DUNS SCOTO, IL RAPPORTO TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA

Libro I, Prologo, parte I

Questione unica: se sia necessario che all'uomo in questo stato terreno sia ispirata una qualche dottrina in modo soprannaturale, alla quale cioè non possa giungere con il lume naturale dell'intelletto. [...]

[La controversia tra filosofi e teologi]

6 In tale questione sembra esservi una controversia tra filosofi e teologi. I filosofi sostengono la perfezione della natura, e negano la perfezione soprannaturale; i teologi invece conoscono il difetto della natura e la necessità della grazia e la perfezione soprannaturale.

7 Dunque un filosofo direbbe che nessuna conoscenza soprannaturale è necessaria all'uomo in questo stato, ma che questi può acquisire ogni conoscenza a lui necessaria grazie all'azione delle cause naturali. A tale scopo si adducono argomenti sia di ragione, sia di autorità tratti da diversi passi di Aristotele. [...]

15 Contro questa posizione si può argomentare in tre modi. ⟨⟨Attenzione: con la ragione naturale nessun elemento soprannaturale si può dimostrare presente nell'uomo nello stato terreno, né si può dimostrare che sia necessariamente richiesto per la sua perfezione; e neppure colui che lo possiede può sapere di averlo. Dunque in questo caso è impossibile usare la ragione naturale contro Aristotele: e se si argomenta a partire da elementi di fede, in tal modo non si confuta il filosofo, che non ammette una premessa di fede. Quindi questi argomenti [§16-24] di seguito presentati contro di lui hanno una delle due premesse basata sulla fede, oppure provata a partire da un elemento di fede; perciò sono soltanto discorsi persuasivi teologici, che partono da elementi di fede per giungere ad un elemento di fede [cf. 96].⟩⟩

[Primo argomento contro i filosofi: l'uomo non conosce naturalmente il proprio fine]

16 In un primo modo così: a chiunque agisca consapevolmente è necessaria una conoscenza distinta del proprio fine. Questa affermazione la provo dicendo che chiunque agisca per un fine agisce a causa del desiderio di esso; chiunque agisca di per sé agisce per un fine; quindi chiunque agisca di per sé desidera il fine a modo suo. Quindi, come a quanto agisce naturalmente è necessario il desiderio del fine per il quale deve agire, così a chi agisce consapevolmente (il che significa anche che agisce di per sé, in base a Fisica, II,5 196b17-22) è necessario il desiderio del suo fine per il quale deve agire. Dunque la prima premessa [«a chiunque agisca consapevolmente è necessaria una conoscenza distinta del proprio fine»] è evidente. 17 Ma l'uomo non può conoscere in base alle forze naturali il proprio fine: dunque gli è necessaria al proposito una conoscenza soprannaturale. 18 La seconda premessa [«l'uomo non può conoscere distintamente in base alle forze naturali il proprio fine»] risulta in primo luogo dal fatto che Aristotele, seguendo la ragione naturale, o afferma che la felicità è perfetta nella conoscenza acquisita delle sostanze separate, come sembra volere nell'Etica (I,7 1098a12-20 e IX,7 1177a12-18); oppure, se non afferma decisamente che questa è la suprema perfezione a noi possibile, con la ragione naturale non conclude che ce n'è un'altra, cosicché basandosi sulla sola ragione naturale o sbaglierà sul fine in particolare, o rimarrà in dubbio ⟨(e questo è un elemento di fede)⟩; per questo dice dubbioso: «Se esiste un dono degli dèi, è ragionevole che esso sia la felicità» (Etica I,9 1099b11-12). 19 In secondo luogo la medesima seconda premessa si prova con un argomento razionale, perché il fine proprio di una sostanza viene conosciuto da noi solo grazie ai suoi atti a noi manifesti, grazie ai quali si mostra che tale fine è consono a tale natura; ma non sperimentiamo o conosciamo nessun atto insito nella nostra natura in questo stato terreno dal quale sappiamo che la visione delle sostanze separate sia a noi consona; quindi in maniera naturale non possiamo conoscere distintamente che quel fine è consono alla nostra natura.

20 Comunque almeno questo è certo: che alcune condizioni del fine, che lo rendono più desiderabile e degno di essere cercato più appassionatamente, non possono essere conosciute in maniera determinata con la ragione naturale. Anche se infatti si ammettesse che la ragione basti a provare che la visione diretta e il godimento di Dio è il fine dell'uomo, tuttavia non si concluderebbe che queste cose spettano in maniera perpetua all'uomo completo, anima e corpo, come si dirà più tardi. 21 E tuttavia la perpetuità di tale bene è una condizione che rende questo fine più desiderabile che se fosse transitorio: conseguire infatti questo bene in una natura completa è più desiderabile che in un'anima separata, come risulta grazie ad Agostino: [[«è insito nell'anima un certo desiderio di governare il corpo, desiderio che la frena in qualche modo dal tendere con tutta sé stessa verso quel sommo cielo finché non le sia sottomesso il corpo, governando il quale si realizzi tale desiderio»]] (Sulla Genesi, XII,35,68). Dunque è necessario conoscere queste e simili condizioni del fine per ricercarlo efficacemente, e tuttavia la ragione naturale non è sufficiente per esse: dunque è richiesta una dottrina trasmessa in maniera soprannaturale [cf. 91, †25-31, †95].

