una fine che fanno sì che essa sia un’opera compiuta. E infatti le peripezie cui va incontro Odisseo sono un qualcosa in sé conchiuso, nonostante la frammentarietà indefinita degli episodi che costellano quel qualcosa. Sicché dire che la poesia è universale equivale a dire che il poeta dà vita a opere in sé conchiuse; in ciò concordando con l’estetica classica, anche Schlegel sostiene che la poesia è universale, ma poi aggiunge un aggettivo fatale: - “progressivo” - che sgretola l’estetica classica. Condividendo la concezione dell’arte come rappresentazione dell’universale, Schlegel concepisce poi l’universale in modo diverso rispetto all’estetica classica: tale universale, infatti, non è a suo avviso riconducibile né all’essenza di cui parlava Aristotele né all’idea di cui diceva Platone. È, piuttosto, un principio di tutto ciò che è e, dunque, è un universale sempre in divenire, cosicché l’arte deve raffigurarlo nella sua costante progressione, nel suo divenire incessante. Come l’universale non è ma diviene, così la poesia che cerca di raffigurarlo non è mai conchiusa ma è essa stessa in progressione: di conseguenza, l’artista, che coglie intuitivamente l’universale nel suo essere altro rispetto al molteplice sensibile, fissa mediante astrazione l’essenza costitutiva delle cose (ad esempio, la razionalità come essenza dell’uomo). L’universale diveniente è - come sarà quello hegeliano – concreto, nel senso che concresce diventando via via i suoi prodotti. E tale universale è ad un tempo soggetto e oggetto della poesia romantica: soggetto, perché la fantasia del poeta, dilagante in sempre nuove invenzioni, è la pienezza del Dio diveniente nel poeta stesso; oggetto, perché il poeta cerca di fissarlo in un’opera che resta sempre aperta, che mai potrà dirsi conchiusa e che si presenta come un perenne work in progress. Una tale poesia non solo unisce in sé tutti i generi letterari, ma ancor prima tende ad unire filosofia e poesia, giacché è universale, progressiva e dunque tale da essere abitata dalla riflessione ironica. E del resto la poesia riesce ad essere universale e progressiva solo se c’è la riflessione ironica, cioè filosofica: deve dunque mescolare sapientemente poesia e prosa, cioè infinito e finito, ma anche versi e discorsività. Deve poi unire genialità e critica, cioè entusiasmo inventivo e ironia. Come l’uomo romantico non è solo un sentimentale, ma un lucido e lungimirante critico, così l’artista romantico è sempre anche dotato della riflessione critico/filosofica, poiché solo il poeta che sia in grado di riflettere sulla propria opera è poi in grado di trascenderla e di produrre una poesia progressiva e universale. Pertanto tra l’invenzione e l’opera si libra sempre e di nuovo la riflessione ironica: quando l’estetica classica parlava della poesia come raffigurazione dell’universale statico, concepiva l’arte come mera imitazione della natura, ancorché quest’ultima fosse contemplata nella sua idealità (le idee platoniche o le forme aristoteliche); era sì celebrata l’inventiva dell’artista, ma sempre concependo l’universale come il solo orizzonte entro cui l’artista poteva muoversi (l’idea platonica e l’essenza aristotelica devono essere solo riconosciute ed imitate). Al contrario, per Schlegel la libertà del poeta non ha limiti: egli è creatore assoluto, in quanto è l’infinita pienezza che in lui si manifesta, a tal punto che possiamo dire di essere in presenza di una demiurgicità dell’artista sconosciuta all’arte classica. Fatte queste precisazioni sulla poesia, possiamo ora tornare alla teoria schlegeliana del romanzo, partendo da quanto dice Schlegel stesso: “in un certo senso, tutte le opere di poesia sono romanzi, rientrano nella progressione della poesia. Ogni poesia dev’essere prosa e ogni prosa dev’essere poesia. Tutte le produzioni dello spirito devono romantizzare, cioè approssimarsi