LA NATURA E IL MONDO |
Fin qui abbiamo solo scoperto cosa sia l’in sé del mio corpo: è fenomeno della mia volontà, è qualcosa di soltanto mio. Anche gli altri oggetti da me rappresentati sono meri fantasmi che io mi costruisco? Il mondo che ci rappresentiamo è reale?
Con Schopenhauer non si sono ancora superati né l’egoismo teoretico, né quello pratico: il primo, la prospettiva di Berkeley, è subito liquidato come prospettiva schizofrenica confutata dall’innegabile simpatia che ci lega agli altri corpi. Rimane però il secondo: esso è la naturale tendenza a rimarcare la sola realtà del nostro Io (“Io sono Io, poi eventualmente ci sono gli altri e tutto il resto”).Gli altri sono più o meno dei fantasmi. Quest’egoismo pratico è subito smentito dall’incontro con altri più forti di noi che ci persuadono subito di non essere affatto meri fantasmi!
Gli altri, proprio perché non sono Io, sono un po’meno di me; quest’egoismo si è sviluppato, nella nostra cultura, in certe particolari dottrine. Aristotele, ad esempio, presenta schiavi e donne come esseri inferiori. Cartesio considera gli animali come macchine, meri meccanismi da usare come meglio crediamo: il pensarli simili a noi è soltanto una nostra idea immaginaria.
Le donne, in molte culture, sono come fantasmi di natura inferiore all’uomo; ve ne sono modelli positivi e negativi. Il modello negativo è quello della seduttrice, della strega, dell’inviata di satana che conduce l’uomo alla perdizione, lo corrompe.
Il modello positivo è quello delle donne angelicate, delle beate, dei fantasmi trasfigurati che beatificano e salvano le anime.
In entrambi i casi, positivo e negativo, le donne non contano mai di per sé: sono delle mediatrici attraverso cui l’uomo, sempre protagonista, accede alla dannazione o alla beatitudine. Beatrice giunge in terra “a miracol mostrare”. Le beate sono giovanissime e destinate a morte precoce: sono solo incarnazioni angeliche, rappresentano altro da sé.
Beatrice e Laura acquisiscono vero valore solo dopo la morte, in quanto ambasciatrici: il vero oggetto dei poeti e degli amanti in generale, quindi, non sono le donne, bensì il divino.
Le donne amate muoiono sempre precocemente per far capire all’uomo che l’amore provato nei loro confronti non è realizzabile sulla terra: esso va tramutato in amore ultraterreno. In uno dei Dialoghi di Giordano Bruno, una donna afferma che la sua vera fortuna non è quella di esser nata bella, ma di svelare con la propria la vera bellezza, la bellezza intelligibile. La sua incapacità di amare in quanto troppo giovane ha fatto sì che i suoi amanti realizzassero la vera natura, soprasensibile, del loro amore. L’amore terreno che suscitano queste giovani donne non può che essere infelice, ma è felice in quanto ultraterreno.
Tornando a Schopenhauer, gli oggetti della mia rappresentazione hanno realtà in sé, allora? E poi, si possono paragonare a me per analogia e considerare anch’essi volontà?
«Nessuno negherà che conosciamo e vogliamo; sì invece che tutto ciò che conosciamo sia pura volontà; tuttavia ciò è quello che viene immediatamente dato nel microcosmo. Il corpo può essere detto rappresentazione, e sotto questo aspetto è conoscenza, ma è anche volontà, sforzo di essere in un certo modo, il quale sforzo si manifesta come benessere o dolore. Il mondo è tutto rappresentazione e tutto volontà».
La mia volontà fondamentale è sforzo di esser qualcosa in un certo modo; Schopenhauer ne sottolinea la natura dolorosa.
La certezza che ho del doppio carattere del mio corpo va accomunata per analogia agli altri enti. Questo è l’unico modo che abbiamo per comprenderli; inoltre, tale analogia è assai convincente e persuasiva. Se il mondo deve essere più che rappresentazione, allora deve essere anche volontà, quella stessa che colgo immediatamente in me. Così come io sono per me stesso oggetto come volontà, io devo ritenere gli altri corpi, nella misura in cui essi sono oggetti per me, volontà e voleri volenti in sé.
