LETTERA E SPIRITO IN SCHLEGEL



La concezione della totalità progrediente, dapprima prospettata nei termini mitici dell’antico Olimpo, è da Schlegel approfondita mutuando dalla teologia la distinzione tra la “lettera” e lo “spirito”. La parola letterale è il veicolo dello spirito e tuttavia quest’ultimo è irriducibile ad essa: proprio perché infinito, esso trascende sempre la lettera finita in cui parzialmente di volta in volta si incarna. Sicché “la lettera uccide lo spirito” (Paolo di Tarso) solo se ci si arresta ad essa, fermandosi dunque al significato letterale. Il significato della parola è tale che essa mai riesce ad esprimerlo tutto ed esaurientemente: e tuttavia essa - che è sì parola umana, ma è divinamente ispirata – non dice solo qualcosa di quel significato, non lo riduce solo al proprio significato letterale. Ciò vuol dire che, nell’atto con cui la parola scritturale ne dice qualche cosa, al contempo adombra una molteplicità di ulteriori significati che trascendono quello letterale e che però in esso sono virtualmente contenuti. A differenza della prosa, la poesia include nel detto una pluralità di significati non detti che sta poi alla critica portare in superficie: tanto più una parola è poetica quanto più è pregna di significati. Tale struttura della parola poetica vale a maggior ragione nel caso della parola scritturale: ed è qui che poggia la distinzione tra significato letterale e significato spirituale delle Scritture. La parola dice infatti qualcosa di non riducibile al significato letterale, ma suscettibile di una pluralità di significati che la parola scritturale non riesce a esprimere tutti, può solo alludere ad essi. Come quella del poeta, la parola della Scrittura è rinforzata, allude a una miriade di significati, è – come dice Agostino – un mare immenso e insondabile, un’infinita “sensuum silva” che si configura come “mira profunditas eloquiorum”. Del resto, la teologia medievale distingue tra significato letterale e significato spirituale, suddividendo quest’ultimo in morale, allegorico e anagogico, secondo la nota espressione “littera gesta docet, quid credas allegoria,moralis quid agas, quo tendas anagogia”. E la distinzione tra lettera e spirito è sintomatica del rapporto intercorrente tra significante (la parola) e significato (Dio): il significato è infinito, mentre il significante è tale che pur nella sua finitezza di parola umana riesce, in virtù dell’ispirazione divina, a tener conto dell’infinità del significato, di ciò che si sforza di significare, dicendo sempre anche altro oltre il proprio significato letterale. A tal proposito, Schlegel afferma: “la lettera è spirito fissato. Ogni lettera deve, di necessità, restare sempre incompiuta”, giacché una lettera che si pretendesse compiuta sarebbe la lettera che uccide lo spirito di cui diceva Paolo di Tarso. Sicché “la lettera è la vera bacchetta magica”, perché per un verso fissa lo spirito, per un altro, restando incompiuta, gli permette sempre e di nuovo di sprigionarsi dalla lettera. “La lettera è finita e vuole diventare infinita; lo spirito è infinito e vuole diventare finito”: questo aforisma mette in luce come allo spirito sia congenito il limitarsi in singole opere, le quali sono la “lettera” e aspirano a diventare infinite. Ciò significa che esse sono consapevoli della loro missione, ossia che, pur nella loro finitezza, significano un contenuto infinito: quelle in questione, sono parole che, a differenza della prosa comune, pur vincolate alla finitezza, sono potenti e in grado di trascendersi. È questa la parola poetica in quanto allusiva, il cui significato mai si riduce a quello letterale: pur nella sua finitezza, essa si sforza di essere infinita e, di conseguenza, “ogni opera riuscita sa più di quanto non dica e vuole più di quanto non sappia”. Essa vuole di più e in ciò sta la sforzo che le inerisce in quanto autolimitazione dell’infinita pienezza. Ciò segnala nell’opera la pienezza di quell’ironia che consente all’opera stessa di trascendersi, di alludere ad altro, di andare oltre: “senza