[Secondo argomento contro i filosofi: l'uomo naturalmente non sa come raggiungere il proprio fine]

22 In secondo modo così ⟨(questo argomento procede da verità contingenti: dunque non riguarda realtà conoscibili scientificamente)⟩: per ogni essere conoscente che agisce per un fine, è necessario sapere [in primo luogo] come e in qual modo si raggiunge tale fine; è inoltre necessaria [in secondo luogo] la conoscenza di tutto ciò che è richiesto per quel fine; e in terzo luogo è necessario sapere che ciò è sufficiente per raggiungere il fine. La prima cosa è ovvia: se non sapesse in che modo e maniera si ottiene il fine, non saprebbe in qual modo comportarsi per conseguirlo. La seconda cosa si prova: se non conoscesse tutte le cose necessarie per quel fine, a causa dell'ignoranza di un qualche atto necessario ad esso potrebbe mancare il fine. Se inoltre (quanto alla terza condizione) non si sapesse che quelle cose necessarie sono anche sufficienti, nel dubbio di ignorare qualcosa di necessario non si perseguirebbe efficacemente ciò che è necessario.

23 Ma queste tre cose l'uomo nello stato presente non può conoscerle con la ragione naturale. Prova riguardo alla prima cosa [«come e in qual modo si raggiunge tale fine»]: la beatitudine viene donata come un premio per i meriti che Dio accetta come degni di tale premio, e di conseguenza non deriva per una necessità naturale dai nostri atti, quali che essi siano, ma viene data contingentemente da Dio, che accetta come meritori alcuni atti diretti a lui ⟨(questo è un elemento di fede)⟩. 24 Ciò pare che non sia conoscibile naturalmente, perché i filosofi sbagliavano anche qui, perché affermavano che tutte le cose che derivano immediatamente da Dio provengono da lui necessariamente [cf. 52]. Ma almeno gli altri due punti sono palesi: infatti non si può conoscere con la ragione naturale che la volontà divina accetta qualcosa, nella misura in cui essa accetta contingentemente queste o quelle cose come degne della vita eterna, né che inoltre tali cose siano sufficienti; ma [tale accettazione] dipende puramente dalla volontà divina quando riguarda cose a cui essa si rivolge contingentemente; dunque eccetera [cf. 92, †32-33, †95].

25 Ci sono obiezioni contro questi due argomenti. [...] 34 [Ma] [...] tutte le obiezioni suppongono che la nostra natura o facoltà intellettiva sia per noi conoscibile naturalmente, il che è falso dal punto di vista proprio e speciale secondo il quale è ordinata al fine di cui parliamo, secondo il quale ha la capacità di ricevere una grazia perfetta, e secondo il quale ha Dio come suo oggetto più perfetto. 35 Infatti la nostra anima e la nostra natura vengono conosciute da noi in questo stato terreno solo sotto un carattere generale, ricavabile per astrazione dai dati sensibili (come risulterà più tardi, I/3-I/3). E secondo questo carattere generale non spetta loro di essere ordinate a quel fine, né di avere la capacità di ricevere la grazia, né di avere Dio come oggetto più perfetto [†43]. [...]

[Terzo argomento contro i filosofi: l'uomo non conosce naturalmente le proprietà di Dio]

48 Ancora, vi è la terza argomentazione principale contro l'opinione dei filosofi. Secondo la Metafisica, la conoscenza delle sostanze separate è la più nobile, perché riguarda il genere più nobile (VI,1 1026a21-23); quindi la conoscenza delle loro proprietà è più di ogni altra nobile e necessaria, perché queste proprietà sono oggetti di conoscenza più perfetti di quelle che hanno in comune con le cose sensibili. 49 Ma queste proprietà non le possiamo conoscere sulla base delle forze puramente naturali. In primo luogo, perché se tali proprietà fossero trasmesse in qualche scienza ora alla nostra portata, ciò sarebbe nella metafisica; ma noi non possiamo acquisire naturalmente questa scienza riguardo alle affezioni proprie di queste sostanze separate, come è palese. E ciò è quanto dice Aristotele, che cioè è necessario che il sapiente conosca tutte le cose in un certo senso, ma non in particolare; e aggiunge: «chi infatti conosce gli universali, conosce in un certo senso tutti i soggetti» (Metafisica, I,2 982a8-10); qui per «sapiente» intende il metafisico, così come per «sapienza» intende la metafisica.

50 Provo la stessa cosa in un secondo modo: queste proprietà non sono conosciute con una conoscenza a priori se non sono conosciuti i soggetti propri, che solo includono tali proprietà a priori; ma i loro soggetti propri non sono conoscibili naturalmente da parte nostra; quindi eccetera.