Nella mia esperienza interiore si palesa più chiaramente la realtà dell’oggettività: qui vi è la chiave per capire cosa sia il mondo.
La validità di una dimostrazione sta non tanto nella sua puntualità, quanto nel suo carattere generalmente persuasivo. È in gioco la superiore capacità del vero filosofo di avere, di farsi delle visioni del mondo. L’importante non è tanto capire razionalmente la dimostrazione dell’analogia, quanto l’intuire, il cogliere questa volontà che pervade la natura. Bisogna capire che gli altri sono nella mia stessa situazione, hanno gli stessi piaceri e dolori. La forza della prova è la capacità di fornire un’interpretazione esauriente e persuasiva del tutto.
«La fame dei miei simili, il grido dell’animale, il peso di un oggetto mi sono chiari in sé solo se trasferisco ad essi analogicamente il contenuto della mia coscienza: microcosmo e macrocosmo vengono a coincidere. L’analogia trova il vero in tutti i suoi aspetti e riesce a conciliarli, ha grandi potenzialità euristiche»
«La decifrazione del mondo deve trovare in se stessa la sua compiuta conferma, deve diffondere una luce uniforme su tutti i fenomeni e accordare fra loro anche i più eterogenei. Questa conferma a partire da se stessa è il segno della sua autenticità».
L’analogia supera l’egoismo teoretico: fa vedere il mondo come insieme di volontà e non di mere rappresentazioni. Elimina anche l’egoismo pratico di diritto, anche se non di fatto.
Il soggetto conoscente trova in sé un’infinità di percezioni soggettive, tutte sue: sono affezioni della soggettività. La cosa in sé non può essere intesa come causa di esse. La scoperta della mia volontà come in sé del mio corpo porta alle seguenti conclusioni: la volontà è allo stesso tempo volontà che io sono e, simultaneamente diventandole, quelle percezioni che rappresentano il corpo attraverso le quali essa si oggettiva. Se gli oggetti esterni sono anch’essi volontà, quelle mie soggettive percezioni non sono affatto altre volontà, ma sono quelle volontà stesse nell’atto di farsi simultaneamente il molteplice e differenziato contenuto delle mie percezioni di quegli oggetti.
Le percezioni sono la mia (per il mio corpo) e le altre volontà nell’atto di farsi oggetto del mio percepire, sono l’essere per me delle varie volontà. I dati ultimi del mio conoscere, i corpi, sono i contenuti delle percezioni e delle affezioni? Certo che no: sono la mia e le altre volontà che così si modificano facendosi conoscere come corpi. Esse diventano percezioni con cui io me le costruisco.
Quindi, le altre volontà non agiscono dall’esterno sui miei sensi, ma sono esse stesse il contenuto delle mie percezioni.
Non è il mio corpo che impressiona i miei e i vostri sensi, ma la mia volontà è contenuto simultaneo delle mie e delle vostre impressioni. Ecco perché io appaio a me e agli altri sostanzialmente identico in tutti: la volontà che si oggettiva è la stessa in tutti. Questa è la MAGIA della volontà, che si impossessa della conoscenza DIVENTANDONE LE SENSAZIONI.
Questo altro corpo è dunque una volontà analoga alla mia che io mi rappresento come mi rappresento il mio corpo e che si fa le mie sensazioni. Io non mi trovo ristretto nelle mie percezioni, ma immerso in una molteplicità di volontà analoghe alla mia, che mi si fanno conoscere come la molteplicità dei corpi che mi rappresento.
Quindi non vi sono due mondi, questo e un altro mondo. L’in sé non è una realtà altra, trascendente, e nemmeno è causa dei fenomeni. Vi è un’unica volontà che ha due diversi modi d’essere. Lo stesso mondo E’ VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE (ecco il titolo : “ Il mondo come volontà e rappresentazione “, dove la “e” non ha solo valore coordinante, ma segnala IDENTITÀ e SIMULTANEITÀ).