il più possibile al romanzo”. Così, ad avviso di Schlegel, il Guglielmo Meister di Goethe è, dopo quello di Cervantes, il romanzo moderno che più si avvicina alla sua concezione del romanzo, poiché in esso lirica e prosa si alternano, è forte la parte dialogata e dunque v’è fusione tra etica, lirica, dramma. Inoltre, in esso è altamente presente la riflessione critico/filosofica: ma, nonostante questi aspetti che lo rendono assai vicino al romanzo schlegelianamente inteso, esso non è ancora perfetto, perché per essere tale dovrebbe essere “più moderno, più antico, più filosofico e etico e poetico, più politico, più liberale, più universale, più socievole” (curioso è il riferimento alla socievolezza, con la quale qui si allude al fatto che la poesia romantica deve mescolare tutti i generi). Tra i romanzi più romantici vi sono anche il Don Chisciotte di Cervantes e i drammi di Shakespeare, i quali costituiscono – nota Schlegel – un unico romanzo e il “nucleo della fantasia romantica”: nella loro totalità, tali drammi costituiscono un solo romanzo che racchiude in sé tutti i generi e tutte le loro possibili declinazioni. E se l’estetica fa questione della bellezza, qui no, si fa questione di progressività e si celebrano autori che, per i canoni del Classicismo, grandi autori non erano. Come l’esistenza del poeta è sforzo di infinitizzazione, così la poesia è sforzo di raffigurare quello sforzo di infinitizzazione e il romanzo è traduzione in un’opera di tale sforzo, come emerge bene dall’affermazione di Schlegel secondo cui i drammi shakespeareani sono un romanzo. La stessa Commedia di Dante è un romanzo, ossia un insieme di generi, di alto e basso, di nobile e volgare: del resto, in essa l’individuo Dante si forma fino a diventare, con la salita in Paradiso, un sistema di individui, nella misura in cui egli compartecipa della vita dei personaggi che si raffigura. Le stesse poesie di Petrarca sono i frammenti di un romanzo e, del resto, il Canzoniere narra la formazione dell’autore, il suo progredire incessante attraverso un percorso spirituale e materiale: cosa c’è di più romantico dell’itinerario erotico di Petrarca che tende a Laura come all’infinito? Nella visione schlegeliana, il romanzo coincide con la poesia stessa, della quale è la forma tendenziale: cessando di essere un genere, esso li racchiude tutti. Certo è che, prima ancora di scriverlo, il romanzo è vissuto dal poeta: è questa la prima formulazione di quella che è successivamente diventata una forma popolare, compendiata in frasi del tipo “la vita di quell’uomo è un romanzo”. In questo senso, romanzo è unione di due assoluti: dell’assoluta individualità (del soggetto) e dell’assoluta originalità (dell’infinita pienezza che fa della vita del soggetto un romanzo). Le molteplici opere d’arte di un artista formano allora un solo romanzo che rappresenta il divenire di Dio: ecco allora balenare a Schlegel l’idea di una commedia teologica che sia autobiografia del soggetto assoluto, a sottolineare che l’intera produzione poetica dell’umanità è l’autobiografia di Dio. “Vi sono poesie antiche e moderne che respirano di continuo nel tutto e in ogni parte il divino soffio dell’ironia. Vive in esse una buffoneria davvero trascendentale: nell’intimo, lo stato d’animo che coglie tutto con un colpo d’occhio dall’alto e che si solleva infinitamente su tutto ciò che è condizionato, perfino sulla propria arte, virtù, genialità. Nell’esterno, esecuzione e maniera mimica di un comune buon buffone italiano”: l’invenzione del poeta romantico è lungimirante e ha di mira la totalità, che cerca di raffigurare e per ciò si solleva su tutto ciò che è condizionato (cioè sulle sue singole invenzioni); il poeta è dunque critico di sé e della propria opera e, nell’esterno (cioè nella concreta realizzazione dell’opera d’arte) egli è come un buffone italiano, è ironico quanto