51 E neppure conosciamo queste loro proprietà con una dimostrazione a posteriori, cioè sulla base dei loro effetti. Ciò si prova così: gli effetti o lasciano nel dubbio l'intelletto riguardo a queste proprietà, o lo inducono in errore. Ciò appare nelle proprietà della sostanza [divina] prima immateriale in sé; per esempio una sua proprietà è che è comunicabile a tre [persone]: ma gli effetti non mostrano questa proprietà, perché non derivano da lui in quanto trino. 52 E se si argomentasse dagli effetti alla causa, questi inducono alla conclusione opposta erronea, perché in tutti gli effetti una natura si trova solo in un unico soggetto. Ancora: la proprietà di questa natura verso l'esterno è di causare in maniera contingente, ma gli effetti inducono di più alla errata conclusione opposta, come risulta dall'opinione dei filosofi che sostengono che il principio primo causa necessariamente tutto ciò che causa. 53 Riguardo alle proprietà anche delle altre sostanze [immateriali] risulta la stessa cosa, perché gli effetti portano a concludere più la loro eternità e necessità che la loro contingenza e novità, secondo i filosofi. Similmente essi paiono anche concludere, sulla base dei movimenti, che il numero di quelle sostanze separate corrisponda al numero dei movimenti celesti. Similmente che tali sostanze siano per natura beate e impeccabili. E queste cose sono tutte assurde [cf. 93, †95]. [...]

[Due argomenti errati contro i filosofi]

64 In un quarto modo c'è chi [= Enrico di Gand] argomenta così [contro i filosofi]: ciò che è ordinato ad un qualche fine per il quale non ha le giuste disposizioni, è necessario che poco alla volta venga elevato in modo da essere disposto a quel fine; ma l'uomo è ordinato ad un fine soprannaturale, al quale di per sé non è predisposto; quindi ha bisogno di venire poco alla volta disposto per conseguire quel fine. Ciò avviene tramite quel tipo di conoscenza soprannaturale imperfetta che viene affermata necessaria; quindi eccetera [†68]. [...]

66 In un quinto modo c'è chi [= Enrico di Gand] argomenta così: chiunque nell'agire usi uno strumento, non può con esso giungere ad un'azione che oltrepassi la natura di quello strumento; ma il lume dell'intelletto agente è lo strumento che l'anima usa ora quando comprende in maniera naturale; dunque non può grazie a questo lume giungere ad un'azione che superi tale lume. Ma questo lume è di per sé limitato alla conoscenza che si ha tramite la via sensitiva e la via dei sensi; quindi l'anima non può giungere ad alcuna conoscenza che non si può avere per la via dei sensi. Ma in questo stato terreno è necessaria la conoscenza di molte altre cose; quindi eccetera.

67 Questo ragionamento [§66] sembra però ritorcersi contro colui che lo propose. Infatti secondo questa deduzione la luce increata [divina] non potrebbe usare l'intelletto agente come strumento per giungere ad una conoscenza di nessuna «sincera verità», perché secondo lui la via dei sensi non può essere tale senza una speciale illuminazione. E così segue che nella conoscenza della sincera verità il lume dell'intelletto agente non ha assolutamente nessun ruolo; il che è illogico, perché la sua azione è più perfetta di ogni comprensione, e di conseguenza ciò che è più perfetto nell'anima, in quanto intellettiva, deve in un qualche modo concorrere a quell'azione.

68 Questi due ultimi argomenti non sembrano davvero molto efficaci. Il primo [§64-65] infatti sarebbe efficace se fosse provato che l'uomo è ordinato come fine alla conoscenza soprannaturale (e il luogo adatto di questa prova sono le questioni sulla beatitudine [IV/43]), e se oltre a ciò si mostrasse che la conoscenza naturale non dispone in maniera sufficiente per il presente stato terreno a conseguire la conoscenza soprannaturale. Il secondo argomento [§66] poi suppone due cose indimostrate: cioè che sia necessaria la conoscenza di alcune cose che non possono essere conosciute per la via dei sensi, e che il lume dell'intelletto agente sia limitato a tali oggetti di conoscenza.

[La rivelazione non è in assoluto necessaria alla salvezza]

69 Le tre prime ragioni [§16-21, 22-24, 48-53] appaiono invece più plausibili. Ma che nessuna siffatta conoscenza sia necessaria per la salvezza, lo provo ora.

70 ⟨⟨Supponi che uno non sia battezzato, e che quando diventa adulto non abbia nessuno che lo istruisca, compia però quelle buone azioni che può fare, conformi alla retta ragione naturale, ed eviti quelle che la ragione naturale gli mostra essere cattive; 71 sebbene Dio lo possa raggiungere per la legge comune, istruendolo tramite un uomo o un angelo (come raggiunse Cornelio [At. 10,1-6]), supponi tuttavia che non venga istruito da nessuno; ora, quell'uomo si salverà. Comunque, anche se dopo venisse istruito, tuttavia è giusto fin da prima, e dunque degno della vita eterna, perché con i suoi buoni atti di volontà, antecedenti all'istruzione, merita la grazia per la quale è giusto; e tuttavia non possiede la teologia, neppure riguardo ai primi elementi della fede, ma ha solo la conoscenza naturale. Quindi nessun elemento della teologia è in assoluto necessario alla salvezza.

