LA FILOSOFIA DEL XIII SECOLO

A cura di Claudia Bianco




 

 

BREVE INTRODUZIONE ALLA SCOLASTICA

 

Il sapere filosofico, teologico e scientifico elaborato in età medievale  (secc.VI – XIV) viene designato con il termine SCOLASTICA. Il termine deriva dal fatto che nel Medioevo la produzione intellettuale è legata alle scuole; infatti, a partire dal secolo XIII la ricerca intellettuale si concentra nelle Università, libere corporazioni di studenti e insegnanti, dove la filosofia ha un ruolo centrale per la dimostrazione razionale dei contenuti di fede e coincide sostanzialmente con la lettura e il commento dei testi aristotelici. La filosofia del XIII secolo fu, però, qualcosa di diverso da una semplice esegesi di Aristotele; essa ne fu, infatti,  la reinterpretazione da parte dei cristiani.

 

Se volessimo rintracciare i fattori che hanno favorito lo sviluppo di questo pensiero filosofico, troveremo:

 

1.      La creazione e la fondazione delle università;

2.      L’attività culturale dei due ordini mendicanti , dei francescani e domenicani, non più legati al “mondo separato” dei monasteri, ma in stretto contatto con le realtà cittadine e le università;

3.      la riscoperta attraverso la mediazione araba, degli scritti di metafisica e di fisica di Aristotele;

4.      Il rinnovato studio dell’opera platonica e il significativo recupero della tradizione agostiniana.

 

Solitamente si distinguono tre fasi storiche:

 

1.      PRIMO PERIODO (VI-XI secc.) = caratterizzato dall’indagine razionale sulla fede con l’ausilio della filosofia neoplatonica mediata attraverso Agostino, Boezio e Dionigi Areopagita. Scoto Eriugena, Anselmo d’Aosta e Abelardo sono tra i maggiori pensatori di questo periodo.

2.      SECONDO PERIODO (XIII sec.) = segnato dall’ingresso della filosofia di Aristotele e dal seguente confronto tra teologia cristiana e metafisica aristotelica. Ne derivano tre linee interpretative:

·        San Bonaventura e la sua scuola respingono l’aristotelismo in favore dell’agostinismo e del neoplatonismo cristiano tradizionale;

·        i pensatori noti come “averroismi latini” (Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia) seguono un aristotelismo radicale, attribuendo piena validità alle dottrine aristoteliche sul piano razionale, e dislocando le verità relative su un piano superire;

·        Tommaso d’Aquino propone una linea intermedia: il cristiano deve avvalersi della filosofia di Aristotele , dopo aver corretto le tesi contrastanti con la rivelazione.

3.      TERZO PERIODO (XIV sec.) = cerca nuovi equilibri con lo studio rigoroso dei metodi e dei linguaggi propri delle singole discipline , in particolare con Duns Scoto, Guglielmo d’Ockham, Marsilio da Padova, Giovanni Buridano.

 

 

In questa sezione ci occuperemo in particolare del SECONDO PERIODO



FILOSOFI  e ARGOMENTI AFFRONTATI:

 

 

§        Guglielmo d’Auvergne

§        Enrico di Gand

§        San Bonaventura

§        Raimondo Lullo

§        Roberto Grossatesta

§        Ruggero Bacone

§        Roberto Kilwardby

§        Giovanni Peckham

§        Alberto Magno

§        Teodorico di Vriberg

§        Tommaso d’Aquino

§        Egidio Romano

§        Dal peripatismo all’averroismo (Sarashel, Guglielmo di Shyrewood, Lamberto D’Auxerre, Pietro Giuliani, Sigieri di Brabante, Boezio di Dacia)

§        Il bilancio del XIII

 

 

 

 

 

 

GUGLIELMO D’AUVERGNE

 

Lo sforzo per assimilare l’insegnamento delle filosofie ebraice ed arabe, compiuto degli intellettuali dei periodi precedenti, aveva mostrato chiaramente i rischio che correva la fede cristiana.

 Ma nonostante ciò, l’ammonimento finale di papa Gregorio IX ai teologi di Parigi (1228) di insegnare una teologia scevra da ogni scienza del secolo , senza mescolanza di fantasie filosofiche, non poteva praticamente venire seguito in un ambiente scolastico in cui queste fantasie venivano di fatto insegnate dato che nulla poteva arrestare lo slancio degli studi filosofici, i teologi non videro di meglio da fare che prenderne la direzione.

 

Il nome che finora domina tutti gli altri all’inizio del XIII secolo è quello di Guglielmo d’Auvergne , nato verso il 1180 ad Aurillac, professore di teologia a Parigi, consacrato vescovo di Parigi da Gregorio IX nel 1228. Guglielmo muore nel 1249 lasciando un’opera teologica considerevole, vivace, originale e molto istruttiva sullo stato dei problemi a quell’epoca      

 

OPERE:

De primo principio (1228),

De anima (1230)

De universo (1231-1236).

 

Egli esprime la reazione platonizzante e agostiniana dinanzi ad un mondo arabo che questo secolo non aveva conosciuto.

Guglielmo non scrive in funzione dell’insegnamento; infatti, il suo stile abituale è pertanto piuttosto quello di un conversatore che quello di un oratore .Vivace, spiritoso, talvolta sarcastico, gran narratore di racconti.

La sua opera si configura come la riflessione critica di un teologo della vecchia scuola sulle filosofie arabe che si erano appena scoperte e ha visto chiaramente che non si possono combattere con efficacia delle idee se non si conoscono e che, conseguentemente,  si può trionfare della filosofia solo da filosofi.

Egli ha ben visto l’importanza di Avicenna e il maggior interesse che la sua distinzione di essenza ed esistenza offriva per un teologo cristiano.

 

 

Il termine essere (esse) ha due significati:

1.     In primo luogo l’essenza o sostanza presa in se stessa e spogliata dei suoi accidenti;

2.     ma esso significa anche ciò che il verbo est designa quando lo si predica di una qualunque.

 

La regola ha tuttavia un’eccezione, che è Dio.

“Colui la cui esistenza si predica della sua essenza; perché la sua essenza non può essere concepita senza l’esistenza, poiché essa stessa e il suo esistere sono assolutamente la stessa cosa.”.

 

Guglielmo imbocca, quindi, la via della distinzione di essenza e esistenza, che parte da al-Farabi e da Avicenna per raggiungere la sua conclusione nella metafisica di Tommaso d’Aquino.

Questo principio è anche alla base delle prove dell’esistenza di Dio nel suo De primo principio.

 

 

Ogni essere è tale, sia che la sua essenza includa o non includa l’esistenza. Ogni essere è dunque tale che esiste per se stesso o per altro.

Ora, è inconcepibile che esistano soltanto degli esseri che esistono per altro, perché ogni essere di questo tipo ha una causa della sua esistenza che deve essa stessa essere per sé .

Non resta quindi posto che per tre ipotesi:

1)     ammettere che la serie degli esseri che esistono per altro è in effetti infinita, il che è inconcepibile per la ragione come lo stesso infinito, d’altra parte non spiega niente, perché ciò che si tratta propria di spiegare è l’esistenza di esseri che esistono per altro;

2)     ammettere una serie circolare di esseri che si causano l’un l’altro, il che è assurdo perché allora si ammette che questi esseri si causano indirettamente da se stessi;

3)     ancora ammettere l’esistenza di un essere che esiste per sé, che possiede l’esistenza per essenza e che è Dio.

