LA VOLONTA' |
Occorre fare un passo indietro: finora si è astratto e sezionato quella realtà composita che è l’Io, e precisamente il suo essere soggetto conoscente. Si è capito che l’Io non è solo soggetto conoscente il mondo, ma è anche qualcosa d’altro: è proprio su questo complesso ALTRO che Schopenhauer pone l’accento.
Accanto alle percezioni sensibili esterne, abbiamo anche percezioni del senso o sentimento interno. In entrambi i casi si tratta di percezioni soggettive, ma esse mettono capo a due risultati diversi. Le prime a quel non-Io che è l’oggetto spazializzato, le seconde appartengono all’autocoscienza e la costituiscono. Ad esempio, il colore rosso è percezione esterna e qualità dell’oggetto che agisce su di noi; la gioia, invece, è un fatto soggettivo che riguarda precipuamente me stesso: è come se io percepissi me stesso come gioia. Nel I caso la percezione mi pone in relazione con qualcosa che io non sono, nel II caso immediatamente con me stesso.
«Tutto ciò che è oggettivo è per noi sempre mediato, solo il soggettivo è l’immediato. Ciò non va sottovalutato, ma deve anzi costituire il punto di partenza».
Schopenhauer afferma che nel soggetto conoscente sono presenti due tipi elementari di percezioni conoscitive: uno è la molteplice varietà con cui il soggetto si rappresenta gli oggetti fisici del mondo (“percezione dell’oggetto esterno”); l’altro è la molteplice varietà del sentire interiore, cioè l’autocoscienza dell’Io.
L’oggettivo è mediato: gli oggetti esterni sono rappresentati attraverso la mediazione delle varie percezioni sensibili del senso esterno. La mia percezione soggettiva è il tramite dell’altro da me. Il sentire soggettivo è invece immediata auto-percezione da parte del soggetto di se stesso, immediata presenza del senziente a sé, in modo che esso già si sente subito come ciò che sente (“sentire la gioia equivale a sentirsi gioia”).
Nel sentire interiore, cioè, le varie percezioni non vanno a formare una rappresentazione dell’oggetto esterno, ma sono l’immediata autocoscienza del soggetto senziente, la sua immediata presenza a se stesso. È l’irruzione della coscienza della realtà dell’essere che non è rappresentazione, è altro: io non mi rappresento un oggetto, ma sento, vivo, sono una realtà diversa da quella del mio rappresentare. Quella realtà è l’essere dell’Io percepito immantinente come gioia o come dolore: è un aspetto dell’Io stesso di cui l’Io si fa cosciente nell’atto stesso del processo di conoscenza. «Ecco cosa sono, io sono questo». In questa coscienza immediata, come si coglie l’Io? Ma come VOLONTÀ! Egli sa di essere non soltanto soggetto conoscente, ma anche volontà.
Quando ognuno di noi dice “Io”, considera se stesso innanzitutto come volontà, da intendersi però in senso lato.
«La parte più ampia della coscienza nella sua totalità non è l’autocoscienza ma è quella delle altre cose, la facoltà conoscitiva, diretta con tutte le forze verso l’esterno. La conoscenza razionale è la combinazione dei concetti con l’aiuto delle parole»
Il resto, l’autocoscienza, è un “conoscersi come volente”: il suo contenuto è sempre il nostro volere. Per “volere” non si intendono le volizioni precise che passano subito all’atto, ma chiunque sappia cogliere l’essenziale delle cose e le modificazioni del loro essere, non esiterà ad inserirvi le modificazioni del volere (“tendere, desiderare, sperare, augurarsi, amare…” e tutti i loro contrari), cioè le PASSIONI. Le passioni sono movimenti più o meno forti della volontà. Tutte queste affezioni sono legate al conseguimento o meno del nostro oggetto di desiderio.
La volontà è, quindi, non solo determinazione ad agire, ma anche tutti i vari moti dell’animo che precedono tale decisione. I vari sentimenti sono il ventaglio infinito dei modi di provare piacere o dolore, ma sono tutti riconducibili, in ultima istanza, al godere o al soffrire, dunque alla volontà. La volontà si sente soddisfatta o no, e a ciò è riconducibile tutta l’infinita gamma dei sentimenti.
L’autocoscienza è immediata percezione della realtà che si è, percepita come volontà in senso lato. Mentre gli oggetti esterni appaiono estranei al soggetto che se li rappresenta, i moti dell’animo sono sentiti come facenti intrinsecamente parte del proprio essere. Ciò significa che, nella nostra coscienza, in realtà, l’Io si palesa essenzialmente come volontà: «Io sono la molteplicità infinita di tutti i miei voleri», è la volontà a costituire il mio Io.
