LA RELIGIONE


 

 

La vita è un inferno in cui gli uomini sono al contempo anime dannate e diavoli. Questo a causa dell’egoismo che abita in ognuno di noi: i demoni si potrebbero identificare con i grandi cattivi della storia, ma si sa anche che i malvagi sono spesso i più insospettabili perché i più subdoli. Ciascuno di noi, in fondo, è segretamente malvagio quando, dentro di sè, augura ogni sciagura possibile al proprio prossimo o gioisce delle disgrazie altrui.

Tutto è dunque mistificazione, impostura, non certo dono. Chi tematizza la vita come dono non sottolinea mai come, con la vita, si donino per forza di cose anche malattia e morte. Qui appare la dimensione GNOSTICA di Schopenhauer, ovvero il concepire l’intero mondo come prigione, inferno, in modo analogo agli Esistenzialisti, che parlano di un “essere gettati nell’esistenza senza mai averlo chiesto ed esserne prigionieri”.

Nel filosofo matura la convinzione che sarebbe meglio se uomo e mondo non ci fossero; l’errore fondamentale è il volere. «Il mondo ha creato Dio, e non viceversa». La religione è totale illusione, solo la filosofia è verità. I filosofi non devono adattare il loro pensiero alle dottrine religiose: solo i filosofastri lo fanno. Costoro propongono al pubblico intellettuale ciò che vuole sentire, ciò che fa comodo, è consolante, rassicurante.

Un filosofastro è, chiaramente, Hegel, che presenta il mondo come progressivo processo verso l’assoluto, la salvezza; lo sono anche Comte, Saint-Simon, Marx. Il loro è un ottimismo obbligato da professori di filosofia, che pretendono di campare con la loro filosofia: perciò, per essere stipendiati, devono dire cose non compromettenti, non choccanti.

 

La GNOSI è stato un movimento filosofico e religioso che sosteneva l’intrinseca malvagità del mondo terreno, che sarebbe opera di un demone maligno; in una realtà ultraterrena remotissima esisterebbe un dio supremo incurante dei fatti del mondo.

Della gnosi sappiamo poco o nulla, a causa dell’aspra soppressione da parte dei cristiani; il termine greco gnosis significa “sapienza”.

La maggior parte degli uomini sono carnali e psichici, cioè malvagi e calcolatori: sono quasi tutti destinati alla dannazione. Gli gnostici sono pochi saggi eletti caduti nel mondo, che per loro è solo un passaggio; essi sanno come stanno realmente le cose, quindi sono destinati alla salvezza. La gnosi verrà ripresa nel Tardo Medioevo da movimenti come quelli dei Catari, degli Anabattisti, degli Hussiti. Il Cristianesimo si oppone alla gnosi con il suo ottimismo, il suo messaggio di salvezza e di vita santa anche sulla terra. A partire dal ‘500, anche la filosofia si oppone al pessimismo gnostico con l’ottimismo sul futuro dovuto al calcolo della ragione.

La gnosi, si può dire, ritorna nuovamente nel XX secolo con l’Esistenzialismo, che reagisce a una vita sempre più burocratizzata e meccanizzata. Tipica degli esistenzialisti è l’idea della vita come una prigione, dell’essere gettati nella propria esistenza.

Parlare di gnosticismo a proposito di Schopenhauer è legittimo, ma il suo è uno gnosticismo eterno, senza prospettive di salvezza, nemmeno per pochi eletti.

Confrontandosi con il Cristianesimo, egli sostiene che il mondo è un errore; la storia del peccato originale è una verità che ci riconcilia con l’Antico Testamento, l’unica grande verità racchiusa in esso. Il mondo è infatti frutto di questo peccato, di questa caduta, da intendere però in senso metaforico. Se l’uomo è volontà, per forza di cose egli è anche peccato. La volontà è peccato in quanto vuole il mondo, che è male e non dovrebbe esistere: volere il mondo è volere il male, in ciò consiste, appunto, il peccato.

Non c’è da stupirsi se siamo circondati da ladri e delinquenti: l’uomo è dominato dalla volontà, quindi non si pone grossi scrupoli, l’importante, per lui, è ottenere il proprio scopo. Esempi di barbarie della volontà sono, tra i tanti, la schiavitù dei neri e il lavoro minorile nelle fabbriche.