 

 

Dio, come lo concepisce Guglielmo, è assolutamente semplice, proprio perché in lui l’esse non è separabile dall’essenza, né dalla realtà, né per il pensiero. Non è definibile.

 

L’unico nome che possa convenirgli è quello che egli stesso assume nell’Esodo, Qui est, cioè l’Essere. Ci si può chiedere  quale preciso significato assuma qui la nozione di essere.  Ciò a cui per Guglielmo sembra mirare è la“Necessità di essere” o necesse esse di Avicenna.

Guglielmo d’Auvergne vede chiaramente che questa distinzione è di una natura completamente diversa da quella di materia e forma; egli, infatti,  non la concepisce soltanto come una distinzione ideale posta dalla sola ragione, ma come una distinzione reale, il che non è meno importante.

Dal momento in cui si va oltre, l’esistenza è una specie di accidente dell’essenza, da cui deriva questa seconda differenza fondamentale, che l’esistenza sembra comporsi con l’essenza come un quo est che si aggiungerebbe dall’esterno al quod est di cui sarebbe l’atto.  Egli infatti intende che l’esse della creazione è una partecipazione dell’esse divino.

Esprimendosi così, egli si distingue esplicitamente da Avicenna, per il quale l’esistenza delle cose non è che partecipazione a qualche essere precedentemente emanato dal primo, ma egli unisce così direttamente a Dio l’essenza creata che la sua propria essenza si volatilizza, non essendo più la creatura che un’essenza il cui esistere si riduce tutto ad un semplice “esistere per Dio”. Beninteso, Dio è l’essere per il quale tutte le cose sono , e non ciò che esse sono.

 

Guglielmo paragona, poi,  al rapporto dell’anima col corpo quello dell’esse divino con le essenze create. Ed è proprio per questo che l’esistenza degli esseri rimane loro in certo modo accidentale; poiché l’unica essenza suprema che è Dio, è l’unica esistenza per cui tutto esiste- il che non deroga in nulla alla diversità essenziale delle cose – si può dire dell’esistenza per la quale esse sono, che non è loro essenziale, ma come aggiunta in più.

Nella dottrina di Guglielmo, Dio presta l’esistenza piuttosto che darla, e la creatura sembra non averne nessun’altra che quella per la quale è, piuttosto che non è.

 

La volontà di Dio è eterna, ma libera, e le sue decisioni sono eterne, ma da questo non ne consegue che anche il loro effetto lo sia. Dio ha eternamente e liberamente voluto che il mondo incominciasse nel e col tempo. Creato dal nulla, il mondo lo fu dopo il nulla. Ma Guglielmo rovescia l’argomento: è vero che l’esistenza o la non esistenza del mondo non impedisce a Dio di restare identicamente se stesso; ora, Dio ha creato liberamente il mondo nel tempo, nulla quindi impedisce che il mondo creato acceda all’esistenza nel tempo senza che Dio stesso ne sia in alcun modo colpito. Le creature dunque dipendono da Dio non soltanto nella loro esistenza, ma nella loro natura e nelle loro operazioni.

 

 

La loro efficacia viene quindi dalla sovrabbondanza della loro origine. Indubbiamente le natura create sono tali da poter accogliere questa efficacia; bisogna che una casa abbia delle finestre se si vuole che possa accogliere la luce, ma chi sosterrà che una finestra abbia diritto alla luce? Nella distribuzione universale dell’efficacia divina, soltanto Dio è veramente causa; le creature non sono che dei canali in cui essa circola  quando Dio lo vuole, come egli vuole, finchè gli piaccia di sospenderne il corso.

 

La cosmologia di Guglielmo, fortemente influenzata dal Timeo di Platone, dà un posto a quell’anima del mondo che aveva conquistato nel XII secolo moltissimi spiriti. Dopo aver respinto le intelligenze separate come sostanze creatrici interposte tra Dio e le cose, egli le elimina anche come semplici sostanze motrici. La concezione avicenniana di anime delle sfere, mosse esse stesse dal desiderio delle intelligenze, gli sembra impossibile ed anche ridicola: significa assegnare a queste sostanze intellegibili funzioni paragonabili a quelle di un asino attaccato alla ruota di un mulino. La prima preoccupazione di Guglielmo è, d’altronde, qui, di sopprimere gli intermediari accumulati da Avicenna tra l’anima umana e Dio, che deve essere il nostro solo principio e il nostro solo fine. L’anima è una sostanza spirituale assolutamente semplice, cioè assolutamente scevra da ogni composizione; ciò significa che essa è una e indivisa, qualunque siano le operazioni che essa compie.

Ed è ciò che Guglielmo esprime dicendo che, nell’anima umana come in Dio, l’essenza è la causa immediata delle sue operazioni conoscitive e volontarie, senza che nessuna facoltà distinta dall’anima s’interponga tra lei e le operazioni che compie.

 

 

Poiché l’anima è una e indivisibile, non si può, senza assurdità, attribuirle due intelletti distinti l’uno dall’altro e distinti da lei, l’intelletto possibile e l’intelletto agente. Se si vuole assolutamente parlare di un intelletto , bisogna dire in primo luogo che questo intelletto è l’essenza stessa dell’anima che esercita le sue funzioni conoscitive.

Se c’è una luce dell’anima che la rende capace di conoscere non può che essere Dio.

 

Per quanto riguarda il problema della conoscenza, Guglielmo sostiene  che  la causa attiva dell’idea generale non è altro che l’oggetto individuale percepito dai sensi, e l’operazione che trae l’universale dal particolare è l’astrazione.

Questa operazione si effettua in due tempi:

1)     Il punto di partenza è la sensazione.

2)     La sensazione lascia nell’immaginazione soltanto un’immagine astratta; infatti le nostre immagini sono tutte vaghe come percezioni di oggetti visti da lontano. Questa prima astrazione immaginativa è per l’anima come un’occasionedi ricevere le forme intelligibili che le vengono da un’altra causa.

Se dovessimo credere ad Aristotele e ad Avicenna, questa causa sarebbe una sostanza separata, ma, come dice Guglielmo:

 

L’anima umana è naturalmente posta come sulla linea d’orizzonte di due mondi e ordinata ad entrambi. Uno di questi mondi è il mondo delle cose sensibili al qual essa è strettamente unita col suo corpo ma l’altro è il Creatore (….). E’ dunque il creatore che è la verità eterna, un eterno modello di espressione assolutamente limpida e di rappresentazione espressiva , in breve, lo specchio senza macchia purissimo dove tutto accadde. Questo specchio, come ho detto, è intimamente congiunto e presentissimo agli intelletti umani, davanti ai quali egli è posto naturalmente e dove essi possono leggere, senza intermediario. E’ dunque in lui, come in un libro vivente e in uno specchio che l’intelletto legge (...).”.

 

 

Questo significa ritornare ad Agostino

In un’anima quale la concepisce Guglielmo d’Auvergne, tutto viene dall’interno, in occasione degli stimoli che il corpo subisce dall’esterno, e sotto l’azione interna della luce divina.

