LA VOLONTA' E LA CONOSCENZA |
Chiedersi il perché del conoscere è un’evidente manifestazione del voler conoscere; il fatto stesso di farsi una simile domanda attesta il venir prima del volere rispetto al conoscere.
La conoscenza è dunque manifestazione della volontà, che si fa essa: il conoscere è un “conoscere del volere” (dove “del” introduce un genitivo soggettivo). È la volontà che, in se stessa, “a un certo punto” (ricordiamo che introdurre elementi temporali è sempre improprio), vuole conoscere, prende a conoscere, si dà il conoscere.
La volontà è volontà, ma a volte anche conoscenza. La conoscenza è un’arma di cui a volte la volontà si munisce per volere, di cui si serve per soddisfare i desideri delle sue obiettivazioni superiori, cioè animale e umana. Essa, in questo modo, vuole a ragion veduta, vuole meglio e di più, non le basta la mera sopravvivenza: il mero sforzarsi, che essa già è, viene raffinato.
La conoscenza in generale scaturisce originariamente dalla volontà, noi siamo volontà e lo siamo anche quando conosciamo. È una specie di meccanismo di cui la volontà si giova alla stregua di qualunque altro organo del corpo per realizzare i propri fini.
L’astuzia della volontà sta proprio nel fatto di avvalersi delle astuzie della ragione. Inganno, falsità, ipocrisia, ecc. sono tutti escamotages di cui la volontà si serve per meglio farsi valere. Il suo è un continuo manipolare la conoscenza.
Schopenhauer ama spesso citare, a tal proposito, una massima di La Rochefoucauld:«L’amor proprio è più abile del più abile uomo di mondo».
L’intelletto prospetta alla volontà il ventaglio dei motivi, dei fini facendola optare per l’uno o per l’altro. Ma allora il conoscere agisce sul volere? Certo che no: sarebbe una conclusione falsa a partire, però, da una premessa vera. Si tratta di una prevalenza solo apparente, voluta dalla volontà stessa, che detta i ritmi di tale influenza. Se a condurre il gioco fosse l’intelletto , la volontà non potrebbe liberamente scegliere fra i motivi, ma dovrebbe assecondare passivamente l’intelletto stesso. Bisogna distinguere fra i motivi che la volontà realmente vuole e quelli fasulli, che sono poi alla base di dissimulazione, menzogna , ipocrisia, ecc.. È una distinzione posta proprio dalla volontà, che la manipola a proprio piacimento. La volontà è sempre presente, non tramonta, non si stanca mai; l’intelletto si sviluppa invece lentamente, attraverso il cervello che è la sua obiettivazione fisica. Esso invecchia, si stanca, si logora, ha spesso bisogno di riposo; la volontà è al contrario sempre attiva, persino nel sogno. È attiva, impaziente, al contrario dell’altro, che pondera, valuta, riflette: spesso lo anticipa. Se dipendesse dall’intelletto, come farebbe allora la volontà a superarlo?
Ancor prima che l’intelletto inizi a svilupparsi, la volontà è già in piena attività, basti pensare ai neonati: in loro non vi ancora alcuna facoltà intellettiva, nessun barlume di raziocinio, ma è già ben vivo l’istinto di sopravvivenza, il desiderio di cibo, la volontà di nutrirsi, che, se insoddisfatta, dà luogo a quei pianti e quegli strilli che tutti conosciamo.
La volontà stimola l’intelletto e ne promuove l’inventiva; l’impeto dei desideri, l’istinto di auto-conservazione sono il motore dell’inventiva. La necessità aguzza l’ingegno e la memoria.
In effetti, ciò che meglio ricordiamo sono i complimenti e le ingiurie, e li ricordiamo molto meglio delle teorie di qualsiasi filosofo. La memorizzazione serve alla volontà, che così rammenta i suoi obiettivi: essa viene così rafforzata. Ma a questo contribuisce anche l’indebolimento della memoria: la rimozione, l’oblio sono un toccasana per la volontà. Quest’ultima interviene a indebolire la memoria là dove ritiene vi siano elementi dolorosi che è meglio cancellare (si pensi agli influssi che tutto ciò avrà sulla teoria psicanalitica della rimozione di Freud).
Se il primato fosse dell’intelletto, poi, non varrebbero le considerazioni dei grandi poeti; dice Ovidio:«Vedo una cosa bella, e la provo, ma poi seguo quella cattiva». Non esiste una reticenza della volontà di fronte all’intelletto: la volontà cieca torna sempre a riemergere e manifesta così la sua anteriorità rispetto all’intelletto stesso. Spesso l’intelletto non riesce a illuminare la volontà perché ci sono “rigurgiti” di volontà cieca, o perché la maggior parte degli uomini non si dota di intelletti adeguati.
Tutto questo è il cosiddetto VOLONTARISMO di Schopenhauer, che capovolge l’INTELLETTUALISMO greco; per quest’ultimo, infatti, la volontà era solo uno dei tanti elementi della ragione, e l’attività umana si riduceva a deliberazione razionale volta al bene, in quanto la certezza era che la volontà riconoscesse sempre l’essere delle cose e il bene, concetti sempre coincidenti. In Schopenhauer, invece, tutto si riduce a volontà, e questo lo si può osservare anche nella pratica.