L’autocoscienza di sé come volontà è il PRIUS della coscienza come conoscenza del mondo esterno; a riempire, dare fondamento, consistenza e continuità alla coscienza è il suo essere volontà. Il volere è base e sostegno della coscienza.
Ciò che dà alla coscienza unità e coesione in quanto attraversa tutte le nostre rappresentazioni è la volontà: essa riunisce i nostri pensieri e ne costituisce la nota fondamentale, il basso continuo. Senza la volontà, l’intelletto non avrebbe più unità di coscienza di uno specchio, dove si riflette ora questo, ora quello; è l’Io volente a dare unità e senso all’Io senziente. La volontà sola è l’elemento permanente e immutabile che unifica le rappresentazioni come mezzi a certi fini della coscienza e che li “tinge di certi colori”. Il rappresentare non è mai neutro, ha sempre un certo carattere, una disposizione, un interesse che domina l’attenzione, l’attenzione richiede sforzo, deve essere voluta. L’attenzione, quindi la volontà, costituiscono anche la memoria, il collegare fra loro i pensieri (spesso si dice:“Ho un vivo ricordo delle cose piacevoli, dimentico ciò che non mi piace ricordare”).
La volontà è presente tutte le volte che si dice “Io” ed è l’unica vera unità della coscienza, il legame delle sue funzioni e dei suoi atti. Essa non appartiene all’intelletto ma è sorgente e lo domina.
Schopenhauer formula così il PRIMATO DELLA VOLONTÀ SULL’INTELLETTO. Il conoscere è subordinato alla volontà; l’Io è insieme di volontà e conoscenza proprio perché è VOLONTÀ DI CONOSCERE. È la volontà che stimola, guida, nutre il conoscere con il suo interessamento: si dice, infatti, “appassionarsi alla conoscenza di qualcosa”. Il conoscere ha sempre una natura interessata: è sempre condizionato dagli interessi del soggetto conoscente che, proprio in quanto tale, è anche soggetto volente.
Il conoscere è sempre manipolabile dagli interessi della volontà: è questa la formulazione della soggettività di ogni conoscere, è ciò che Marx definirà il “carattere ideologico” delle discipline del sapere (religione, diritto, ecc. hanno sempre un interesse nascosto).
Schopenhauer palesa qui quanto sia influenzato da autori come Machiavelli e Hobbes, ma anche la grande eredità lasciata ai cosiddetti “maestri del sospetto”, Nietzsche, Marx e Freud.
In un primo tempo, dunque, Schopenhauer è attento al nostro conoscere gli oggetti esterni, poi si volge alla nostra coscienza come volontà. Il soggetto conosce l’altro da sé, il non-Io, e si conosce, si sa come soggetto di volontà, di volizioni, e come sottomesso a esso.
Il soggetto è quindi una problematica unità di soggetto conoscente e volente: la problematicità risiede nella domanda “chi sono io?”. Il soggetto conoscente risponde:”Io sono volente, e sono conoscente solo in quanto voglio”. Il soggetto sa di essere altro dal mero conoscere e di essere tutt’uno con questo, con il volere, e di dipenderne. Egli, come detto, non è in grado di conoscersi come conoscente, come soggettività; ma, grazie alla riflessione trascendentale, sa come conosce. Questa opacità non intacca però minimamente il nostro conoscerci come soggetti volenti.
Fin qui non abbiamo ancora scoperto nulla dell’in sé degli oggetti rappresentati; ma, conoscendo la volontà, vediamo non solo la sua diversità dagli oggetti rappresentati, ma il suo essere tutt’uno con il nostro corpo ed essere l’in sé di esso.
Il mio corpo, per me soggetto conoscente, è una rappresentazione come le altre, è oggetto fra oggetti: dalle sensazioni ne elaboro la rappresentazione. Al tempo stesso, mi accorgo del mio corpo anche dall’interno, perché scopro un’assoluta simultanea identità fra volontà e movimenti del mio corpo.
«Al soggetto del conoscere, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: una volta come rappresentazione nell’intuizione intellettuale, come oggetto fra gli oggetti sottoposto alle leggi di questi ultimi. Ma simultaneamente anche in modo affatto diverso, e cioè come quel qualcosa immediatamente noto a noi tutti che va sotto il nome di volontà».