 Una dottrina del genere comporta concepire un universo già riempito di forme intelligibili, quasi direttamente percettibili dall’intelletto. Tale era, esattamente, quello di Guglielmo d’Auvergne. Le specie non sono in esso soltanto reali esse sono in esso la realtà stessa.

Per lui tutto si riduce ad una specie di intuizionismo dell’intellegibile che duplica quello del sensibile e che si spiega con l’illuminazione del mondo archetipo, ragione e modello dell’universo, di cui, per i cristiani, il vero nome è il Verbo, figlio di Dio e vero Dio.

 

 

ENRICO DI GAND

(?-1293)

 

Fu un maestro delle arti e poi di teologia all’Università di Parigi.

OPERE:

§        Quodlibeta

§        Summa teologica

 

Enrico parte dalla nozione di essere, ma poiché egli intende evitare il necessitarismo greco da cui s’ispira Avicenna, egli spiega fin dall’inizio l’ontologia del filosofo arabo in un senso cristiano. Invece di dividere l’essere in necessario e possibile, egli lo distingue analogicamente in:

1)     qualcosa che è l’essere stesso”  :essere creato

2)     ciò che è qualcosa a cui l’essere conviene o può naturalmente convenire”:     contiene ogni cosa creata, e la metafisica si costruirà partendo da questa due nozioni.

 

Enrico di Gand precisa che si può, se si vuole, dimostrare Dio partendo dal sensibile , ma che vi si giunge + facilmente e meglio partendo dall’idea dell’essere, perché allora basta constatare che, per uno dei suoi aspetti, l’essere si presenta come ciò di cui l’essenza è identica all’esistenza.

L’essere che non è che l’essere, ma che è tutto l’essere, può chiamarsi indifferentemente il Bene o il Vero, ma egli è tutto questo solo perché egli è ciò la cui essenza è tale che egli è di pieno diritto.

L’essere che è “qualcosa di cui conviene o può naturalmente convenire essere” comprende tutto ciò che rientra o può rientrare nelle categorie. Esso si distingue quindi immediatamente dall’essere divino.

 

Per garantire l’auspicata scissione tra l’essere per sé e gli esseri possibili, un filosofo cristiano dispone della nozione della creazione, ma se egli s’accosta partendo dalla nozione di essere, egli incontra in primo luogo,tra il creatore e le creature, le idee divine……..poiché esse sono le idee di Dio, esse non possono essere concepite come dotate di una sussistenza:esse non hanno dunque altro essere reale che l’essere di Dio. Pertanto, poiché lidea rappresenta una creatura possibile, bisogna bene che, come oggetto della conoscenza, essa si distingua da Dio In quanto tale, l’essenza ideale ha un proprio essere che s’aggiunge a quello di Dio,ma se ne distingue come oggetto di conoscenza; è l’essere dell’essenza in quanto essenza, l’esse essentiae.

 

Enrico di Gand, attribuendo all’Idea un esse essentiae, lo fa diventare un ideato (ideatum).

Enrico di Gand non può accettare il modo in cui Avicenna spiega il passaggio all’esistenza dei mondi possibili così contenuti nell’intelletto divino. Il filosofo arabo ritiene che la volontà di Dio non possa non acconsentire alle generazioni intelligibili che emanano dal suo intelletto.

Per Enrico di Gand, la volontà di Dio acconsente liberamente a concedere l’esistenza ad alcuni possibili, e questo assenso è ciò che si chiama creazione.

Andando oltre, egli ritiene che, poiché le esistenze dipendono in primo luogo dalla volontà di Dio, l’intelletto divino nn le conosca che mediante quest’atto della volontà divina. In questo caso si può parlare di un certo volontarismo a condizione però di non dimenticare che l’atto creatore distingue dallo stesso essere divino soltanto nel nostro pensiero; la creazione comporta una realtà distinta soltanto nella creatura, e cioè la relazione dell’effetto finito con la causa divina da cui dipende.

 

Ciò che distingue la creatura dal creatore è il fatto che Dio è inseparabile dalla sua esistenza , mentre l’esistenza attuale della creatura dipende dalla libera volontà di Dio.

Per il fatto stesso che gli esseri finiti sono delle essenze esistenti, esse sono individuali. Ogni forma creata da un soggetto, la cui unità è sufficiente a distinguerlo da tutto il resto. Attualizzandolo, la creazione pone ogni essere come identico a se stesso e differente dagli altri; è questa identità positiva dell’essere con se stesso che Enrico di Gand esprime dicendo che l’inividuazione si definisce come una duplice negazione:quella che nega ogni differenza di questo essere nei riguardi di se stesso e quella che nega ogni identità di questo essere con uno diverso da lui.

Tra queste creature l’UOMO si definisce come l’unione di un corpo e di un’anima razionale.

Corpo: costituito dalla sua propria forma

Anima: è elevata al di sopra del corpo rimanendo quindi aperta alle influenze intelligibili.

L’anima quindi non informa direttamente il corpo, essas non è la forma corporeitatis; ci sono quindi nell’uomo due forme sostanziali , quella del corpo come tale e quella del composto umano.

Accettando la distinzione tra intelletto possibile e intelletto agente, Enrico spiega l’astrazione :ciò che l’astrazione ci fa raggiungere è si ciò che la cosa è, e poiché noi la raggiungiamo quale è, la conoscenza che ne abbiamo è fondata sul vero; ma essa non ci fa aggiungere l’essenza intelligibile della cosa.

Per pervenirvi non basta astrarre dal sensibile la nozione intelligibile dell’oggetto, bisogna anche definire l’essenza con un giudizio sicuro. Questo non si può fare che con una riflessione che parta, all’opposto del concreto sensibile, dalla nozione prima di essere, e prosegua sotto l’azione regolatrice della luce divina.

 

 

 

SAN BONAVENTURA

 

(Giovanni di Fidanza) nacque a Bognorea, vicino a Viterbo nel 1221 e muore il 15 luglio 1274.

Dal 1248 al 1255 insegna all’università di Parigi.

 

La prima condizione da rispettare, se si vuol studiare e capire San Bonaventura, è quella di considerare la sua opera in se stessa anzichè considerarla come un abbozzo di quella che San Tommaso realizzava contemporaneamente.

La dottrina di San Bonaventura è caratterizzata da uno spirito che le è proprio ed essa procede, per delle vie che ha scelto coscientemente, verso un fine perfettamente definito. Questo fine è L’AMORE DI DIO; e le vie che conducono ad esso sono quelle della teologia. La filosofia deve aiutarci a realizzare il nostro disegno, aderendo volontariamente alle dottrine dei maestri (Alessandro di Hales); Bonaventura non esiterà ad accogliere dalle nuove dottrine tutto ciò che gli permetterà di completare gli antichi.

 

OPERE

·   Commento alle sentenze

·   Itinerarium mentis in Deum (nel quale è sviluppata la sua dottrina)

 

L’anima umana è fatta  per cogliere un giorno il bene infinito che è Dio, per riposarsi in lui e poter goderne. Di questo oggetto supremo verso cui tende, l’anima possiede fin da quaggiù una conoscenza imperfetta, ma molto sicura, che è la fede.

Il filosofo è meno sicuro di ciò che sa di quanto non lo sia il fedele di ciò che crede. E nondimeno è la stessa fede nella verità rivelata che è l’origine della speculazione filosofica. In effetti, laddove la ragione è sufficiente a determinare l’assenso, la fede non potrebbe trovare posto, perché noi possiamo apprenderlo razionalmente. Non è più dunque per ragione, ma per amore di questo oggetto che noi facciamo atto di fede.