critico e, per ciò, il suo agire si traduce in facezia, in sorriso, in parodia del proprio limite riconosciuto come tale. A tal proposito, Schlegel parlerà di “poesia della poesia”, per suggerire l’idea di come nella poesia romantica sia sempre presente la riflessione dell’autore su e in essa. Ciò è da Schlegel esemplificato attraverso il modo in cui Goethe è sempre presente nel suo Guglielmo Meister sorridendo e guardando al proprio capolavoro. L’autore, alto sulla propria opera e già oltre essa, ne sorride benevolmente e in maniera autocritica. Ciò segnala la non coincidenza di quel che di volta in volta l’autore è con la sua opera, che egli trascende: in questo senso, ogni opera è il momento di una più ampia opera che l’autore si sforza via via di produrre. Stesso discorso potrebbe valere, ad esempio, per i Promessi sposi di Manzoni. Ludovico Tieck pubblica nel 1799 una versione drammaturgica de Il gatto con gli stivali, la famosa opera in cui il gatto aiuta il mugnaio a diventare conte e a sposare la figlia del re: Tieck ne fa una farsa satirica contro la letteratura illuministica e contro i suoi testi edificanti. È, in fin dei conti, un’esasperata espressione della teoria schlegeliana dell’ironia nel romanzo: l’azione è sempre interrotta e così l’atmosfera teatrale è impedita. Come ebbe a notare Augusto Schlegel riguardo all’opera di Tieck, “il poeta si interrompe sempre e di nuovo distruggendo di continuo la propria opera”. E Tieck ottiene un tale esito facendo comparire in scena perfino il pubblico e l’autore, il quale commenta e spiega l’azione agli spettatori, i quali interagiscono e interloquiscono con l’azione stessa. Nel terzo atto è addirittura introdotta una disputa tra uno scemo del villaggio con un dotto circa la bontà dell’opera stessa. Il poeta è tanto oltre la propria opera che le impedisce di compiersi in un tutto: così facendo, egli si mostra svincolato da essa. Abbiamo così esaminato un esempio di ironia romantica sulla scena teatrale. In realtà, Schlegel man mano che passano gli anni tende a retrocedere nella propria riflessione sull’ironia: è vero che egli la riscontra in alcuni testi quasi contemporanei, però poi finisce per rinvenirla anche nella letteratura antica, anche se noi non possiamo qui affrontare come egli risolva il problematico rapporto tra arte classica e arte romantica. Ci limiteremo a constatare come la soluzione a tale problema consisterà non già in una opposizione tra le due, ma in una continuità tale da rendere configurabile, come già notavamo, l’intera letteratura mondiale come sede della più alta autorivelazione di Dio. Abbiamo prima ricordato Manzoni, ma potremmo a ragion veduta ricordare anche Leopardi e la sua lirica Il sabato del villaggio: questa costituisce un eccellente esempio di ironia romantica, giacchè se nella sua prima parte v’è rappresentazione, nella seconda domina invece la riflessione e l’intervenire costante dell’autore; ciò ben segnala come anche chi (come Leopardi) è slegato dal Romanticismo finisca poi per esserne coinvolto, quasi come se trionfasse l’hegeliano “Spirito del tempo”. Schlegel nota come nell’arte l’ironia sia già presente anche in opere a lui molto vicine, come Tristam Shandy di Lawrence Stern. Quest’opera è perennemente inframmezzata da pagine bianche, da capitoli perduti e reintrodotti più avanti, da continui interventi diretti dell’autore: sicché Schlegel, più che inventare qualcosa di nuovo, dà un nome a qualcosa che è già sempre esistito ma che, fino ad allora, era rimasto privo di quella consapevolezza teorica che ora Schlegel stesso apporta. Tra gli antecedenti più significativi del romanzo spicca il Don Chisciotte, nella cui seconda parte il ricorso all’ironia è assai forte: Cervantes si rivolge direttamente ai suoi lettori e già nel prologo chiede al pubblico se si debba ornare la narrazione con l’aggiunta di