«Quando muovo un qualsivoglia membro del mio corpo, la mano o il piede, questo processo, se considerato esteriormente, va inteso come mutamento corporeo all’interno di spazio, tempo e causalità, se interiormente, come volere».
OSSERVAZIONI: siamo ancora in presenza di un’esperienza immediata e immediatamente evidente a tutti purchè le si presti attenzione, semplicemente ampliata sino a comprendere il corpo come unità psicofisica. Non è un ragionamento, una dimostrazione, ma un sentire che investe il tutt’uno che si è con il proprio corpo. Sentirci come volontà è sentire il nostro corpo come qualcosa d’altro, di diverso, come una forza, come la nostra volontà. Schopenhauer si riferisce all’esperienza estatica di essere un’unica forza, un’unione inscindibile con il nostro corpo dalla volontà ai muscoli.
Fondamentale, poi, in questa esperienza, è la coincidenza, la simultaneità tra interno ed esterno: non c’è relazione causale, la volontà non è causa e il corpo effetto. Ciò che io riconosco come volontà è assolutamente tutt’uno con il corpo, nella misura in cui io non posso volere realmente nessun atto del mio corpo senza percepirlo all’istante eseguito dal corpo stesso. Sicchè, ciò che percepisco in due modi diversi, atto della volontà e atto del corpo, sono la stessa cosa. Questa simultaneità appare chiaramente nella direzione opposta, a riprova che il corpo non è che volontà oggettivata: ogni azione prodotta dall’esterno sul mio corpo è percepita anche come azione sulla mia volontà, come piacere o dolore. Le percezioni di piacere e dolore sono subito collegate a percezioni di soddisfazione o insoddisfazione della volontà. Schopenhauer fa a questo proposito esempi rientranti nella sfera psicosomatica:«la paura fa tremare e impallidire il corpo, l’ira fa arrossare il viso, la vergogna lo rende esangue».
«L’azione del corpo non è altro che l’atto della volontà penetrata nell’intuizione in quanto oggettivata, divenuta oggetto. La mia volontà è anche simultaneamente quelle mie percezioni sensibili a partire dalle quali io mi rappresento la corrispondente azione del mio corpo» (in altre parole, la volontà è allo stesso tempo la rappresentazione oggettiva che io ne ho).
La domanda fatta all’inizio era: da dove vengono le rappresentazioni che troviamo in noi? Kant rispondeva dalle cose in sé, Schopenhauer ora può dire che sono MODIFICAZIONI della nostra volontà che da sempre le è, per cui esse la rappresentano. Sono la mia volontà fattasi visibile, udibile, sentibile, toccabile. Essa però non ne è la causa: le sensazioni sono la volontà in altra forma. L’IN SÉ DEL MIO CORPO È DUNQUE LA VOLONTÀ. Il mio corpo non è solo mera rappresentazione, è anche qualcosa d’altro.
Il principio di Berkeley è finalmente confutato: non più “esse est percipi”, ma “esse est voluntas”.
Questa esperienza è il MIRACOLO, è “l’Apriti Sesamo” che ci spalanca la verità filosofica, è la VERITÀ FILOSOFICA ULTIMA.
Ad essa si possono dare più espressioni:«il mio corpo e la mia volontà sono la stessa cosa», «ciò che io chiamo corpo tramite le rappresentazioni lo chiamo per altra via volontà», «il corpo è volontà oggettivata»,«il mio corpo, una volta astratto dalle proprietà della rappresentazione, è volontà».
Ogni modificazione del nostro corpo è simultaneamente modificazione della nostra volontà: è un’esperienza comunissima, non certo ascetica o iniziatica.
Schopenhauer sembra alludere solo ai moti del corpo volontari. E quelli involontari? Tutto il corpo è manifestazione della volontà, del suo sforzo di essere se stessa; i moti involontari sono anch’essi volontà, tant’è vero che possono anche diventare volontari. La nostra pupilla si restringe per reazione alla troppa luce, ma anche quando noi vogliamo vedere da vicino, e si dilata quando ci sforziamo di vedere lontano. Diremo forse che ciò che una volta è volontà, l’altra non lo è? Ancora: nel linguaggio comune si intende per volontà la scelta, la decisione, l’arbitrio. Questi sono aspetti della volontà che non la esauriscono: sono una specie particolare di volontà, quella motivata, illuminata dalla conoscenza che, di fronte a vari motivi, pondera quale sia il migliore. Di qui la tendenza a identificare tutta la volontà con quest’aspetto; ma la volontà dotata di raziocinio non è tutta la volontà. Noi stessi la sperimentiamo con forza onnipervadente: non è solo l’insieme delle mie decisioni, ma anche delle emozioni, pulsioni, bisogni che ognuno si ritrova sempre a bramare. Questa è la VOLONTÀ RADICALE, di cui le varie volontà sono solo specificazioni. La volontà è ciò che ci ritroviamo a essere al di là delle singole decisioni; il fatto che noi vogliamo non è frutto di una scelta, è una situazione in cui ci ritroviamo. È la volontà fondamentale immutabile, di cui tutto il corpo è oggettivazione; essa vuole se stessa prima ancora che noi vogliamo deliberando questo o quello, e proprio per questo è fondamento d’ogni singolo volere. Il corpo è quello che ci ritroviamo ad avere e che è quello che è.