lettera, niente spirito. La lettera è vincibile solo nella misura in cui viene fluidificata”. Lo spirito sussiste solo nella lettera, cioè autolimitandosi, ma la fluidificazione della lettera è la necessaria conseguenza dell’infinita pienezza dello spirito che, pur limitandosi, è sempre e di nuovo trascendimento di quel limite in virtù dell’agilità che gli viene dall’ironia: onde l’arguzia propria dell’ironia romantica. La fluidità è il contrario dell’irrigidimento: sicché la lettera suscita lo sprigionamento dello spirito, lo fissa e lo evoca per poi non imprigionarlo, bensì sprigionarlo; e lo fa proprio perché le inerisce tale fluidità che è frutto dell’ironia. Questa è la “magia della lettera”. Ecco perché la filologia è sempre filosofia, che lo sappia o no: la filologia infatti è tale allorché si limita a espertizzare la lettera, ma trapassa in filosofia quando diventa riflessione sul nesso lettera/spirito, capovolgendosi in indagine filosofica circa la natura e le condizioni della creazione artistica, del rapporto vigente tra finito e infinito. Con tali affermazioni, Schlegel sta prospettando una particolare relazione tra l’opera, l’autore e il lettore: quest’ultimo deve essere anche filosofo, cioè in grado di far funzionare la lettera facendole sprigionare lo spirito. In altri termini, il lettore deve saper cogliere l’ironia presente nell’opera e deve dunque saper leggere l’opera stessa, ovvero l’ulteriorità di significato cui essa allude. Il rapporto autore/lettore è allora simpatetico, nel senso che essi devono rapportarsi sulla stessa lunghezza d’onda: nel lettore deve vivere la stessa tensione all’infinito presente nell’artista e nell’opera da lui prodotta e che sta a segnalare la loro (dell’artista e dell’opera) tensione all’infinito. Solamente se si instaura una siffatta relazione l’opera sortisce i giusti effetti: sicché quel che Schlegel chiede ex parte lectoris è di essere congeniale all’opera, di essere fruitore attivo della medesima, deve cioè consentirle di agire come deve, ovvero non come lettera morta che mortifica lo spirito, bensì come lettera che lo sprigiona rimandando dunque ad altro. Per questa ragione, l’opera d’arte è e resta sempre aperta. Da una tale concezione deriva inoltre il fatto che non esiste una rivelazione sola o definitiva dello spirito che si sia consegnato una volta per tutte a uno o a più testi canonici. La rivelazione è, dunque, poliforme e continua, procede ininterrottamente di romanzo in romanzo, dando vita ad un unico libro universale in infinito divenire. Il poeta è allora profeta dell’umanità, giacché, essendo il suo il punto di vista dell’infinito, ne profetizza le ulteriori rivelazioni e ad esse rimanda. In questa prospettiva, la Bibbia diventa metafora di un libro perfetto perché infinitamente diveniente, mera concatenazione di libri trascendentisi gli uni agli altri e ardita commistione di più generi letterari. Da ciò deriva che ogni libro autentico è Bibbia, cioè rivelazione continua in cui la lettera è costantemente dissigillata: “in un siffatto libro eternamente in divenire, verrà rivelato il Vangelo dell’umanità e della cultura”. A dimostrazione di come l’arguzia del discorso di Schlegel sia programmatica ed effettiva, possiamo dire in linguaggio politico quanto abbiamo finora detto in termini religiosi: “la poesia è un discorso repubblicano in cui tutte le parti sono liberi cittadini e hanno il diritto di voto”. Ciò significa che nella poesia tutti i punti di vista hanno cittadinanza e dignità, essendo ciascuno di essi una manifestazione dell’infinito, con la conseguenza che nella repubblica della poesia ogni minoranza è tutelata dalla natura repubblicana (cioè universale e progressiva). Il poeta ha dunque il diritto di vivere ogni forma di vita, facendo tutte le esperienze possibili, di contro a quello spirito borghese che è lettera che uccide lo spirito costringendolo entro la finitezza della propria vita prosaica. In questi termini, l’autore romantico è sempre insoddisfatto della propria opera, sentita come finita: significativamente, nella Lucinde