poesie. Nel cap.V della seconda parte, accade addirittura che Sancho si metta a parlare in stile alto e che Cervantes, di fronte a tale fatto inusuale, si giustifichi con la logica del relata refero, dicendo che si sta limitando a trascrivere un manoscritto arabo. Dopo di che, Sancho narra anche che è stato pubblicato un libro su di lui contenente notizie di cui solo lui è a conoscenza: in questa maniera, Cervantes riesce a far muovere l’opera in una duplice dimensione, reale e letteraria. I suoi personaggi, infatti, sono tanto reali quanto letterari, e ciò è avvalorato dal fatto che nel cap.59 egli alluda a un suo plagiatore che, prima che uscisse la seconda parte dell’opera, aveva scritto la continuazione del Don Chisciotte: così troviamo Sancho e Don Chisciotte che sentono parlare due gentiluomini di questa seconda parte apocrifa dell’opera e i due eroi si rivolgono ad essi dicendo che è una continuazione falsa e mal riuscita. Per questa via, Cervantes costruisce una fuga prospettica che è senza fine e che racchiude in nuce l’ironia romantica. Oltre che sul Don Chisciotte, Schlegel sofferma la sua attenzione sui Racconti di Canterbury di Chaucer: essi sono narrati da un oste e, mentre egli ne sta narrando uno, ecco che vede tra gli avventori della sua osteria uno sconosciuto che si qualifica come Chaucer e che si mette a raccontare egli stesso un racconto. Possiamo volgere lo sguardo anche alla letteratura antica: l’Asino d’oro di Apuleio si apre coinvolgendo direttamente il lettore; l’autore stesso parla di “arguzia alessandrina”, a segnalare la presenza della critica e della filosofia nella sua narrazione. In tutti questi casi, l’autore fa valere – rispetto alla fissità dell’opera – la propria mobilità e dunque la propria ulteriorità rispetto all’opera stessa, della quale critica la fissità e così segnala di essere libero da essa pur essendone il produttore. Mentre per l’estetica classica la raffigurazione artistica è compiuta e in essa l’autore trova la propria soddisfazione, qui invece egli non è mai pienamente soddisfatto della propria opera e per ciò non può mai scomparire in essa: è invece sempre indotto a disturbare con la propria presenza la pretesa di compiutezza avanzata dall’opera stessa; egli si adopra dunque affinché essa resti aperta e lo fa con la sua coscienza sempre vigile e critica. Un ulteriore exemplum antico di ironia è ravvisato da Schlegel nella parabasiV (la “sortita”) della commedia antica: essa consiste nell’interruzione dell’azione scenica da parte del coro, il quale avanza fino al limite estremo del proscenio e si rivolge al pubblico, scambiando con esso una serie di battute. La parabasi – osserva Schlegel – segnala la sortita dell’artista dalla sua opera, con la quale cessa di coincidere senza residui: in questo scenario, “l’ironia è una parabasi permanente”, a segnalare questo costante tornare sui propri passi e il rivolgersi dell’ironia contro l’entusiasmo e le sue realizzazioni che tendono a concretizzarsi di volta in volta in una data opera. Questa scoperta di Schlegel dellironia già nell’arte classica risale al suo periodo pre-romantico e filo-elleno, in particolare al Trattato sul valore estetico della commedia greca (1794): in quest’opera, egli configura una reazione distruttiva al raptus creativo, all’ispirazione, all’entusiasmo. “Questa ferita non è frutto di imperizia, ma del lucido ardimento d’una traboccante pienezza di vita”, egli afferma: il lucido ardimento è precisamente lo sforzo dell’infinita pienezza che reagisce alla propria autolimitazione “e il suo effetto non è affatto negativo, ed è anzi di potenziamento” poiché, a ben vedere, la creazione artistica non può mai essere annientata. Quella reazione, allora, “ferisce per stimolare senza distruggere”, per mantenere aperta l’opera e per stimolarne la progressività: è in questo senso che Schlegel parla del