72 Si potrebbe dire che con i suoi atti di volontà genericamente buoni, quell'uomo merita in maniera «congrua» di essere giustificato dal peccato originale, e Dio non nega il dono della sua generosità: quindi dà la prima grazia senza il sacramento, perché non è vincolato ai sacramenti; ma la grazia non viene data senza l'abito della fede; dunque quell'uomo ha la teologia come un'abito, benché non la eserciti attualmente, così come non può essere battezzato se non viene istruito. E benché non ci sia contraddizione nel dare la grazia senza la fede, perché sono abiti distinti e riguardano facoltà diverse, tuttavia come nel battesimo si afferma che c'è una simultaneità nell'infusione, così per lo stesso motivo si può affermare che c'è simultaneità in questo caso. Infatti Dio verso colui che egli giustifica senza sacramento per il suo merito «congruo» non è meno ricco di grazia che verso colui che egli giustifica senza alcun merito personale nel momento in cui questi riceve il sacramento.

73 Quindi, è possibile a Dio, nella sua potenza assoluta, salvare chicchessia, e anche far sì che meriti la gloria pur senza la fede infusa, se senza di essa egli dà la grazia della quale il destinatario faccia buon uso quanto a ciò che può volere seguendo la ragione naturale e la fede acquisita (o anche senza alcuna fede acquisita se manca chi insegni), benché nella sua potenza ordinata Dio non conceda la grazia senza infondere prima l'abito della fede (infatti si afferma che la grazia non venga infusa senza di essa): non perché la grazia abbia bisogno [della fede], quasi che senza di essa non fosse sufficiente, ma perché la generosità divina trasforma l'intero uomo, e l'uomo senza la fede infusa sarebbe anche meno perfettamente disposto ad assentire ad alcune verità.

74 E come qui, così dico analogamente dell'abito della teologia, che quando è perfetto implica la fede, sia infusa sia acquisita, degli articoli e degli altri elementi rivelati da Dio nella Scrittura, cosicché non vi è solo questa fede infusa, né solo quella acquisita, ma sono assieme entrambe. Che dunque la teologia è necessaria, è vero se si parla della potenza ordinata e dell'abito più principale o anteriore spettante alla teologia, vale a dire la fede infusa; e questo in generale, riguardo a tutti; non è invece necessaria quanto al secondo abito che implica, vale a dire la fede acquisita. Forse questa è necessaria solo dal punto di vista di una necessità ordinata, nell'adulto che può avere e comprendere qualcuno che lo istruisca, e ciò quanto alla fede acquisita di alcuni elementi generali.⟩⟩

[Soluzione alla questione: non vi è «soprannaturale» né nell'atto della conoscenza né nei suoi elementi]

75 Rispondo dunque alla questione in primo luogo precisando in che senso qualcosa si dice «soprannaturale». Infatti la facoltà recettiva può essere confrontata o con l'atto che riceve, o con l'agente dal quale riceve. Nel primo modo una facoltà può essere o naturale, o violenta, o neutra. Si dice «naturale» se viene inclinata naturalmente, «violenta» se l'atto è contrario all'inclinazione naturale dell'elemento passivo, «neutra» se non è inclinata naturalmente né verso quella forma che riceve né verso quella opposta. 76 Ma in questo confronto non vi è nessuna soprannaturalità. Invece, confrontando l'elemento recettivo con l'agente dal quale riceve la forma, allora vi è naturalità quando l'elemento recettivo viene confrontato con un agente che è in grado di imprimere per natura tale forma in tale elemento passivo, soprannaturalità invece quando viene confrontato con un agente che non ha la capacità di imprimere naturalmente tale forma in tale elemento passivo. [...]

81 Applicando [la distinzione] al caso in questione, affermo che confrontando l'intelletto passivo con la conoscenza attuale in sé, non vi è per esso nessuna conoscenza soprannaturale, perché l'intelletto passivo viene perfezionato naturalmente da qualsiasi conoscenza e si inclina naturalmente verso qualsiasi conoscenza. Se si parla invece nel secondo senso [= confrontando con l'agente §75], allora è soprannaturale la conoscenza che viene generata da un agente che non è in grado di muovere naturalmente l'intelletto passivo ad una tale conoscenza.

82 Ma in questo stato terreno, secondo Aristotele, l'intelletto passivo per natura viene mosso alla conoscenza ad opera dell'intelletto agente e dell'immagine [L'anima, III,4 429a13-18]; quindi per esso è naturale solo quella conoscenza che viene impressa da questi agenti. 83 Ma in virtù di questi si può avere ogni conoscenza di elementi semplici che secondo la legge comune l'uomo ha su questa terra [...]. E quindi, benché Dio possa tramite una rivelazione speciale causare la conoscenza di un qualche elemento incomplesso (come nell'estasi), tuttavia una tale conoscenza soprannaturale non è necessaria secondo la legge comune.