Ed allora entra in  gioco anche la speculazione filosofica. Colui che crede per amore vuole avere ragioni per la sua fede; niente è più dolce per l’uomo che capire ciò che ama; così la filosofia nasce da un bisogno del cuore che vuole gioire pienamente dell’oggetto della sua fede.

Questo vuol dire che filosofia e teologia, distinte per i loro metodi, si continuano e si contemplano l’una con l’altra, al punto di presentarsi come guide che ci conducono verso Dio.

Il fine ci è dato dalla fede, noi lo possediamo già, aderiamo ad esso con l’amore, ma con una presa incerta e con un’adesione spesso vacillante, perché ci manca la conoscenza chiara sulla quale si fonderebbe un amore immutabile

Tutta la nostra vita è un pellegrinaggio verso Dio; la strada che noi seguiamo, se siamo sulla buona via, è la VIA ILLUMINATIVA.

Colui che segue la via illuminativa, credendo e sforzandosi di capire ciò che crede, ritrova in ciascuna delle sue percezioni, e in ciascuno dei suoi atti di conoscenza, Dio stesso nascosto  all’interno delle cose.

La dottrina di San Bonaventura si pone come un “itinerario dell’anima verso Dio”; ed è per questo che tutta la sua filosofia giunge a mostrare un universo in cui ciascun oggetto ci parla di Dio, ce lo rappresenta a suo modo e ci invita a volgerci verso di lui. Se la vita non è che un pellegrinaggio verso Dio, il  sensibile è la strada che ci conduce a lui.

Prima del peccato originale l’uomo poteva gioire tranquillamente della contemplazione di Dio, e    per questo Dio l’aveva posto in  un paradiso di delizie. Ma dopo il peccato e per esso, l’uomo è colpito dall’ignoranza nello spirito e dalla concupiscenza nella carne.Ci occorre quindi ora uno sforzo constante della volontà e  l’aiuto della grazia divina per risollevare verso Dio un viso che abbiamo rivolto verso terra.

Per giungere alla sapienza bisogna ottenere con la preghiera:

§        la grazia riformatrice

§        la giustizia purificatrice

§        la scienza illuminatrice

 

La grazia è il fondamento di una volontà retta e di una ragione chiaroveggente; dobbiamo quindi dapprima pregare, in seguito vivere santamente, essere finalmente attenti alle verità che si scopriranno, e, contemplandole, elevarci progressivamente fino alla sommità.

Dobbiamo dapprima combattere le conseguenze del peccato e rimettere i nostri mezzi conoscitivi in una condizione più simile che è possibile a quella in cui li abbiamo ricevuti. Allora soltanto la via illuminativa ci è aperta e il senso offuscato dell’universo torna ad esseri intelligibile.

Dio, creatore dell’universo, è LA VERITA’ ESSENZIALE , TRASCENDENTE. Dio non è vero in rapporto ad altro, poiché egli è l’essere totale e supremo; sono le cose che, invece, saranno vere in rapporto a lui.

La verità delle cose, paragonata al loro principi, consiste nel rappresentare, cioè nell’imitare la prima e suprema verità ;è questa la vera somiglianza tra le creature e il creatore che ci permetterà di sollevarci dalle cose sino a Dio. Non però che questa somiglianza implichi una partecipazione delle cose all’essenza di Dio, perché non c’è niente di comune tra Dio e le cose. E non può darsi nemmeno che questa somiglianza consista in una fedelissima imitazione di Dio, perché il finito non può imitare l’infinito.

LA SOMIGLIANZA REALE  che esiste tra creatore e creature è una somiglianza di ESPRESSIONE  ;le cose stanno a Dio come i segni al significato che essi esprimono; esse costituiscono quindi una specie di linguaggio , e l’universo non è che un libro nel quale si legge ovunque la trinità.

E se si chiede perché Dio ha creato il mondo su questo piano la risposta da dare sarebbe semplicissima: il mondo non ha altra ragione d’essere che quella di esprimere Dio, è un libro che è stato scritto soltanto per essere letto dall’uomo e per richiamarlo incessantemente all’amore del suo autore.

Tre tappe fondamentali segneranno i momenti di quest’ascesa:

                 I.  ritrovare le vestigia di Dio nel mondo sensibile

              II.  ricercare la sua immagine nella nostra anima

           III.  supera le cose create e ci introduce nelle gioie mistiche della conoscenza e dell’adorazione di Dio

 

PRIMA TAPPA: Ritrovare Dio grazie alle vestigia che egli ha lasciato nelle cose significa “entrare nella vita di Dio” e significa anche ritrovare lungo la strada tutte le prove della sua esistenza.

San Bonaventura pensa che si possa dedurre l’esistenza di Dio partendo da qualunque cosa, di modo che, per uno spirito e un cuore purificati, ogni oggetto che ogni aspetto tradisce la presenza segreta del suo Creatore.

 

SECONDA TAPPA: Le prove attraverso il modo sensibile che egli, presentandocele, ci dà come acceccanti evidenze, sembrano a San Bonaventura solo degli esercizi mentali quando pensa alla prova più decisiva che ci offre quest’immagine di Dio che è la NOSTRA ANIMA.

Considerando il mondo sensibile noi possiamo in effetti ritrovarvi l’ombra di Dio perché tutte le proprietà della cose richiedono una causa: possiamo anche trovarvi le sue vestigia cercando nell’unità, la verità e la bontà che esse possiedono l’impronta della loro causa efficiente, formale e finale: ma, nell’un e nell’altro caso noi volgiamo le spalle, per così dire, alla luce divina di cui nelle cose cerchiamo solo dei riflessi. Cercando Dio nella nostra anima, invece, noi ci volgiamo verso Dio stesso; il che fa sì che noi troviamo in essa non più un’ombra o un vestigio, ma l’immagine stessa di Dio; è perché non ne è soltanto la causa ma anche l’oggetto.

Per definire pienamente una qualunque sostanza particolare, bisogna richiamarsi a principi sempre più elevati finchè si arriva all’idea di un essere i s è la presenza in noi dell’idea di perfetto e assoluto che ci permette di conoscere il particolare come imperfetto e relativo.

Noi troviamo direttamente Dio ogni volta che scendiamo abbastanza profondamente in noi stessi. Il nostro intelletto è congiunto alla stessa verità eterna; abbiamo in noi naturalmente infusa l’immagine di Dio: come noi conosciamo direttamente la nostra anima e le sue operazioni, così conosciamo Dio senza l’aiuto dei sensi esterni.

 

 

Se quindi l’esistenza di Dio sembrasse mancare di esistenza, questo non potrebbe essere che mancanza di riflessione da parte nostra .Noi conosciamo Dio perchè egli è già PRESENTE.

 

 

Se è la presenza di Dio che fonda la conoscenza che di lui abbiamo, è sottinteso che l’idea che noi abbiamo di Dio ne implica l’esistenza. Essa la implica precisamente perché l’impossibilità in cui noi ci troviamo di pensare che Dio non esista risulta immediatamente dalle necessità intrinseca della sua esistenza.E’ dunque la necessità di Dio stesso che, illuminando costantemente le nostra anima, rendere impossibile per noi pensare che Dio non esista, né di sostenerlo senza contraddizione.Poiché egli è l’essere puro e semplice, immutabile e necessario, è una sola e medesima cosa dire che Dio è Dio, o dire che egli esiste.Ciò che è inseparabile dal nostro pensiero ed impresso prontamente in esso è l’affermazione dell’esistenza di Dio, non assolutamente la comprensione della sua essenza.

