L'EREDITA' DI KANT |
Mai titolo fu più pregnante de “Il mondo come volontà e rappresentazione”: nell’opera Schopenhauer ne chiarisce pienamente il senso, prima spiegando perché il mondo è volontà, poi perché è rappresentazione.
Parlando di “rappresentazione” si entra subito in una prospettiva kantiana: il mondo non conta per quello che è in sé e per sé, conta solo cosa esso sia per noi.
Kant, a questo proposito, ha enormi merito, secondo Schopenhauer.
« Il più grande merito di Kant è la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé, basata sulla dimostrazione che tra le cose e noi si trova l’intelletto, sicchè le cose non si possono conoscere per ciò che sono in se stesse. I fenomeni sono le cose per come ce le rappresentiamo, i noumeni sono le cose in sè». A ogni oggetto della nostra conoscenza competono certe caratteristiche e qualità (spazio, tempo, necessità del rapporto causa-effetto) NECESSARIAMENTE: non vi è oggetto che non le presenti quando lo conosciamo. Queste conclusioni, però, non ci derivano dalla nostra esperienza: essa ci dice essenzialmente che, sino a questo punto, le cose sono andate così, per il futuro non si sa. Vale dunque la convinzione di Hume, secondo la quale dalla sola esperienza non si possono ricavare giudizi universalmente validi del tipo “a ogni effetto la sua causa”.
“La Critica della Ragion Pura” si sforza di dimostrare che caratteri come spazio e tempo sono MODI FORMALI attraverso cui il soggetto conosce le cose: cioè, spazio e tempo competono alle cose non indipendentemente da noi, ma proprio perché e quando sono da noi conosciute. Sono entrambi modalità del conoscere.
Attraverso le modalità delle intuizioni sensibili e del pensare-giudicare, il soggetto fa degli oggetti conosciuti ciò che essi sono per lui. Gli oggetti così conosciuti non si possono però ridurre totalmente a funzioni del soggetto conoscente, cioè a quanto di universale è posto in essi dal soggetto: ciascuno di essi è l’ente individuale e particolare che è. La loro esistenza consiste nel darsi, inspiegabile, di un’infinita molteplicità di sensazioni dal contenuto determinato, a partire dal cui dato il soggetto, con l’ausilio delle modalità del conoscere, costruisce le sue conoscenze-rappresentazioni, gli oggetti conosciuti.
Se le sensazioni arrivano sino a noi, non si può dire che gli oggetti si riducano a essere meri oggetti della conoscenza, al loro esser rappresentati: bisogna ammettere, accanto al loro “essere oggetti per un soggetto”, che siano qualcosa IN SÉ, al di là del mero fatto di essere da noi conosciuti. Non c’è alcun motivo di attribuire a tali “cose in sé” quelle caratteristiche che esse presentano in quanto “cose per noi”, fenomeni: questi dipendono dalla struttura trascendentale del soggetto conoscente, identica e inconsapevolmente operante in ognuno di noi. Categorie come modalità e causalità intervengono in noi a nostra insaputa.
Delle cose in sé asseriamo la necessità del loro essere in quanto presupposto della nostra conoscenza di oggetti attraverso le sensazioni. Non possiamo però sapere quali siano le loro determinazioni: conoscere significa sottomettere ciò che è alle nostre categorie concettuali, quindi pretendere di poter conoscere il noumeno è una contraddizione logica.
Kant ha dimostrato, dunque, che il nostro conoscere non è un passivo recepire, ma un attivo intervento nel costruire gli oggetti conosciuti.
Schopenhauer non esita però a muovergli delle obiezioni: Kant non ha chiarito l’insorgere delle sensazioni, si è limitato a dire “che ci sono date”. Ciò significa fare un surrettizio e indebito uso della categoria di causalità relativamente alla cosa in sé.
Se le forme del conoscere hanno come ambito quello dell’esperienza, è una contraddizione dire che le sensazioni sono date dalle cose in sé, che sono degli effetti derivanti da esse. La causalità, infatti, dovrebbe valere solo in ambito fenomenico.
Prendendo per buona questa obiezione, si arriva alla conclusione che le cose sono solo la rappresentazione che abbiamo di esse: l’idealismo trascendentale kantiano sarebbe ridotto a una sorta di fenomenismo alla Berkeley. Il mondo non sarebbe così altro che “una rappresentazione nello specchio dell’Io”, una sua immagine.