[È soprannaturale la conoscenza di verità complesse trasmessa in modo soprannaturale]

84 Riguardo invece alle verità complesse le cose stanno diversamente, perché, come si è mostrato tramite i tre primi argomenti [§16-21, 22-24, 48-53] addotti contro la prima opinione, pur con tutta l'azione dell'intelletto agente e delle immagini, molte verità complesse, la cui conoscenza ci è necessaria, ci rimarranno ignote e neutre. Dunque la loro cognizione è necessario che ci venga trasmessa in maniera soprannaturale, giacché nessuno ha potuto mai trovarne in maniera naturale cognizione e trasmetterla ad altri con l'insegnamento, perché come erano neutre ad uno sulla base delle forze naturali, così lo erano per tutti gli altri.

85 Se poi, dopo la prima trasmissione dell'insegnamento su tali verità, un altro sulla base delle forze naturali possa assentire all'insegnamento trasmesso, lo esamineremo più tardi (III/23/u). Comunque, quella prima trasmissione di un tale insegnamento si dice «rivelazione», che è soprannaturale perché proviene da un agente che non è un movente naturale dell'intelletto in questo stato terreno.

[È soprannaturale la conoscenza di verità complesse riguardanti un oggetto soprannaturale]

86 In un altro senso potrebbe anche dirsi soprannaturale un'azione o una cognizione che proviene da un agente che fa le veci di un oggetto soprannaturale. Infatti l'oggetto che è in grado di causare la cognizione della proposizione «Dio è trino» e simili, è l'essenza divina conosciuta nel suo proprio carattere, e questa, conoscibile in questo suo carattere, è un oggetto soprannaturale. 87 Dunque, qualsiasi agente causi una cognizione di verità che sarebbero in gradi di mostrarsi evidenti tramite tale oggetto così conosciuto, in ciò fa le veci di quell'oggetto. Se questo agente causasse una cognizione di quelle verità così perfetta quale la causerebbe l'oggetto conosciuto in sé, allora farebbe perfettamente le veci dell'oggetto; nella misura in cui è imperfetta la cognizione che produce, essa è contenuta virtualmente in quella cognizione perfetta della quale l'oggetto in sé conosciuto sarebbe causa.

88 E così stanno le cose nel caso in questione. Infatti colui che rivela che «Dio è trino» causa nella mente una qualche cognizione di questa verità, benché oscura: essa infatti riguarda un oggetto non conosciuto nel suo proprio carattere, perché se l'oggetto fosse conosciuto così sarebbe in grado di causare una cognizione chiara e perfetta di quella verità. 89 Quindi nella misura in cui questa cognizione è oscura e in quella cognizione chiara è implicita «per eminenza», come ciò che è imperfetto in ciò che è perfetto, in tal misura colui che rivela questa cognizione oscura, ovvero la causa, fa le veci dell'oggetto che ha la capacità di causare quella cognizione chiara, soprattutto dal momento che non può causare la cognizione di una verità se non facendo le veci di un certo oggetto; né del resto può causare la cognizione di tali verità riguardanti questo oggetto facendo le veci di un qualche oggetto inferiore che sia un movente naturale del nostro intelletto, giacché nessun tale oggetto include virtualmente una cognizione di quelle verità, né chiara né oscura: quindi bisogna che nel causare quella cognizione pur oscura faccia in qualche modo le veci di un oggetto soprannaturale.

90 La differenza tra questi due sensi di affermare la soprannaturalità della cognizione rivelata [§81, 86] risulta chiara quando si distinguono l'uno dall'altro. Per esempio, se un agente soprannaturale causasse la cognizione di un oggetto naturale, per esempio se infondesse in qualcuno la geometria, questa sarebbe soprannaturale nel primo senso, ma non nel secondo (cioè non in entrambi i sensi, perché il secondo implica il primo, ma non viceversa). Ma dove vi è soltanto il primo senso, non è necessario che ci sia una [conoscenza] soprannaturale che non si potrebbe avere naturalmente; dove vi è il secondo senso, vi è invece la necessità che si abbia soprannaturalmente, perché naturalmente non si potrebbe avere.

[Conferme agli argomenti contro i filosofi]

91 I tre argomenti di ragione [§16-21, 22-24, 48-53] sui quali si basa questa soluzione sono confermati da argomenti di autorità. Il primo [§16-21] da questo passo di Agostino: «Alcuni filosofi, tra le false opinioni che avevano, poterono vedere il vero e [con laboriose discussioni si impegnarono a persuadére che Dio ha fatto questo mondo e che egli stesso lo amministra con somma provvidenza riguardo alla moralità delle virtù, all'amore della patria, alla fedeltà nell'amicizia, alle opere buone e a tutte le realtà che riguardano gli onesti costumi,] sebbene ignorassero a quale fine tutte queste cose si debbano riferire [e in quale modo; in quella città [celeste] tutto ciò fu invece affidato al popolo con le parole profetiche, cioè divine sebbene trasmesse da uomini, e non inculcato con controversie di argomenti, in modo che chi li conosceva temesse di disprezzare non l'ingegno dell'uomo ma il discorso di Dio]» (La città di Dio, XVIII,41*,3).