L’analogia è così evidente che ciò che vale per il mio, vale anche per tutti gli altri corpi, umani, animali, vegetali, organici e persino inorganici, stante le somiglianze che questi presentano con la vita organica. L’ago della bussola, le precipitazioni chimiche, ecc. sono anch’essi manifestazioni di un tendere, di uno sforzo, di una volontà. Tutti i corpi sono fenomeni della volontà, e anche quelli inorganici si fanno interpretare in tal modo ( si pensi alla gravitazione, coesione, impenetrabilità, ecc…).
La manifestazione infima e universale della volontà è la GRAVITÀ, perciò definita “ forza fondamentale della materia “. L’attrarsi dei pianeti è analogo all’attrarsi delle volontà : ad esempio, il fascino di una persona, il suo essere magnetica, l’IPNOSI, l’innamoramento o il plagio di una volontà ad opera di un’altra. Come non vedere un’analogia con tutto ciò? In natura, vi è l’esempio del serpente che ipnotizza le sue vittime e le costringe a entrare nelle sue fauci.
Tutti gli altri corpi sono assolutamente identici a ciò che troviamo in noi come volontà.
Chiaramente c’è una grande differenza fra la volontà della natura inanimata, cieca, e quella animale; ma non è una differenza di natura ontologica, bensì solo modale. E’ un variare di grado nella scala della volontà in generale; essa,certo, è capace di molteplici e diverse oggettivazioni, possiede vari gradi di manifestazione, ma il suo essere sforzo e persistenza non varia mai.
L’analogia riporta alla ribalta la questione del rapporto tra volontà e conoscenza. La VERITÀ PRIMA, la metafisica della filosofia di Schopenhauer, è quell’in sé che a noi è immediatamente noto, quella volontà che subito percepiamo. La volontà è assolutamente indipendente dalla conoscenza, che è qualcosa di secondario e posteriore: pertanto, la volontà si può manifestare senza il conoscere, come del resto avviene in natura. La volontà è il PRIUS della conoscenza, è il nucleo dell’essere che ne consente la preservazione. È l’unico vero AUTOMATON (cioè un qualcosa che sussiste da sé). Non è però una grandezza ignota, è la più positiva delle conoscenze positive, è la realtà a noi più nota, siamo noi nel nostro aspetto più intimo. Togliendo la volontà, infatti, cosa resta dell’Io?
La volontà è essenza identica in tutti i corpi; noi la conosciamo proprio grazie ai movimenti del nostro corpo. È la cosa in sé nella misura in cui ci è accessibile.
La molteplicità del reale è incontro-scontro di volontà in conflitto fra loro; questa è la grande intuizione di Schopenhauer. Si può aderire alla sua intuizione senza aderire al suo sistema; ciò non significa che vi sia per questo una frattura fra i due, ma che una simile intuizione ha tale forza e fondamento da poter tranquillamente vivere di vita propria, senza bisogno di esplicarsi in chiarificazioni concettuali.
Tolstoj, ad esempio, si ispira a quest’intuizione per la sua teoria della NON-VIOLENZA, senza però inoltrarsi nel sistema vero e proprio di Schopenhauer.
Proprio il fatto che sia possibile separare quest’intuizione dal sistema e assumerla separatamente spiega la grande fortuna che ha avuto Schopenhauer nel corso del XIX secolo. Il suo pensiero, però, rischia facilmente, come in effetti è avvenuto, di degenerare in un generico pessimismo più teorizzato e decantato che non praticato concretamente: si pensi a movimenti letterari quali il Decadentismo. Quindi, l’intuizione, se estrapolata dal sistema, rischia di uscirne banalizzata.
È curioso notare come, di fronte alla decadenza di tutta una serie di derivazioni filosofiche di uno schopenhauerismo ormai, come detto, corrotto e degenerato, il filosofo marxista Georgy Lukàcs avesse sarcasticamente commentato:“Pare di vedere un grand hotel sull’orlo dell’abisso”.