romantico come di un uomo “coltivato fino all’ironia”, tale cioè che la sua cultura includa l’autocritica e sia costante oltrepassamento di ogni propria configurazione. Una tale cultura è sofisticata, nel senso positivo – e connesso all’antica Sofistica – di critica: autocriticandosi, anticipa ogni possibile obiezione che le possa essere mossa. Già nel saggio del 1794 Schlegel vede nella produzione artistica due elementi interagenti in maniera dialettica: da un lato, il movimento entusiastico della creazione/limitazione; dall’altro, quello scettico della critica e del superamento della limitazione. Ciò è così sintetizzato: “per lo spirito è parimenti mortale avere un sistema e non averne nessuno. Dovrà per ciò decidersi a coniugare entrambi”. Nella prospettiva schlegeliana, avere un sistema equivale a far uso della riflessione, mentre non averlo significa darsi all’ispirazione e all’entusiasmo. Ed è dall’interazione dei due aspetti – riflessione e ispirazione – che nasce la poesia romantica come “poesia della poesia” o “poesia trascendentale” (tale cioè da riflettere su se stessa): “in tutto quello che rappresenta, dovrebbe rappresentare anche se stessa ed essere insieme poesia e poesia della poesia”. Questa poesia universale e progressiva “può librarsi sulle ali della riflessione poetica fra l’oggetto della rappresentazione e il soggetto rappresentante, tornare sempre a potenziare questa riflessione e moltiplicarla come in una serie interminabile di specchi”. La poesia romantica dà pertanto vita ad un’arte la cui forma Schlegel ritiene di poter definire come “arabesco”, che è indice dell’infinita pienezza. “Indice” è qui da intendersi nel duplice senso che indica tale infinita pienezza e che ne è manifestazione. Dire ciò equivale a segnalarne la struttura di arabesco: quest’ultimo è un’ornamentazione pittorica fatta di forme vegetali, più o meno stilizzate, usato dagli Arabi, ai quali il Corano vieta di raffigurare uomini e animali. Simili agli arabeschi sono le grottesche, ossia quelle decorazioni murarie presenti a Pompei e che i moderni hanno ripetuto nelle logge vaticane di Raffaello. Sono decorazioni murarie fatte da una serie di figure vegetali e animali interrotte da figure bizzarre e chimeriche sì da costituire una decorazione che finisce per coprire tutte le pareti e i soffitti, senza inizio e senza fine, a segnalare un massimo di inventività tendenzialmente infinita. Di esse, Schlegel dice: “quelle argute pitture che chiamiamo arabeschi […] la più antica e originaria forma della fantasia”. L’arabesco è simbolo dello spirito poetico che sempre germoglia e si trapassa, manifestando il gioco ironico con le forme e riuscendo in una raffigurazione che vuole essere allusiva dell’infinita pienezza di Dio. Ecco allora che il romanzo è un ininterrotto arabesco alludente all’infinito e alla sua ineffabilità (non può essere detto proprio perché infinitamente inesauribile): in forza di ciò, Apollo stesso – dice Schlegel – è munito di lira e di arco, il che allude ai due momenti fondamentali della poesia: l’ispirazione (simboleggiata dalla lira) e la critica (simboleggiata dall’arco e dalle sue pungenti frecce). Il richiamo ad Apollo ci porta a richiamare l’opinione che Schlegel ha della mitologia antica: essa è un esempio di arguzia del tutto naturale, cioè spontanea e irriflessa; infatti, in essa il momento ironico agisce inconsapevolmente, dando così ali ad una fantasia che supera sempre e di nuovo le proprie limitazioni. I tanti dei dell’Olimpo sono i singoli aspetti dell’infinita pienezza divina, ma ognuno di essi è solo un aspetto di essa: già i Neoplatonici rilevavano che se l’Uno complica in sé il mondo delle idee, dal canto suo l’Olimpo è la sua rappresentazione poetica e gli dei rappresentano le tante idee. In questa maniera, la fantasia antica dà vita, nella mitologia, ad una totalità progrediente.