Lo sforzo può essere più o meno efficace, più o meno riuscito, e da esso dipende lo stato e la durata del corpo. Un paralitico, ad esempio, delibera di muoversi ma non può farlo: la sua volontà è impedita. Ogni danno del corpo è un danno per la volontà, che si trova impedita a essere ciò che avrebbe voluto essere.
Schopenhauer non ritiene di poter spiegare perché le cose stiano così, ma solo descrivere come effettivamente sono. C’è in lui permanente oscillazione tra il punto di vista trascendentale finito kantiano e l’istanza metafisica che lo spinge a comprendere la struttura del reale. Ma la metafisica spiega cos’è il mondo, non perché sia così.
La volontà è dunque l’in sé della rappresentazione del mio corpo. Intuirla è un modo di conoscere diversissimo dal processo razionale di rappresentazione.
La volontà è realtà sentita, vissuta, non rappresentata, ma essa condivide alcune caratteristiche con la rappresentazione: alcune categorie del conoscere trascendentale sono mantenute.
Non vi sono le forme dello spazio e della causalità, restano però il tempo e la distinzione fra conoscente e conosciuto (non possiamo dire fra soggetto e oggetto: la volontà, infatti, non è oggetto di conoscenza).
«In questa conoscenza interiore, pertanto, la cosa in sé è spogliata in gran parte del proprio velo ma non appare ancora del tutto nuda».
Le percezioni elementari sono l’immediato esserci di noi stessi come volontà, non danno luogo a rappresentazioni. La causalità entra in gioco quando la volontà è motivata, ma i motivi determinano la volontà solo per ciò che desideriamo in date circostanze puntuali, non il nostro generico volere e ciò che in generale vogliamo.
Ogni volizione motivata va sempre inscritta in quel generale nostro volere noi stessi. Non si può spiegare tutta la volontà a partire dai motivi: essi ne determinano la manifestazione solo in un certo momento del tempo. La volontà sta al di là dell’ambito della motivazione. È inutile chiedersi perché vogliamo: non c’è spiegazione. Il volere precede ogni mia scelta e viene da me percepito come il mio Io.
La distinzione conoscente/conosciuto rimane, ma ridotta in modo peculiare:«la volontà si manifesta nella coscienza in maniera immediata, tale che in essa conoscente e conosciuto non si distinguono del tutto chiaramente». L’autocoscienza è caratterizzata per un verso da una conoscenza immediata, cioè l’Io conoscente, per l’altro da opacità, perché l’Io coincide con la volontà che non è né conoscente né conosciuto.
La coscienza della volontà è qualcosa di totalmente altro dal rappresentare: alla fine rimane l’immediatezza dell’evidenza della sua esistenza. È un’evidenza immediata in cui le forme a priori non entrano, ne restano solo tracce che però non minano tale immediatezza. Un conto è la rappresentazione dell’oggetto esterno, un altro il processo immediato ed evidente che ognuno ha di sé. Quindi noi non ci rappresentiamo la volontà, lo siamo.
Cassirer critica Schopenhauer dicendo che egli prima mantiene l’inconoscibilità dell’in sé, poi ne stabilisce invece la conoscibilità, dimostrando così di non aver ben colto il suo stesso punto di vista iniziale di origine kantiana. Schopenhauer, però, non parla di conoscenza rappresentativa: farsi cosciente della volontà è un’intuizione immediata, non una normale conoscenza categoriale.
La volontà è qualcosa di così immediatamente conosciuto e noto che noi capiamo cosa sia molto meglio di qualsiasi altra cosa; negare tale evidenza significa privarsi della conoscenza del mondo e di noi stessi nel nostro essere volontà di conoscere.