92 Il secondo [§22-24] è confermato da quest'altro passo di Agostino: «[Se fra chi tende e la meta a cui tende vi è in mezzo una via, vi è speranza di arrivare; se manca invece o] se non si conosce per dove si deve andare, a che cosa giova sapere dove si deve andare? [Ma vi è una sola via veramente difesa contro tutti gli errori: che uno stesso sia Dio e uomo: dove si va, è Dio; per dove si va, è uomo]» (La città di Dio, XI,2). E i filosofi sbagliarono in ciò, perché anche se insegnarono alcune cose vere sulle virtù, tuttavia vi mescolarono cose false, secondo il passo prima citato di Agostino e come risulta dai loro libri. Per esempio Aristotele condanna le costituzioni politiche concepite da molti altri (Politica, II), ma neppure quella stessa di Aristotele è irreprensibile: infatti egli insegna che bisogna onorare gli dèi («È bene infatti, dice, dare onore gli dèi», Politica, VII,8* 1329a29-30), e nello stesso libro insegna che «sia legge che nessun figlio menomato venga allevato» (VII,14* 1335b21).

93 Il terzo argomento [§48-53] è confermato da quest'altro passo ancora di Agostino: «Ma poiché per nostra testimonianza non possiamo conoscere oggetti lontani dai nostri sensi, per essi abbiamo bisogno di altri testimoni [[e crediamo a coloro dai sensi dei quali crediamo che gli oggetti non sono o non sono stati lontani. Come dunque per gli oggetti visibili, che non abbiamo visto, crediamo a coloro che li hanno visti (e allo stesso modo per tutti gli altri che spettano ciascuno al suo senso), così per gli oggetti che si sentono con l'animo e con la mente (giacché anch'esso a pieno diritto si chiama "senso" e da esso deriva il termine "sentenza"), cioè per gli oggetti invisibili che sono lontani dal nostro senso interiore, dobbiamo credere a coloro che li hanno appresi disposti in quella luce incorporea o li intuiscono nella loro stabilità]]» (La città di Dio, XI,3). E ciò conferma [anche] nel suo complesso la soluzione principale [§75-90]. Poiché infatti quelle verità complesse di cui abbiamo discusso [§84] sono di per sé neutre, nessuno può con la propria testimonianza credere ad esse, ma è necessariamente richiesta la testimonianza soprannaturale di qualcuno superiore a tutto il genere umano. [...]

Libro III, Distinzione 28

Questione unica: Se il prossimo debba essere amato con lo stesso abito con il quale è amato Dio

[Argomenti pro e contro]

1 Che no: Un unico abito ha un unico oggetto formale; ma in Dio e nel prossimo vi sono diversi caratteri formali della bontà [†19].

2 Inoltre, l'abito con il quale si ama Dio è un abito teologico; dunque riguarda Dio solo come oggetto, e non qualcosa di creato [†20]. Si risponde che ciò è vero in senso principale, tuttavia riguarda qualcos'altro in quanto esso viene attribuito a Dio stesso. 3 Contro: se un'attribuzione fosse sufficiente, allora di tutti gli oggetti potrebbe esserci un unico abito intellettivo e anche appetitivo, perché tutti gli oggetti vengono attribuiti ad uno solo; similmente tutte le virtù morali vengono attribuite ad una cosa sola, cioè alla felicità considerata come qualcosa di per sé desiderabile.

4 Inoltre (alla questione principale), l'abito del principio [= virtù dell'intelletto] è diverso da quello della conclusione [= virtù della scienza]; dunque similmente nelle facoltà desiderative altro è l'abito del fine [= Dio] e l'abito del mezzo per il fine [= ogni altra realtà]; la carità è l'abito del fine; dunque eccetera [†21].

5 Contro: «Abbiamo da Dio questo comandamento: che chi ama Dio ami anche suo fratello» (1Gv 4,21).

6 Qui bisogna vedere tre punti: in primo luogo, in qual modo l'abito con il quale si ama Dio riguardi il prossimo [§7-13]; in secondo luogo, quale abito si debba avere verso il prossimo [§14-17]; in terzo luogo, chi sia tale prossimo [§18].

[In qual modo l'abito con il quale si ama Dio riguardi il prossimo]

7 Riguardo al primo punto [«in qual modo l'abito con il quale si ama Dio riguardi il prossimo» §6] dico che (come è stato già accennato §I/17) si dice carità l'abito con il quale si ha caro Dio. Ma uno potrebbe averlo caro con un qualche amore privato, con il quale non si voglia che anche altri amino (come negli uomini gelosi che hanno care le mogli): tale abito però non sarebbe né ordinato né perfetto. Non sarebbe ordinato, perché Dio, che è il bene comune, non vuol essere il bene privato di chicchessia, né secondo la retta ragione qualcuno deve appropriarsi questo bene comune, e dunque quell'amore che inclina a questo bene come ad un bene proprio che non va amato né posseduto da un altro, sarebbe disordinato.