 

TERZA TAPPA: Noi potremmo superare questa seconda tappa dell’itinerario dell’anima verso Dio e chiedere alla mistica la gioia inesprimibile della presenza divina; ma uscendo dall’esprimibile, usciremmo forse dalla filosofia. Qui, dice lo stesso San Bonaventura, bisogna concedere poco alla parola e alla penna, e concedere tutto al dono di DIO, cioè allo SPIRITO SANTO.

L’anima è essenzialmente una, ma le sue facoltà, o potenze, si diversificano secondo la natura degli oggetti ai quali essa si applica. Essa può farlo, perché essa stessa è contemporaneamente una sostanza intelligibile completa in sé, al punto che può sopravvivere alla morte di un corpo, e la forma del corpo organizzato che essa anima.

In quanto anima il corpo essa esercita la sue funzioni sensitive negli organi dei sensi. L’anima stessa subisce spiritualmente quest’azione in quanto proprio essa è animatrice del corpo, ma reagisce subito, dando un giudizio sull’azione che ha appena subito e questo giudizio è la CONOSCENZA SENSIBILE (dottrina che concepisce la sensazione come azione dell’anima  )

 

Le immagini sensibili sono i dati da cui l’intelletto astrae la conoscenza intelligibile; l’astrazione è l’opera dell’intelletto possibile che, volgendosi verso queste immagini, esercita le operazioni necessarie per ritenere di questi dati soltanto il loro elemento comune e universale astrazione viene intesa come uno sforzo di attenzione, di scelta, di raggruppamento dei dati sensibili da parte della ragione. L’intelletto possibile è una facoltà attiva dell’intelletto che prepara le nozioni intelligibili e le accoglie in sé. Lo si chiama “possibile” perché da solo non sarebbe sufficiente a questo compito. Ogni anima umana possibile possiede, oltre al suo intelletto possibile, anche il suo intelletto agente, la cui funzione è quella di illuminare l’intelletto possibile e di renderlo capace di effettuare l’astrazione.

Come l’intelletto possibile non è privo di attualità, l’intelletto agente non p esente da ogni potenzialità ;ATTO PURO, esso sarebbe un’Intelligenza agente separata    

Intelletto agente e intelletto possibile sono due funzioni distinte di una sola e medesima anima nel suo sforzo per assimilare ciò che il sensibile contiene di intelligibilità;lo sforzo di astrazione si impone soltanto quando il suo pensiero volge la sua faccia inferiore verso i corpi per acquisirne la scienza, non quando esso volge la sua “faccia superiore” verso l’intellegibile per acquisirne la sapienza.

 

Il ricorso alla conoscenza sensibile è necessario all’intelletto per conoscere tutto ciò che gli è estraneo (prodotti arti meccaniche e tutti gli oggetti naturali gli sono estranei). Tutto è diverso quando l’intelletto si volge verso l’anima , sempre presente a se stessa e verso Dio che ancor più gli è presente .Dal momento in cui noi andiamo al di là degli oggetti sensibili per elevarci alle verità intelligibili, facciamo appello ad una lice interiore che si esprime nei principi della scienza e della verità naturale innati all’uomo.

 

 

 

San Bonaventura tenta una sintesi di Aristotele e Platone

ARISTOTELE: ha saputo parlare il linguaggio della scienza e ha ben visto che non ogni conoscenza si elabora nel mondo delle idee

PLATONE: ha parlato il linguaggio della sapienza affermando le ragioni eterne e le idee

AGOSTINO: illuminato dallo Spirito Santo, ha saputo parlare di entrambi i linguaggi.

 

Se Sant’Agostino ha potuto realizzare questa sintesi, è grazie alla sua dottrina dell’illuminazione dell’intelletto da parte delle idee di Dio.

La dottrina di San Bonaventura consiste nello spiegare la presenza di verità necessarie nel pensiero umano con l’azione diretta e immediata delle idee divine sul nostro intelletto; ci si chiede come l’intelletto umano possa raggiungere una conoscenza certa.

Una conoscenza certa presenta due caratteri:

1)     essa è immutabile quanto all’oggetto conosciuto

2)     infallibile quanto al soggetto conoscente

 

Ora, né l’uomo è un soggetto infallibile, né gli oggetti che egli raggiunge sono immutabili. Se l’intelletto umano, quindi, possiede delle conoscenze sicure, è perché le idee divine stesse, che sono degli intelligibili immutabili, illuminano l’intelletto umano nella sua conoscenza degli oggetti corrispondenti.

 

Non ci si allontanerebbe tuttavia dalla verità dicendo che San Bonaventura spiega ogni vera conoscenza dell’intellegibile con l’azione e la presenza in noi di un raggio affievolito debole luce divina. Diciamo raggio affievolito perché San Bonaventura dichiara sempre che noi non raggiungiamo mai le ragioni eterne o idee quali esse sono in Dio, ma come loro riflesso.

Ma è sicuro d’altra parte che le idee divine, o ragioni eterne, sono proprio la regola immediata delle nostre conoscenze.

 

Se ogni conoscenza vera suppone che noi raggiungiamo le ragioni eterne, e se noi non raggiungiamo che confusamente queste ragioni eterne.

domanda: non ne segue che noi, quaggiù, non abbimo nessuna conoscenza veramente fondata?

Indubbiamente, risponde San Bonaventura, e bisogna convenire. Noi abbiamo quaggiù delle conoscenze certe e chiare perché i principi creati che Dio ha posto in noi e per i quali noi conosciamo le cose, ci appaiono chiaramente e senza veli. Ma questa conoscenza chiara e certa non è completa; le manca sempre il suo fondamento ultimo .

Perché questo duplice aspetto dell’anima della conoscenza?Perché l’uomo si trova posto in una situazione intermedia, senza dubbio infinitamente più vicino alle cose che a Dio, ma tuttavia tra Dio e le cose.

 

L’anima, centro posto tra i due estremi, si volge per la sua parte superiore a Dio e per la sua parte inferiore si volge verso le cose. Di ciò che è al di sotto di lei essa riceve una relativa certezza; da ciò che sta al di sopra di lei essa riceve una certezza assoluta.

 

Per quanto concerne la concezione del mondo, San Bonaventura crede che sia contraddittorio ammettere che il mondo sia esistito dall’eternità. Se l’universo continuasse ad esistere dopo un tempo infinito già trascorso, bisognerebbe ammettere che l’infinito può aumentare dato che dei giorni nuovi si aggiungono ai vecchi; o che di due numeri egualmente infiniti come quello delle rivoluzioni lunari e quello delle rivoluzioni solari, l’uno è dodici volte maggiore dell’altro; o che il mondo non ha avuto limite iniziale, e di conseguenza non ha avuto limite iniziale, e di conseguenza non ha potuto arrivare al limite attuale poiché la durata da trascorrere sarebbe stata infinita. Osserviamo infine che non potrebbe esistere simultaneamente un’infinità di oggetti o di individui.