«È una buona mente ma un cattivo uomo». Una persona incolta non è forse comunque un Io? È molto meglio avere una scarsa intelligenza, ma una volontà buona, che il contrario. «Noi non accusiamo la stoltezza, accusiamo la cattiveria». Spesso, poi, per giustificarsi, si dice: “L’ho fatto in buona fede, non credevo di sbagliare”.
Nel corso della vita si cambiano la propria visione del mondo, le proprie concezioni, ma i tratti della volontà restano quasi immutati. « Le buone qualità morali dei vecchi sopravvivono al declino intellettuale», « La buona volontà trasfigura la pochezza intellettuale», « La buona volontà ravvede anche la bruttezza fisica», « La perfidia oscura l’intelligenza acuta e la più alta bellezza».
Le soddisfazioni morali sono molto più profonde di quelle intellettuali: mettono in pace con se stessi in modo radicale. Tutto ciò che ha che fare con la volontà è radicale.
I sussulti della volontà provocati da una vecchia canzone o dall’ascoltare una persona che non si sentiva da tempo risvegliano i nostri antichi desideri, ci rimettono in presenza del nostro Io profondo, ci fanno capire che non abbiamo mai cessato di volere quella data cosa. Si dice spesso, in simili occasioni, “Mi sono ritrovato, ho ritrovato desideri, volontà, speranze, ecc.”.
Il ricordo di una nozione intellettuale non ha certo lo stesso effetto, e, se lo ha, è perché ci richiama non l’intelletto, ma la nostra volontà di allora al momento di apprendere. Noi siamo volontà e intelletto. La volontà è PUNCTUM SALIENS, PERPETUUM MOBILE del nostro Io.
Le nozioni sono solo questioni di ordine teoretico-speculativo; per quanto trascinante sia il sapere, ciò non impedisce di interrompere le attività intellettuali per soddisfare quelle organiche. Quando invece sono in ballo i problemi della volontà, non ci distraiamo neanche un secondo da essi, tanto che non riusciamo nemmeno a dormire la notte. «Là dov’è il tesoro, c’è il nostro cuore».
Occorre fare ancora una precisazione riguardo alla distinzione che Schopenhauer fa fra cosa in sé ASSOLUTA e cosa in sé RELATIVA.
La volontà è l’in sé delle nostre rappresentazioni, ma un in sé RELATIVO. La dottrina dell’inconoscibilità della cosa in sé di derivazione kantiana è sostituita dal fatto che noi non la possiamo conoscere assolutamente, ma come la sua più immediata rappresentazione; la cosa in sé si rivela sotto il più leggero dei suoi veli e resta per noi fenomeno solo in quanto l’intelletto resta distinto dall’Io volente e nel procedimento del conoscere non abbandona la forma del tempo. Perciò, l’in sé così manifestantesi è relativo e non assoluto.
Quindi, alla cosa in sé assoluta dovremmo togliere il tempo e la distinzione conoscente/conosciuto, cioè ogni residuo di rappresentazione. La cosa in sé sarebbe dunque atemporale, eterna (in quanto senza tempo) e inconscia (in quanto priva della distinzione soggetto/oggetto). Sarebbe, insomma, completamente auto-determinata e libera da qualsiasi limitazione.
Non essendo circoscritta da spazio e tempo, essa è esente da ogni molteplicità. È unica, eterna, inconscia. È l’estremo limite del conoscere, che dà enormi problemi in quanto è trascendente, trascende le nostre capacità conoscitive.
Che cosa sia la volontà nel suo assoluto in sé, è un problema destinato a restare per sempre irrisolto. Noi conosciamo l’in sé dei fenomeni, cioè la volontà che noi siamo,e che attribuiamo analogicamente a tutte le altre rappresentazioni. L’in sé delle altre cose è comunque sempre sforzo di esser qualcosa, per questo lo riconosciamo analogo al nostro.
Ma tutto questo non ci vieta di riflettere sull’in sé assoluto e continuare a sforzarci di coglierlo appieno, anche se, in ultima analisi esso risulta incoglibile. Il tratto problematico è rappresentato proprio dall’andare oltre, dal trascendere la propria finitezza. L’in sé assoluto è segnalabile, ma del tutto inconoscibile: nel suo esser tale, pone chiari e precisi limiti al nostro conoscere. Ecco che qui Schopenhauer torna a essere kantiano.
Tutto questo, si badi bene, non vuol certo dire “togliere con una mano ciò che si è posto con l’altra”: un certo in sé superficiale, relativo, è conoscibile nel suo riguardare il fenomenico; è inconoscibile l’in sé nella sua dimensione profonda e assoluta.
«Che cosa invece sia la cosa in sé al di fuori della sua relazione col fenomeno non l’ho mai detto perché non lo so; in questa relazione, però, è volontà di vivere, è sforzo d’essere».