8 Sarebbe anche imperfetto, perché chi ama perfettamente vuole che l'amato sia amato, come risulta da Riccardo di S. Vittore (La Trinità, III); dunque Dio che infonde l'abito tramite il quale l'anima tenda in lui in maniera ordinata e perfetta, conferisce un abito tramite il quale uno lo abbia caro come un bene comune e che anche altri debbano amare; e così quell'abito, che è di Dio, inclina a volere che lo abbia caro e lo ami anche l'altro, per lo meno colui la cui amicizia gli sia gradita o non gli dispiaccia nel momento in cui gli è gradita; come dunque quell'abito inclina ad amare Dio in sé in maniera ordinata e perfetta, così inclina a volere che egli sia insieme amato da sé e da chiunque altro la cui amicizia gli sia gradita.

9 Da ciò risulta in qual modo l'abito della carità sia unico, perché non riguarda primariamente più oggetti, ma solo Dio come primo oggetto, quale primo bene in sé, e secondariamente il volere che egli sia insieme amato e posseduto tramite l'amore da chiunque, per quanto gli è possibile, perché in questo consiste l'amore perfetto e ordinato di lui; e volendo ciò amo me stesso e il prossimo con carità, volendo che io che lui voglia e tramite l'amore abbia Dio in sé, il quale in assoluto è il bene della giustizia. In questo modo l'oggetto primo è Dio solo in sé, mentre tutti gli altri sono per così dire oggetti medi, quasi di atti riflessi mediante i quali tendo al bene infinito che è Dio; ma l'abito dell'atto diretto e di quello riflesso è lo stesso.

10 Contro di ciò si obietta che non con lo stesso abito comprendo Dio e che un altro comprende Dio; dunque analogamente non con lo stesso abito voglio che Dio sia bene e che un altro voglia che Dio sia bene.

11 Rispondo: l'atto riguardo al quale avviene la riflessione può essere inteso come un nome, e allora significa il suo atto secondo la quiddità; oppure come un verbo, e allora significa il suo atto come quello [specifico] a cui si riferisce o come riguardante esso. Nel primo senso [= inteso come un nome], in universale con lo stesso abito può essere eseguito un atto e può avvenire la riflessione su di esso, non solo nelle facoltà intellettive ma anche in quelle desiderative; infatti con l'abito con cui «comprendo qualcosa», anche «comprendo la sua comprensione», che si trovi in me o in un altro.

12 Nel secondo senso [= inteso come un verbo], esso si esprime tramite una forma verbale. E allora se viene confrontato al «volere» non necessariamente viene inteso sotto il carattere del presente: posso infatti «volere che tu corra», benché non rispetto all'adesso, ma rispetto ad un altro momento; se viene invece confrontato al «sapere», dato che la scienza riguarda solo il vero e il sapere non riguarda l'agire a meno che non sia un agire che riguarda quel soggetto, il sapere non si riflette sopra un atto inteso in questo modo [verbale] a meno che l'atto non sia presente nel soggetto rispetto al quale si intende l'esser presente. E poiché è possibile che in me vi sia la scienza di un atto diretto e riflesso in sé indipendentemente dal fatto che quell'atto esista in un altro diverso da me, allora non ho un atto riflesso di quel soggetto sopra questo atto in quanto inteso verbalmente e predicato di qualche soggetto.

13 Risulta dunque che benché non con lo stesso atto «conosco Dio» e «conosco che tu conosci Dio», tuttavia con lo stesso atto «voglio Dio» e «voglio che tu voglia Dio»: e in ciò ti amo con carità, perché in base a ciò voglio per te il bene della giustizia; e in base a ciò il prossimo non viene assegnato come un secondo oggetto della carità, ma come un oggetto completamente accidentale, in quanto cioè è qualcuno che può perfettamente e ordinatamente amare l'amato insieme con me; e per questo lo amo, perché egli ami insieme [con me], e così facendo lo amo per così dire accidentalmente, non per lui stesso, ma per l'oggetto che voglio che sia amato anche da lui; e volendo che esso sia amato da lui, voglio per lui in assoluto il bene, perché bene della giustizia.

[Quale abito si debba avere verso il prossimo]

14 Riguardo al secondo punto [«quale abito si debba avere verso il prossimo» §6] dico che, come la negazione della conclusione che non segue necessariamente da un principio necessario non dimostra la falsità del principio, bensì può coesistere con la sua verità, perché non ogni errore riguardo alla conclusione distrugge la verità del principio, così anche dall'amore del bene infinito non segue necessariamente l'amore del bene finito, né negli atti dell'amore per la natura della cosa dalla distruzione dell'amore del prossimo segue la distruzione dell'amore di Dio: e ciò sia che la distruzione venga intesa nel senso della contrarietà, sia nel senso della contraddizione; tanto più in base alla natura dell'abito non vi sarebbe una contraddizione che vi fosse [amore] rispetto a Dio e non rispetto al prossimo.

