IL SUPERAMENTO DI KANT


 

 

Veniamo finalmente a Schopenhauer.

« La sensazione altro non è se non una percezione nell’organo di senso e solo attraverso l’apporto dell’intelletto, vale a dire della legge di causalità, e delle forme dell’intuizione, cioè spazio e tempo, questa mera percezione è trasformata in rappresentazione, la quale ri-sta come oggetto nello spazio e nel tempo (osservazione: ri-stare, in tedesco Gegenstand, riecheggia il termine latino obiectum, cioè “quello che mi sta davanti”). Queste rappresentazioni le ha perciò anche l’animale. Se ad esse si aggiungono concetti e pensiero, allora si abbandona del tutto la conoscenza intuitiva e nella coscienza irrompe l’attività della ragione, conoscenza razionale, la quale, peraltro, trae l’intero contenuto del suo pensiero unicamente dall’intuizione che la precede e dal paragone di questa intuizione antecedente con altre intuizioni e concetti ».

C’è una distinzione di fondo fra conoscenza intuitiva, che arriva fino alla rappresentazione dei corpi, e razionale, che sopraggiunge solo in un secondo tempo e si basa sulla prima, interrogandosi su cosa siano questi oggetti che ci rappresentiamo. La ragione nomina gli oggetti, li definisce, li paragona, ne studia le relazioni, ecc. ecc.

Riguardo alla singola intuizione sensibile, « se premo la mano contro il tavolo, nella sensazione non si ottiene la rappresentazione della coesione delle parti di questa massa, e nemmeno qualcosa di almeno equivalente ». Solo in quanto l’intelletto passa dalla sensazione alla causa di essa, si costruisce un corpo con caratteristiche di solidità, impenetrabilità e durezza.

In realtà, l’intelletto è già sempre all’opera nella sua componente formalizzante le mie varie sensazioni: la percezione di durezza e resistenza provocatami dal contatto con il tavolo è la componente materiale della mia sensazione, ma essa è immediatamente fatta dipendere da quella formale dell’intelletto (spazio, tempo, causalità) e ad essa ascritta. Le qualità delle sensazioni sono già subito trasposte nell’intuizione a priori dello spazio. Come detto, la conoscenza trascendentale è un processo immediato. Lo spazio e il tempo sono forme, substrato comune a tutte le sensazioni provate. L’intelletto opera con le sue forme a priori, ma manca del tutto la comprensione di questo processo, di ciò che in effetti avviene.

Schopenhauer rileva che anche nella vita quotidiana ci si ritrova spesso a provare sensazioni inspiegabili, incomprensibili. L’intelletto opera una sintesi con spazio e tempo dell’oggetto di percezione, che viene “spazio-temporalizzato” come causa delle sensazioni. Nello spazio, ogni punto è causa e condizione dell’altro, così come ogni istante del tempo: spazio e tempo si fondano quindi sul principio di causalità e ne sono espressione. Fra luoghi e istanti vi è una CONTINUITÀ CAUSALE che viene trasmessa alle rappresentazioni sensibili, inserite nelle forme di spazio e tempo.

La nostra conoscenza inizia come conoscenza intuitiva, sensibile, cioè basata sulle intuizioni sensibili che ci si ritrova ad avere del mondo circostante. Non è propriamente conoscenza, se per essa intendiamo sapere: ne è piuttosto preambolo e fondamento.

La conoscenza intuitiva è l’aver presente gli oggetti fisici che costituiscono il mondo, è il loro mero percepirli come esistenti nello spazio e nel tempo, che abbiamo in comune con gli animali.

Il sapere interviene in un secondo tempo sulla base della consapevolezza del mondo: prende gli oggetti percepiti, li nomina, riflette su di essi, li definisce, li raffronta, ne evidenzia i rapporti, ipotizza e congettura su di essi.

La conoscenza intuitiva non è mero rispecchiamento passivo del soggetto conoscente del mondo, non è indipendente da lui: il mondo non esiste indipendentemente da lui. La stessa conoscenza è opera del soggetto conoscente, che, a partire dalla molteplicità di sensazioni grezze, brute, puntuali, singole, si rappresenta e configura come esistenti nello spazio fuori da sé e nel tempo gli oggetti corrispondenti a tali sensazioni.