Il mondo è vittima del delitto del volere, dunque per forza la società è peccaminosa, criminale. Non esiste redenzione perché siamo tutti volontà di vivere. La miseria, l’ingiustizia, i travagli, non sono anormalità, bensì condizioni del tutto normali.

Le cosiddette imperfezioni, cioè le ignobili condizioni etiche e intellettuali di molti individui, non devono stupire: l’uomo vive come manifestazione della sua colpa originaria, del suo essere volontà.

Ascoltare come stanno realmente le cose non porta a nessun miglioramento concreto. Noi siamo consapevoli del nostro essere volontà non in forza di argomentazioni discorsive, ma vivendo concretamente questo fatto come esperienza individuale e personale.

La vita è tale da meritarsi la morte: potrebbe essere fine a se stessa, autogiustificantesi, se avesse un senso, se escludesse dolore e sofferenza. Come dice Petrarca, «Mille piacer non vaglion un tormento». Nulla riesce a renderci pienamente felici; solo una volontà cieca poteva cacciarsi in un tal vicolo cieco.

Tutti quelli che reputano vi sia un’intelligenza alla base del mondo, si affannano a giustificare il fatto che esso sia cosa buona nonostante le grida di dolore che in esso si levano. Gli ottimisti fanno osservare la bellezza del mondo, il sole, la natura, ecc. Ma, si chiede Schopenhauer, il mondo è forse un panorama? Queste cose sono belle a vedersi, ma ESSERLE è tutta un’altra questione, altra cosa è vivere in esse.

Non solo questo non è il miglior mondo possibile, come voleva Leibniz, ma è il peggiore in assoluto. “Possibile”, infatti, è solo ciò che può anche esistere realmente, ciò la cui esistenza non implica contraddizione, non certo ogni fantasia che ci viene in mente.

Questo mondo è strutturato in maniera tale da poter sussistere con ogni sofferenza già calcolata: basterebbe appena un po’ di dolore in più per rendercelo insopportabile e cancellare la voglia di continuare a sperare.

Ciascuno crede di avere diritto a felicità e godimento e, quando non arrivano, ci si crede vittime di ingiustizie, ci si sente dei falliti. Si può dire, allora, che il mondo sia Teofania, manifestazione di un dio potente e buono? Gli esseri vivono una vita breve solo a condizione di sbranarsi a vicenda, restano nell’angoscia e nel timore finchè non arriva la morte. Quindi, il dio deve essere per forza un dio malvagio. Eppure, malgrado la bruttezza della vita, tutti la vogliono, tutti bramano vivere in forza di quell’istinto primordiale che è la volontà di vivere.

L’intera vita della più parte degli uomini è sforzo di auto-mantenersi: qual è, allora, il risultato di questo sforzo? «La vita è un affare i cui risultati non coprono i costi». Il risultato sono solo illusori e fugaci piaceri immersi in una vita che è guerra di tutti contro tutti.

UN ESEMPIO. A Giava vi è un grande territorio coperto di scheletri di tartarughe: esse, infatti, devono uscire dal mare e superare questo spazio per andare a deporre le uova, ma nel frattempo vengono assalite e sbranate da dei cani selvatici. Vivono, dunque, solo per questo? Che senso ha la loro esistenza? Lo scoiattolo che è ipnotizzato ed è costretto a correre in bocca al cobra è manifestazione della bellezza della natura, della bontà di Dio? Nient’affatto, è espressione di una natura spietata e di un demone perverso.

La volontà di vivere è follia o vanità, è uno sforzo cieco e immotivato: è così perché è così, e basta. Non vi è un motivo che possa fungere da forza propellente per la volontà. Nel caso dell’uomo, questo sforzo inconsapevole è corrotto dallo strumento superiore della conoscenza e, in particolare, della fantasia e dell’illusione.

La vita che dobbiamo vivere è paragonabile al compito di chi deve salvare, attraverso mille insidie, un pacco che non contiene nulla.

L’istinto cieco e immotivato è il PRIMUM MOBILE, è la causa prima dell’esistenza umana. Siamo in un perenne stato di costrizione, costretti dalla volontà di vivere. Ognuno di noi cerca di adattarsi come meglio può alle fatiche della vita.