15 Dunque questo abito riguarda qualcos'altro [solo] nella misura in cui è stato dato un precetto di amare questo qualcos'altro; e per tale atto bisogna usare di questo abito, o almeno non agire contro questo abito, altrimenti l'atto e l'abito riguardo a Dio sarebbero distrutti, non però in base alla natura della contraddizione, ma a causa della natura della colpa: infatti la trasgressione del precetto non dissolve positivamente l'abito né l'atto di amare Dio, ma è colpevole del fatto che Dio si sottragga, cosicché né l'abito né l'atto possa più essere presente; infatti l'abito, per quanto dipende da esso, è tale che per sua natura è in grado di inclinare ad amare non in maniera privata, e dunque l'atto privato di amare, quello cioè che distrugge l'amore del prossimo, in nessun modo può identificarsi con tale abito.

16 E in ciò appare la grande perfezione di questo abito: perché anche se un amore geloso acquisito può essere più grande di una piccolissima carità infusa quanto all'intensità dell'atto da eseguire a partire da esso, a partire dalla carità tuttavia quell'abito infuso, giacché ordinato e perfetto nel genere degli abiti desiderativi, non può riguardare Dio se non come bene comune e da amare insieme con gli altri; dunque non può essere principio di un qualche atto con il quale Dio venga amato assieme al contrario dell'amore del prossimo.

17 Risulta dunque, se qualche atto deve essere eseguito a proposito secondo tale abito, in qual senso l'atto è necessario in base alla natura dell'abito, intendendo tuttavia che esso non può essere eseguito come privato, né come contrario all'atto riguardo al prossimo; in base poi alla natura del precetto aggiunto all'abito, è necessario eseguire positivamente l'atto riguardo al prossimo, o almeno non in modo contrario, cioè in modo tale che uno non sia colpevole del dissolvimento dell'abito che riguarda Dio.

[Chi sia tale prossimo]

18 Quanto al terzo punto [«chi sia tale prossimo» §6], dico che il prossimo è chiunque la cui amicizia è gradita all'amato (cioè gli è gradito che venga amato da lui); non devo infatti volere che colui che amo sommamente sia amato da qualcuno il cui amore non gli è gradito e dal quale non vuole essere amato. Poiché è dunque certo che l'amore dei beati è gradito a Dio, in senso assoluto devo volere che egli sia amato da loro; e poiché di qualsiasi determinato uomo su questa terra c'è il dubbio, devo volerlo per lui sotto condizione, cioè se gli piaccia essere amato da lui o quando gli piaccia di essere amato da lui. Ma a proposito degli uomini su questa terra in generale, poiché bisogna sempre supporre che ce ne siano alcuni graditi, può esservi in assoluto un atto con il quale si vuole che Dio sia da loro amato.

[Riposte agli argomenti principali]

19 Al primo argomento [«in Dio e nel prossimo vi sono diversi caratteri formali» §1], risulta in che senso qui vi è un unico oggetto soltanto. E quando si prova che in Dio e nel prossimo vi sono caratteri differenti di bontà, dico che il carattere della bontà del prossimo non è il carattere per il quale l'atto ha il suo termine, ma solo il carattere della bontà divina, perché se [l'atto] tende alla bontà del prossimo, ciò avviene solo per un atto riflesso, che sempre ulteriormente tende all'oggetto dell'atto retto, come prima è stato detto [§9].

20 Al secondo argomento [«un abito teologico riguarda Dio solo come oggetto» §2], risulta per lo stesso motivo che questa virtù ha come oggetto in cui riposa solo Dio; come oggetto prossimo nell'atto riflesso può avere tuttavia qualcosa di creato, e così forse in cielo si potrà avere la visione di qualcosa di creato, non però fermandosi ad esso, ma tendendo ulteriormente a Dio.

21 Al terzo argomento [«altro è l'abito del fine e l'abito del mezzo per il fine» §4], dico che tramite l'abito del principio si tende al principio secondo la verità propria che esso ha in base ai termini, e tramite l'abito della conclusione si tende alla conclusione secondo la sua verità propria, che essa ha in base alla verità dei termini, diversa dalla verità del principio. Ma nel caso in questione non è così; piuttosto, vi è un'unica bontà che è il carattere per cui si tende: infatti la bontà del prossimo non mi moverebbe più di quella di una pagliuzza se quest'ultima potesse amare Dio; se infatti lo amo perfettamente, voglio che egli sia amato da chiunque possa amarlo ordinatamente e il cui amore gli piaccia. E in generale non c'è una situazione simile negli oggetti dell'intelletto, che vengono mostrati, e negli oggetti della volontà, che attirano e vengono voluti.

[Traduzione di Giovanni Salmeri]