Le nostre sensazioni sono composte, oltre che di un vario contenuto a posteriori (ciò che è giallo, rosso, liscio, ruvido, ecc.) che le differenzia e che ci ritroviamo a percepire in noi, anche di forme e modalità a priori del nostro conoscere, cioè spazio, tempo e causalità, le quali strutturano e sintetizzano le stesse sensazioni varie e molteplici mettendo capo, alla fine di questo processo di sintesi inconsapevole e istantaneo, a quell’oggetto cui le sensazioni corrispondono e che noi percepiamo come causa fuori di noi, nello spazio, di quelle molteplici sensazioni. Siamo in presenza di un mondo di oggetti esterni, che sembrano farsi conoscere da noi mediante le sensazioni che in noi producono ma che in realtà siamo noi a costruirci come tali, a rappresentarci come enti spazio-temporali. Questo perché l’intelletto , con le sue forme a priori, è già sempre presente e attivo nel nostro percepire e trasforma le sensazioni nel mondo spazio-temporale che ci sta innanzi.

Avviene allora che determinate sensazioni in determinate situazioni si risolvono nella rappresentazione di determinati oggetti: una molteplicità di sensazioni, come “giallo, rosso, profumato, ecc.”, è riferita a quel dato oggetto, a quella rosa gialla, o rossa, profumata che è rappresentazione finale della spazio-temporalizzazione di quelle date sensazioni da parte dell’intelletto. Le sensazioni, prese nella loro individualità e sottoposte ad analisi logica, risultano diverse da soggetto a soggetto: solo nel momento in cui sono organizzate dalle forme a priori vengono oggettualizzate, sono commutate in intuizioni obbiettive. Ma in realtà, come detto, tutto ciò è un processo pressoché istantaneo, senza quasi soluzione di continuità. In altre parole, è solo un’ipotesi teorica quella di una specifica, singola e soggettiva sensazione: essa è estrapolabile dal processo globale solo in sede di analisi logica.

La sensazione è vista dall’intelletto come effetto di una certa causa, l’oggetto esterno; poi, con la forma dello spazio, essa viene posta al di fuori del soggetto in una dimensione apparentemente altra da noi, una dimensione spaziale e temporale. Ma questo non è un processo logico-analitico, è in realtà una pura intuizione.

Fino a questo punto della sua argomentazione, Schopenhauer ha seguito abbastanza fedelmente la linea di Kant, anche se quest’ultimo non prevedeva un intervento dell’intelletto nel processo intuitivo. Diverge da Kant, invece, quando si chiede da dove le sensazioni giungano fino a noi: per il filosofo di Königsberg, esse ci sono date dai noumeni, in modo tale che oltre le sensazioni esiste un’ulteriore realtà causa proprio di tali sensazioni, una realtà sovrasensibile e inconoscibile. Schopenhauer, come detto, rifiuta questo punto di vista in quanto esso costringe ad applicare indebitamente il principio di causalità; ma il rifiuto radicale della prospettiva kantiana conduce inevitabilmente all’estremo opposto dell’ “esse est percipi” di Berkeley, secondo cui gli oggetti sono soltanto nostre rappresentazioni e non esistono di per sé.

Pur criticando Kant, Schopenhauer non arriva a Berkeley: egli è convinto che il mondo non si riduca al suo mero esser rappresentato, ma che sia in sé qualcosa di reale, cioè qualcosa di più della semplice rappresentazione. La rappresentazione non è certo inesistente, ha semmai una realtà “relativa”.

Il discorso sulla cosa in sé resta quindi aperto, ma in maniera diversa da Kant: essa non può essere causa delle sensazioni. Cosa induce Schopenhauer a mantenere aperto il problema del noumeno? È la natura del contenuto, vario e molteplice, della nostra conoscenza intuitiva: in essa è presente qualcosa che non pare deducibile dalle condizioni del nostro conoscere e che sembra irriducibile al soggetto conoscente stesso.