Riguardo al suicidio? Il suicidio, la rinuncia alla vita, non mette in crisi questa visione? Schopenhauer ha grande rispetto per il suicidio, gesto estremo di grande coraggio, osteggiato, invece, dalle religioni monoteiste: il rifiuto della vita è come una bestemmia verso il dio creatore buono, è un opporsi alla visione dell’ottimismo obbligato. Le religioni criticano il suicidio per non esserne a loro volta criticate.

Le religioni sono una grande impostura, molto più radicale dell’impostura sacerdotale: ne sono vittime, infatti, gli stessi sacerdoti. Non è detto che questi credano nella vita eterna e negli altri dogmi, ma sperano di migliorare la loro vita con il dominio, con la religione nella sua funzione di instrumentum regni. La loro invenzione della religione è però, a sua volta, invenzione della volontà di vivere. Il sacerdote che strumentalizza è a sua volte strumentalizzato dalla volontà.

Schopenhauer si chiede se, allora, si possa dire che il suicida non vuole più vivere. Certo che no, semmai non vuole più condurre quella sua particolare vita: ciò che lo muove non è mai l’indifferenza alla vita, ma sempre dolore, sofferenza, insoddisfazione. L’illusione è sempre presente, ma totalmente impedita, tanto da generare una rinuncia a voler vivere in quel particolare modo, ma non alla vita in assoluto. Il suicidio ricorre sempre in conseguenza di condizioni particolari. Il suicida, invece di desistere dal volere, sopprime il fenomeno di questo volere: non rinuncia alla volontà, ma al vivere, al vivere così. Ciò che egli interrompe non è la vita, ma quelle particolari circostanze di quella sua vita.

 

Schopenhauer si dedica anche alla confutazione della prova fisico-teologica dell’esistenza di Dio così come è stata formulata da Kant: la tesi fondamentale è che, a partire dalla considerazione dell’ordine del mondo e del suo essere finalizzato a qualcosa, si può dedurre l’esistenza di un architetto, di un perfetto dio ordinatore di cui il mondo è immagine. Questa prova ebbe un successo enorme nel ‘700. Voltaire la considerava “la prova delle prove”, anche Hume la riteneva molto valida.

Schopenhauer osserva che la prova fisico-teologica è per i dotti l’equivalente di quella keraunologica per gli indotti: questa è derivata dal terrore e dalla speranza di fronte a fenomeni naturali quali il fulmine (in greco keraunos).

Ma questo mondo così insensato e pieno di male come può comportarsi finalisticamente? Esso è spiegato meglio dalla volontà di vivere o da un principio ordinatore onnisciente? Se è vero che esiste un dio che ha creato esseri che si scannano a vicenda, deve essere per forza un demone malvagio. Solo a guardarla, l’insensatezza liquida non solo la prova fisico-teologica, ma qualunque altro tipo di teofania. Ma, obiettano i fisico-filosofi, gli esseri sono organismi così perfetti, così ben strutturati, che devono per forza essere opera di una mente superiore. Schopenhauer, però, fa notare che questo presunto finalismo, in realtà falso, che noi intuiamo con la conoscenza, si basa proprio sull’intelletto: esso non è solo nato per l’intelletto, ma dall’intelletto.

Nessuno di noi può produrre qualcosa di finalistico senza il concetto di fine; ma non ci sono ragioni per attribuire anche alla natura, alla volontà questo modo di procedere. La natura si mostra come questo produrre oggetti in vista di un fine senza avere affatto una rappresentazione del concetto di fine.

Gli animali, almeno la prima volta, agiscono per istinto, ignorano lo scopo del loro agire. La cieca volontà produce questo mondo del tutto ciecamente, in un colpo solo, non certo dopo calcoli e congetture. L’in sé di un organismo, la sua volontà, è già sempre da tradursi in un colpo solo in quell’organismo: esso è già sempre subito quella data rappresentazione, senza alcun passaggio concettuale intermedio. Siamo noi che, ogni volta, ponderiamo e calcoliamo, quindi siamo portati a vedere tutta la realtà come finalizzata a qualcosa di superiore. Del resto, lo scopo di ogni cosa è essere qual essa è, cioè l’essere insensato che è. Il fine ultimo del mondo è proprio questo mondo crudele e ingiusto.

Il finalismo non implica sempre necessariamente intelligenza: i prodotti della nostra mente sono sì in vista di un fine, ma sono solo una minima parte del grande processo finalistico volto all’insensatezza.

 

 


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