v’è un luogo in cui si dice che “queste parole esprimono solo un lato, un frammento dell’insieme, del tutto che vorrei alludere in tutta la sua pienezza e armonia”. L’ironia è il tramite per cui si realizza la “lotta continua per rappresentare l’irrappresentabile”, cosicché “ogni romanzo vuol essere un libro assoluto e va considerato come libro progressivo”. Il poeta sente l’esigenza di essere più di quel che è: ecco perché la poesia romantica può divenire, ma non può mai essere in senso pieno: il poeta è profeta ma anche mediatore dell’infinito in virtù della sua capacità di sacrificare se stesso e la propria opera all’infinito. A tal proposito, scrive Schlegel: “mediatore è chi avverte il divino in sé e annientandosi si sacrifica per annunciare questo divino a tutti gli uomini col costume, con l’azione, con le parole e con le opere”. In quanto mediatore, il poeta è anche sacerdote dell’infinito: e allora la dottrina schlegeliana del romanzo e del Romanticismo, prima d’essere una teoria artistico-letteraria, è etico-esistenziale, giacché fa riferimento ad un’etica che può essere riassunta nell’imperativo della romanticizzazione. Il romanzo che l’uomo colto è chiamato a produrre è innanzitutto il romanzo che egli è chiamato a vivere, poiché “ogni uomo reca nel proprio intimo un necessario romanzo a priori, il quale altro non è che l’esposizione più compiuta di tutto quanto il suo esistere”. Sta a noi vivere quel romanzo virtualmente contenuto nel nostro intimo, nella nostalgia e nel desiderio, oppure dar seguito alla vita finita che ci suggerisce l’Illuminismo: “ogni uomo che sia colto e si coltivi, reca in sé un romanzo: che poi lo esponga e lo scriva non è necessario”. Si tratta evidentemente di un imperativo etico, che può essere così formulato: “vivere una vita che sia romantica o - il che è lo stesso – poetica”, che sia cioè sede del dispiegarsi dell’infinito. La relazione tra arte e vita non è allora da intendersi come unilaterale riduzione della vita ad arte, ma piuttosto come costante relazione reciproca per cui la vita esprime essa stessa una vita romanzesca e con essa interagisce senza tregua. Se coltivarsi equivale a fare albergare entro sé un sistema di spiriti, allora la relazione con gli altri e con le loro opere assume un’importanza eccezionale in quanto momento imprescindibile nel processo di accrescimento dell’io in una molteplicità. E nessuno quanto i Romantici ha posto l’accento sulla straordinarietà dell’artista: proprio in ciò sta la svolta epocale con cui muta radicalmente il suo status e diventa, da prestatore di opere come tanti altri e dotato di un prestigio non intrinseco all’essere artista, un mediatore, un sacerdote, un profeta, un vate. In questa concezione, i Romantici risentono profondamente della loro formazione protestante e, soprattutto, pietistica: l’artista è sacerdote e questi è non già un funzionario che, all’interno della gerarchia ecclesiastica, espleta determinate funzioni, bensì la persona autenticamente religiosa e abitata dallo spirito divino. Artisti sono allora quanti hanno un autentico rapporto con l’infinito, che in essi preme per giungere all’autoconsapevolezza e per esprimersi nelle loro opere d’arte. Essi eccellono – dice Schlegel per tre motivi: in primo luogo, per la loro separatezza dal finito e dal volgare; poi per via “dell’opera che divinamente va oltre ogni intenzione”, un’opera che è sia finita sia infinita, sia umana sia divina, e “la cui intenzione nessuno intenderà fino in fondo”, essendo essa infinita. Infine, l’eccezionalità dell’artista sta nel fatto che egli può animare i suoi compagni nella loro attività e poi quel che essi creano torna a suo vantaggio. “A tutti gli artisti appartiene ogni dottrina dell’eterno Oriente”: in questa frase, che a tutta prima potrà sembrare enigmatica, è presente quel riferimento all’Oriente che troviamo già nell’antichità (ex Oriente lux) e nel cristianesimo (Cristo come sol iustitiae), ma che trova nella massoneria il suo vertice. La massoneria del Settecento è divisa al suo interno in due correnti