Gli oggetti che ci rappresentiamo dipendono dalle condizioni del nostro conoscere: gli aspetti della validità necessaria della conoscenza non possono dipendere solo da apprendimento empirico; sono semmai il frutto della struttura a priori con cui il soggetto conosce.

«La rappresentazione contiene due elementi, uno a priori, l’altro solo a posteriori; in ogni cosa resta la distinzione fra conoscibile a priori e conoscibile a posteriori. Quest’ultimo è la traccia della cosa in sé. Si può quindi concludere circa la reale esistenza di un reale contenuto in sé del fenomeno indipendente dalla rappresentazione; questo perché al conoscibile a priori è mescolato l’a posteriori, il quale non appartiene al nostro intelletto in quanto tale, e quindi sussiste indipendentemente da esso».

Se l’essere degli oggetti si riducesse al loro essere percepiti, allora il soggetto dovrebbe poterli dedurre da se stesso: se il suo conoscerli fosse tutto il loro essere, il soggetto dovrebbe poterlo spiegare unicamente a partire da sé. Ma essi non si possono spiegare dal conoscere che li conosce: avviene invece che il soggetto ha percezioni cui corrispondono determinazioni esterne, e questo induce a pensare che gli oggetti rappresentati non si riducano al loro mero esser rappresentati.

Accanto alle rappresentazioni che sono per il soggetto, gli oggetti sono in sé qualcosa d’altro dal loro esser rappresentazioni, qualcosa d’altro che è simultaneamente la rappresentazione che il soggetto ne ha. L’oggetto è oggetto rappresentato, ma al contempo qualcosa d’altro. Ciò detto, si capisce perché Schopenhauer dice che l’a posteriori rimanda all’in sé; non si tratta di prova cogente, ma solo di indizio. È solo una traccia perché, se potessimo dedurre tutto l’oggetto rappresentato dal soggetto conoscente, potremmo dire che tutto l’oggetto si riduce alla sua rappresentazione, ma non possiamo farlo, anche se non lo possiamo escludere; l’indizio della cosa in sé è proprio la percezione a posteriori, che però è del soggetto conoscente e all’interno del soggetto stesso. Essa resta senza spiegazione, quindi rimanda a qualcosa d’altro, ma ciò non toglie che, anche se non spiegabile del tutto, non esaurisca del tutto l’oggetto in sé. Insomma, l’oggetto sembra essere qualcosa di autonomo, ma non è detto che invece non si riduca interamente al fatto di percepirlo. L’intero mondo potrebbe ridursi alle sue rappresentazioni.

Ma quest’ipotesi va subito rimossa: noi possiamo continuare a riflettere sull’in sé delle cose proprio in forza di quella componente a posteriori delle sensazioni che ne è traccia. Possiamo benissimo servirci del principio di causalità, anche se è impossibile sapere se esista una causa efficiente o finale del mondo: tale principio si interessa dei rapporti fra fenomeni, non dei fenomeni in sé.

La filosofia si è chiesta come il mondo sia rappresentato, e con Kant l’ha spiegato; ora bisogna chiedersi cosa sia l’oggetto della rappresentazione, cosa sia il mondo.

Un altro problema è capire cosa sta alla base del processo conoscitivo. Perché le cose sono rappresentate così e non diversamente? Perché il processo rappresentativo funziona proprio così? Quest’ultimo dubbio è insolubile: non posso avvalermi del mio conoscere se l’oggetto è il conoscere stesso. Non posso uscire dal conoscere per poi scoprire perché conosco: il soggetto non può avere se stesso come oggetto.

Tutte queste argomentazioni non sono solo di ordine gnoseologico, non riguardano solo il percepire, rappresentare e conoscere l’oggetto, sono anche di altro genere. Possiamo capire perché conosciamo, dice Schopenhauer, grazie a un MIRACOLO, a una profonda conoscenza dell’in sé. Per conoscere il perché del conoscere non ci si può avvalere del conoscere stesso: occorre altro.

Siamo qui giunti alla vera e propria CHIAVE DI VOLTA del pensiero di Schopenhauer.

 

 


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