Sembra quasi che Kant non avesse previsto questi problemi, che si fosse “dimenticato” di occuparsi della cosa in sé; naturalmente, questa sarebbe una grossolana banalizzazione di uno dei più grandi filosofi dell’umanità. Kant era perfettamente consapevole del problema del noumeno, ma non se ne fece un problema, proprio perché per lui non era un problema. Il suo punto di vista è radicalmente finito: “le molteplici sensazioni ci sono date”, per cui non siamo noi a crearle.
Proprio allo scopo di salvaguardare questa finitezza, egli fissa le cose in sé, ma le fissa come INCONOSCIBILI. Nell’orizzonte finito non sono un problema, lo diventano se si tenta di abbandonare il punto di vista trascendentale: esse rappresentano il celebre “CONCETTO LIMITE” kantiano.
Se si aspira a una conoscenza della totalità, allora sì che il rapporto tra fenomeno e noumeno diventa un grosso problema. È chiaro, dire che il noumeno è causa delle sensazioni che giungono al soggetto è una conclusione impropria (la causalità, lo abbiamo detto, vale solo nel fenomenico), ma è un’improprietà inevitabile all’interno di una prospettiva finita. Questa improprietà non inficia affatto “l’al di qua” del confine in cui è posto il soggetto, l’orizzonte finito.
I problemi iniziano per l’appunto quando si cerca di conoscere il noumeno, quando ci si chiede che cosa sia: in questo modo,però, si abbandona il solco tracciato da Kant, si “esce dal seminato”.
La filosofia trascendentale studia le condizioni trascendentali del conoscere, cioè costitutive del conoscere umano come sua struttura precedente al conoscere stesso, e come suoi strumenti. Il contenuto della conoscenza non è dunque la conoscenza del soggetto in quanto tale: essa riflette sugli oggetti conosciuti, trovati già di per sé come necessari e universalmente validi. Al soggetto conoscente sono attribuite le funzioni corrispondenti con cui esso conosce gli oggetti che conosce. Ciò avviene non in base a un auto-conoscersi oggettivo da parte del soggetto medesimo: non si tratta qui di conoscenza oggettiva, ma nemmeno di processi quali l’introspezione psicologica. Se divenisse oggetto di conoscenza, infatti, il soggetto cesserebbe di essere tale: diverrebbe oggetto d’indagine di un Io conoscente, in modo però da non potersi più dire soggetto, ma, appunto, oggetto di conoscenza. Insomma, è impossibile per un soggetto conoscere sé medesimo, perché nel momento stesso in cui si esterna da sé, si fa altro da sé per sottoporsi all’indagine conoscitiva, si oggettivizza, perde il suo carattere di soggetto. Pertanto, esso resta un presupposto necessario e necessariamente ammesso, ma resta sconosciuto.
Ma allora da dove conosciamo le sue varie funzioni trascendentali? Non in quanto il conoscere diviene conoscere, ma in forza di una DEDUZIONE LOGICA a partire dagli oggetti conosciuti. Essi vengono scomposti e analizzati, cosicché possiamo inferire le componenti del conoscere.
La filosofia trascendentale è “analisi logica” della conoscenza particolare di oggetti da cui estrae ed astrae le strutture formali. Punto fondamentale rimane la finitezza della conoscenza; del soggetto si può dire come conosce, come funziona, ma non cosa sia.
È bene ancora sottolineare che tutto questo svisceramento settoriale delle singole fasi del processo conoscitivo trascendentale è certo utile sul piano pratico, ma tradisce quel carattere fondamentale di ISTANTANEITÀ che lo caratterizza.
In conclusione di questo breve excursus all’interno del pensiero kantiano, possiamo ancora dire che le percezioni si rivelano costituite da due componenti, una a priori o FORMALE, l’altra a posteriori: la prima è la forma delle nostre sensazioni, la struttura trascendentale del nostro sentire composta da spazio, tempo e causalità; la seconda è la materialità, la fisicità del sentire, il fatto, ad esempio, che una cosa ci appaia rossa, gialla, liscia, ruvida, fredda, calda, ecc. ecc.