Se ora consideriamo la struttura stessa della creazione constateremo dapprima che in tutte le cose create l’essenza è realmente distinta dall’esistenza; ciascuna di esse richiede l’efficacia del creatore.

Ma, inoltre, tutti gli esseri creati sono composti di materia e di forma, cioè semplicemente di possibile e di atto. In se stessa la materia non è necessariamente né corporea né materiale; essa diventa questo o quello soltanto secondo  la forma che riceve. Se soltanto Dio è Atto puro, è necessario che in ogni essere finito il lato da cui viene limitata la sua attività lasci posto ad una certa possibilità di essere, ed è per questo che si chiama materia; così gli angeli e le anime umane sono composti di una MATERIA SPIRITUALE e della FORMA che la determina.

 

L’unione della materia e della forma, ecco il vero principio dell’individuazione. Ma combinando questa teoria dell’individuazione con quella della materia universale, otteniamo due nuove conseguenze:

1.     non si sarà obbligati ad ammettere con San Tommaso che l’angelo, perché privo di materia, non può essere che una specie indivudale piuttosto che un vero individuo.

2.     Non avremo nessuna difficoltà a spiegare la sopravvivenza dell’anima dopo la distruzione del corpo.

 

L’anima è già una forma completa per se stessa, composta della sua materia e della sua forma, indipendentemente dal corpo che a sua volta essa informerà. L’anima s’impadronisce del corpo già costituito e gli conferisce la sua perfezione, ma essa conserva la sua perfezione propria distaccandosene.

Due altre dottrine:

1.     la tesi della PLURALITA’ DELLE FORME: ogni essere implica altrettante forme quante sono le diverse proprietà che egli possiede; in ogni cosa si scoprirà dunque una molteplicità di forme che si dispongono gerarchicamente in modo da costituire un’unità. Ciò è vero per i corpi più semplici ed anche per gli elementi. Un corpo, infatti, implica almeno sempre due forme differenti; l’una, che è generale e comune a tutti, è la forma della luce alla quale partecipano tutte le cose; l’altra, o altre, che gli sono particolari e che sono le forme dei misti, gli elementi.

2.     CONCEZIONE STOICA DELLE RAGIONI SEMINALI: la materia, che per se stessa sarebbe completamente passiva, riceve immediatamente una determinazione virtuale dalle forme sostanziali che sono in  è allo stato latente, aspettando che più tardi esse,sviluppandosi, la informino. Tutti i fenomeni e tutti gli esseri dell’universo si spiegano così con lo sviluppo delle forme di ragioni seminali primitive la cui origine è Dio.

 

 

 

 

RAIMONDO LULLO

(1235-1315)

 

Dalla sua “Disputatio clerici et Raymundi phantastici” la vita di Raimondo ci appare interamente dominata dalle preoccupazione apostoliche;  dalle sue opere si arriva ben presto a figurarselo come una persona dotata di grande immaginazione e anche come illuminato, che crede di ricevere la sua dottrina da una rivelazione divina e che si applica, con ardore un po’ chimerico, alla diffusione di un metodo di apologetica di sua invenzione.

La famosa arte di Lullo non è altro che l’esposizione di questo METODO               consiste in TAVOLE sulle quali sono scritti dei concetti fondamentali, in modo che , combinando le diverse posizioni possibili di queste tavole le une in rapporto alle altre, si possono ottenere meccanicamente tutte le relazioni di concetti corrispondenti alle verità essenziali della religione.

 

Occorre effettivamente un metodo, ma ne occorre uno solo, per convincere di errore musulmani e averroismi   nell’uno e nell’altro caso ci si trova in presenza dello stesso problema perché si ha a che fare con dei pagani.

MUSSULMANI: negano la nostra rivelazione

AVERROISTI: rifiutano, per ragioni di principio, di prenderla in considerazione.

 

La filosofia (argomenta con la sola ragione) e la religione (argomenta in nome dei dati rivelati) si trovano separate da un abisso            e bisogna riuscire a stabilire un accordo tra le due scienze.

La teologia è madre e maestra della filosofia ; deve esserci dunque tra la teologia e filosofia lo stesso accordo che si incontra tra causa ed effetto. Per rendere manifesta questa concordanza bisogna partire dai principi che siano riconosciuti ed accettati da tutti, ed è per questo che Raimondo propone la lista di quelli che compaiono nella tavola generale, principi generali e comuni a tutte le scienze, noti ed evidenti per sé.

Questi principi sono: bontà,grandezza,eternità o durata, potenza, sapienza, volontà, virtù, verità e gloria; differenza, concordanza, contrarietà, principio, mezzo, fine, maggiore, eguaglianza, minore. Tutti gli esseri o sono implicati in questi principi, o si sono sviluppati secondo la loro essenza e la loro natura. Raimondo Lullo aggiunge alla sua lista, ed è in questo il segreto della sua Ars magna , le regole che permettono di combinare correttamente questi principi: e tutte le combinazioni che le tavole di Lullo rendono possibili corrispondono esattamente a tutte le verità e a tutti i segreti della natura che l’intelletto umano può cogliere in questa vita.

Le regole che permettono di determinare le combinazioni dei principi sono una serie di domande molto generali ed applicabili a tutte le altre; di che cosa, perché, quanto, quale, quando, dove

In un dialogo in cui vediamo Lullo convincere senza difficoltà un Socrate eccezionalmente docile, il filosofo greco si lascia imporre come naturalmente evidenti delle proposizioni da cui risulta immediatamente la dimostrazione della Trinità. Lullo considera come una regola dell’arte dell’invenzione questa, per cui l’intelligenza umana  po’ elevarsi al di sopra delle constatazioni dei sensi ed anche correggerle. Socrate ammette volentieri che l’intelletto trascende i sensi e deve trascendere perfino se stesso riconoscendo l’esistenza necessaria delle cose che non comprende.

 

Questi arzigogoli sui quali Lullo inscrive i suoi concetti fondamentali sono il primo tentativo di quell’“Arte combinatoria” che Leibniz ha sognato, più tardi, di costituire. Come i tempi moderni hanno voluto fondare sulla sola ragione la società universale che il Medioevo stabiliva sul fondamento della fede, così essi hanno avuto l’ambizione di mettere al servizio della scienza quest’arte universale della dimostrazione che il pensiero medievale aveva voluto mettere al servizio della fede             “Il mondo moderno è pieno di idee cristiane diventate matte”, diceva G.K. Chesterton.

 

L’influenza del Dottore Illuminato s’è esercitata d’altronde in altre direzioni. E’ un’antica idea cristiana quella per la quale Dio s’è manifestato in due libri, la Bibbia e il Libro del mondo .Nella traslucidità di un universo in cui il più piccolo degli esseri è un vivente indizio della presenza di Dio.

Per la stessa luce, egli seppe che l’essere totale delle creature non è nient’altro che una imitazione di Dio

L’ Ars magna è possibile solo nel caso che, essendo tutte le creature imitazioni di Dio, le loro proprietà fondamentali e le relazioni di queste proprietà tra loro possano aiutarci a conoscere quelle di Dio. Stando così le cose l’arte di combinare le perfezioni delle creature in tutti i modi possibili ci svelerà al tempo stesso tutte le combinazioni possibili delle perfezioni di Dio, ma bisogna aggiungere che, la conoscenza delle cose si trasforma in teologia.