che, come qualcuno ha notato, prefigurano la distinzione degli schieramenti politici in Destra e Sinistra: c’è infatti una massoneria illuministica, razionalistica, laica, anticlericale e progressista; ma ce n’è un’altra che, al contrario, è mistica, esoterica, religiosa, neoplatonica. E i riferimenti dei Romantici sono soprattutto rivolti al secondo tipo di massoneria, che soprattutto in Novalis assume le connotazioni del neoplatonismo, mentre in Schlegel quelle del panteismo dinamico. Quello degli artisti è “l’unico, vero gran mondo”, il contrario di quello borghese e volgare rinchiuso nella finitezza: “l’unico gran mondo è quello degli artisti. Essi vivono una più alta vita”, in opposizione a quella borghese. L’artista così celebrato, reso edotto dal suo superiore status di uomo ai margini della società, si distingue anche nei tratti esteriori ed è qui che emerge il tipo dell’artista nella sua alterità rispetto alla gente comune (possiamo scorgere in ciò i prodromi del dandysmo ottocentesco). Gli artisti sono “brahamini, nobili non per nascita ma per libera autoconsacrazione” all’infinito: ecco allora che Schlegel concepisce, in tale prospettiva, una libera associazione – una “lega” – di artisti aventi per scopo alcunché che sia finito: al contrario, loro unico scopo è l’infinito. L’artista si è consacrato al divino di cui ha avvertito in sé l’empito dell’ispirazione e il desiderio e ad essi si è sacrificato. In tale capacità di sacrificio consiste non solo ciò che permette all’artista di essere tale, ma anche ciò che fonda in lui il particolare tipo di relazioni interpersonali che egli è in grado di intrattenere, in primis con gli artisti stessi. Una tale forma di relazione tra artisti dev’essere assunta a modello di ogni relazione umana: è qui che nasce il concetto, squisitamente romantico, di sun-filosofia e di sun-poesia (dal greco sun, nel senso di “con”), ad indicare una forma di cooperazione fra singoli individui accomunati dal perseguimento dello stesso infinito, verso il quale sono in progressione. Dunque ciò li riguarda come uomini prima che come artisti: tale forma di cooperazione implica, da parte di ognuno, la capacità e la disponibilità a sacrificarsi, giacché solo grazie al sacrificio la cooperazione può risolversi in un arricchimento reciproco e ben riuscito per ciascuno nel suo sforzo di universalizzazione. Posso arricchire gli altri e trarre arricchimento da essi esclusivamente se rinuncio di imporre ad essi il mio punto di vista, in primo luogo per il fatto che, in forza dell’ironia, non mi identifico con nessun punto di vista definitivo, in secondo luogo perché non agisco in maniera tirannica ma apro sempre il mio io ad altre suggestioni che lo arricchiscano. Il dialogo reciproco è possibile in virtù di un costante morire dei dialoganti che fonda la vitalità del dialogo stesso: sacrifichiamo il nostro io e poi ci apriamo alle prospettive altrui introiettandole. Ci apriamo dunque all’infinito (in termini religiosi), ma anche agli altri (in termini etico-politici) e all’arte (in termini estetici): in questa maniera, il nostro io diventa repubblicano, vincendo il proprio io particolare e aprendosi ad un’esistenza liberale. Lungi dall’essere un egoista e soggettivista quale Hegel ce lo presenta, il Romantico scorge nella relazione con l’altro (inteso sia come individuo sia come opera d’arte) un momento fondamentale nella sua formazione, per cui una vita senza amicizia e senza amore è un romanzo mancato, non è vita romantica. L’aspirazione all’infinito da cui il poeta è pervaso urta contro i limiti dell’individualità dell’io e si sforza di superarli: proprio per questo motivo, una tal tensione all’infinito è congenitamente apertura all’altro, giacché la socievolezza inerisce al desiderio di infinito. L’apertura all’altro è allora uno dei momenti nei quali si attua il superamento del limite e che dà origine a una relazione non già di unilaterale dipendenza dell’uno dell’altro, bensì di interdipendenza reciproca.            

 


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