L’influenza di Lullo è riconoscibile nell’opera di Raimondo di Sebond, Liber creaturarum  terminato nel 1436. Come egli crede nel 1434, Sebond intraprende ad esporre “la scienza del libro delle creature”, che ogni cristiano deve possedere per poterla difendere e , all’occorrenza, per poter morire per essa. Il carattere distintivo di questa scienza è la sua facilità. Con essa, ognuno può conoscere “realmente e senza difficoltà né fatica ogni verità necessaria all’uomo”.

I due soli libri che Dio stesso ci ha dato sono, infatti, il libro della natura e quello della Sacra Scrittura.

·        Il primo ci è stato dato prima dell’altro, al momento stesso della creazione: ogni creatura vi sta come una delle lettere scritte da Dio, di cui l’uomo è la principale.

·        Il libro della Scrittura non è stato dato che in seguito, dopo che l’uomo fu inventato incapace di leggere il primo in conseguenza del peccato, e non è fatto per tutti, perché soltanto i sacerdoti sanno leggerlo, mentre il libro della natura è comune a tutti. Impossibile falsificare quest’ultimo, cancellarlo o interpretarlo male; per questo la sua lettura non può rendere nessuno eretico, mentre il libro della Scrittura può essere falsificato o falsamente interpretato. Opere dello stesso Autore, questi due libri non possono mai contraddirsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Da Roberto Grossatesta a Giovanni Peckham

 

Si ricorderà il brusco offuscamento delle scuole di Charters alla fine del XII secolo: esse scompaiono nella luce troppo vicina della nascente Università di Parigi. L’opera che esse avevano incominciato non finisce tuttavia con loro.

 

 

La cultura inglese dei XIII secolo, soprattutto ai suoi inizi e prima della sua contaminazione per l’influenza dell’ambiente scolastico di Parigi, assomiglia molto, invece, ad una cultura chartriana arricchita degli ultimi apporti del platonismo arabo in filosofia e in scienza.

In questa città si era formato un vero ambiente anglo-francese, umanista, platonico e matematico. E’ certo in ogni caso che Oxford, dove stanno per affluire le nuove scienze prese a prestito dagli Arabi, resterà lungamente fedele all’ideale che aveva ispirato Chartres.

Il primo rappresentante di queste varie tendenze è l’inglese Roberto Grossatesta uno dei più illustri maestri di Oxford, morto vescovo di Lincoln (1175-1253).

 

 

I Maestri di Oxford

Roberto Grossatesta è uno dei rari filosofi del suo tempo che abbiano saputo il greco. Gli si deve:

·        l’antiqua translatio dell’Etica nicomachea;

·        inoltre egli ha scritto un importante commento agli Analitici secondi;

·        un commento della Fisica ancora inedito;

·        delle traduzioni e commento di Dionigi l’Areopagita, ugualmente inediti;

·        infine un’ampia compilazione sull’Hexaemeron, ugualmente inedito, in cui si trova abbozzata la dottrina della luce ch’egli ha sviluppato e precisato più tardi in parecchi opuscoli.

 

E’ sotto l’influenza del neoplatonismo e delle Prospettive (o trattati di Ottica) arabe, che Grossatesta è arrivato ad attribuire alla luce un ruolo capitale nella produzione e costituzione dell’universo; ma nel suo De luce seu de inchoatione formarum questa vecchia concezione raggiunge una piena coscienza di se stessa e si sviluppa in modo perfettamente conseguente.

 

 

All’inizio Dio crea dal nulla e simultaneamente la materia prima e la forma di questa materia

 

Basta supporre che Dio abbia dapprima creato un semplice punto materiale così informato. Questa  forma è in effetti la luce; ora, la luce è una sostanza corporea molto sottile, che s’avvicina all’incorporea, e le cui proprietà caratteristiche sono di generare perpetuamente se stessa e di diffondersi sfericamente attorno ad un punto in modo istantaneo.

Questa diffusione della luce non può essere ostacolata che per due ragioni:

1.     o essa incontrerà un ostacolo opaco che la ferma;

2.     oppure essa finisce col raggiungere il limite estremo della sua possibile rarefazione e la sua propagazione per questo finisce.

Questa sostanza formale è anche il principio attivo di tutte le cose; essa è la prima forma corporea, che alcuni chiamavano corporeità.

La formazione del mondo = Originariamente, forma e materia luminosa, poiché si riducono entrambe ad un punto, sono egualmente in estese; ma noi sappiamo che darsi un punto di luce significa darsene simultaneamente una sfera; appena dunque esiste la luce, essa si diffonde istantaneamente, e, nella sua diffusione, trascina ed estende con sé la materia da cui è inseparabile.

Avevamo dunque ragione di dire che la luce è l’essenza stessa della corporeità,o, meglio ancora, la corporeità stessa.

Prima forma creata da Dio nella materia prima, essa si moltiplica infinitamente e si espande ugualmente in tutte le direzioni, dilatando fin dall’inizio dei tempi la materia alla quale essa è unita e costituendo così la massa dell’universo che contempliamo.

Il prodotto dell’infinita moltiplicazione di qualcosa supera infinitamente ciò che viene moltiplicato. Ora, se si parte dal semplice, basta una quantità finita per superarlo infinitamente.

La luce che è semplice, infinitamente moltiplicata, deve dunque estendere la materia, ugualmente semplice, secondo dimensioni di grandezza finita. Così si forma una sfera finita, la cui materia è al suo estremo limite di rarefazione ai bordi, più spessa e più densa, invece, via via che ci si avvicina al centro. Dopo questo primo movimento di espansione che fissa i limiti dell’universo, la materia centrale resta quindi capace di rarefarsi ancora . Per questo le sostanze corporee del mondo terrestre sono dotate di attività.

Il limite esterno della sfera costituisce il firmamento che a sua volta riflette una luce (lumen) verso il centro del mondo. E’ l’azione di questa luce riflessa (lumen) che genera successivamente le nove sfere celesti, la più bassa delle quali è quella della Luna. Al di sotto di quest’ultima sfera celeste inalterabile e immutabile, si dispongono in profondità le sfere degli elementi: fuoco, aria, acqua e terra. La terra quindi riceve e concentra in sé le azioni di tutte le sfere superiori; per questo i poeti la chiamano Pan. Cioè il Tutto.

 

Il merito principale di Roberto Grossatesta non è forse di aver immaginato questa cosmogonia della luce; bisogna lodarlo anche perché egli afferma la necessità di applicare la matematica alla fisica. E’ estremamente utile considerare le linee, gli angoli e le figure perché, senza il loro aiuto, è impossibile conoscere la filosofia naturale.

Per questo Grossatesta scrive il suo opuscolo De lineis, angulis et figuris. Egli vi definisce il modo normale di propagazione delle azioni naturali, che avviene in linea retta, sia direttamente, sia secondo le leggi della riflessione e della rifrazione. Quanto alle figure, le due che è indispensabile conoscere e studiare sono la sfera, perché la luce si moltiplica sfericamente, e la piramide, perché l’azione più potente che un corpo possa esercitare su di un altro è quella che parte da tutta la superficie dell’agente per concentrarsi su di un solo punto del paziente.

Una simile formula rende più facile da capire la profonda ammirazione che Ruggero Bacone ebbe per il suo maestro.

Grossatesta non ha limitato  la sua ipotesi alla spiegazione del mondo materiale e del regno inorganico; egli l’ha estesa ai fenomeni della vita e all’ordine della conoscenza stessa.

E’ attraverso la luce che Dio agisce sul mondo, ora, l’uomo è come un piccolo mondo in cui l’anima occupa lo stesso posto che Dio occupa nel grande. E’ ancora con la luce, quindi, che l’anima agisce sui sensi e sull’intero corpo.

Grossatesta afferma che l’anima può agire sul corpo, ma che, dato che il meno nobile non può agire sul più nobile, il corpo non può agire sull’anima.

Il problema si pone a proposito della parte superiore dell’anima, l’intelligenza.

Per risolverlo Grossatesta, introduce la luce come intermediario tra questa sostanza puramente spirituale che è l’anima e la sostanza grossolanamente materiale che è il corpo.

Esiste una luce spirituale che sta alle cose intelligibili come la luce corporea sta alle cose sensibili. Conoscere una cosa significa conoscere la causa formale che è in lei, cioè la forma per la quale questa cosa è ciò che è. L’operazione con cui noi conosciamo questa forma è l’astrazione.

Per sua natura l’intelligenza , che è la parte superiore della nostra anima, non è l’atto del corpo e non ha bisogno di nessun organo corporeo per il suo operare.  Se essa non fosse appesantita dalla massa del corpo, potrebbe conoscere le forme sensibili direttamente, come le conoscono Dio e gli angeli.

Grossatesta spiega successivamente come l’anima, intorpidita, per così dire, nel corpo, si desti poco a poco all’intellegibile sotto l’urto ripetuto delle sensazioni, analizzi la complessità degli oggetti, divida il colore dalla grandezza , dalla figura e dalla massa, poi la figura e la grandezza dalla massa, e così  via, finché giunge così a conoscere la sostanza corporea che regge questi diversi accidenti. Se dobbiamo passare così attraverso le sensazioni, è perché la nostra anima, accecata dall’amore che ha per il suo corpo, non può vedere che ciò che ama.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con Ruggero Bacone, discepolo e compatriota di Roberto Grossatesta, l’interesse rivolto alle ricerche e ai metodi scientifici non fa che accentuarsi. All’esigenza della matematica va ad aggiungersi quella, non meno imperiosa, della conoscenza sperimentale.

Nato verso il 1210-1214 nei dintorni di Ilchester, nel Dorsetshire .

Egli fece i suoi primi studi ad Oxford.  A Parigi, dove fu oggetto di sospetti e di persecuzioni continue fino al momento in cui il suo protettore, Guido Fulcoldi, divenne papa sotto il nome di Clemente IV ( 1265). E’ durante la breve tregua che corrispose per lui a questo pontificato (1265-1268) che Ruggero Bacone redasse il suo Opus maius, composto su richiesta dello stesso papa. Nel 1292 compose il suo ultimo scritto, il Compendium studii theologiae. Ci è sconosciuta la data della sua morte.

Bacone è innanzitutto e in primo luogo uno scolastico, ma è un uomo che ha concepito la scolastica in maniera completamente diversa da Alberto Magno o san Tommaso d’Aquino.

 

 

Egli infatti non è sfuggito all’ossessione della teologia che caratterizza il Medioevo, e questo è un tratto che è importante sottolineare se non si vuole rappresentarsi Bacone sotto una luce completamente falsa.

La seconda parte dell’Opus maius è interamente dedicata a definire i rapporti tra filosofia e teologia. Ora, il suo atteggiamento su questo punto è perfettamente chiaro: c’è una sola sapienza perfetta e un’unica scienza che domina tutte le altre, è la teologia, e le due scienze sono indispensabili per spiegarla: il diritto canonico e la filosofia.

Due ragioni decisive provano infatti che la filosofia rientra nella teologia e ci si subordina.

1.     la prima è che la filosofia è il risultato di una influenza dell’illuminazione divina nel nostro spirito. Senza confondersi con gli averroismi, che egli del resto confuta vigorosamente, Bacone usa una terminologia averroista. Egli dà il nome di intelletto agente al maestro interno che ci istruisce e che sant’Agostino e san Bonaventura chiamavano il Verbo. E’ quindi l’intelletto agente che agisce sulle nostre anime versandovi la virtù e la scienza in maniera tale che noi siamo incapaci di acquisirle da noi stessi e dobbiamo riceverle dall’esterno.

2.     la filosofia è il risultato di una rivelazione. Non soltanto Dio ha illuminato gli spiriti umani per permettere loro di conseguire la sapienza, ma anche gliela ha rivelata.

 

Ecco dunque come Bacone s’immagina la storia della filosofia. Essa è stata dapprima rivelata ad Adamo ed ai Patriarchi, e se noi sappiamo ben interpretare la Scrittura, vedremo che essa si ritrova interamente, per quanto sotto una forma immaginosa e colorita,sotto al loro senso letterale. I filosofi pagani, i poeti dell’antichità e le Sibille sono tutti posteriori ai veri e fedeli filosofi che furono i discendenti di Set e di Noè.

Dio ha dunque rivelato loro tutto ed ha concesso loro una lunga vita  (600 anni) per permettere loro di completare la filosofia per mezzo dell’esperienza. Ma successivamente la malizia degli uomini e i loro abusi di ogni genere divennero tali che Dio oscurò il loro cuore e la filosofia cadde in disuso. E’ l’epoca di Atlante, di Prometeo, di Mercurio, di Apollo e di altri che si facevano adorare come degli dei per la loro scienza. Bisogna arrivare ai tempi di Salomone per assistere ad una specie di rinascimento e vedere la filosofia ritrovare la sua prima  perfezione. Dopo Salomone lo studio della sapienza scompare nuovamente a causa dei peccati degli uomini, finché lo riprende Talete e tutti i suoi successori lo sviluppano nuovamente. Si arriva così ad Aristotele che ha reso la filosofia tanto perfetta quanto poteva esserlo ai suoi tempi. I filosofi greci sono dunque i discepoli e i successori degli Ebrei; essi hanno trovato la rivelazione fatta da Dio ai patriarchi e ai profeti, rivelazione che non avrebbe avuto luogo se la filosofia non fosse stata conforme alla sua legge sacra, utile ai figli di Dio, infine necessaria all’intelligenza e alla difesa della fede.

 

“Così dunque la filosofia non è che la spiegazione della sapienza divina, con la dottrina e con la condotta morale.”.

 

Bacone non è solo un filosofo, è anche un profeta.

Il pensiero segreto che anima Bacone è che il XIII secolo è un’epoca di barbarie analoga alle due precedenti che l’umanità ha dovuto attraversare a causa dei suoi peccati. E come può egli quindi concepire la sua missione se non come analoga a quella di Salomone e di Aristotele?

Questa profonda coscienza di una missione da compiere, il sentimento che egli ha di venire ad inserirsi in un posto d’onore nella storia del mondo e del pensiero umano spiegano il tono altero ed aggressivo che egli spesso usa, il suo disprezzo degli avversari, il linguaggio da riformatore e restauratore con il quale egli si rivolge allo stesso papa; e infine anche l’ostilità impietosa che gli hanno votato i suoi superiori.

Si noterà, inoltre, che quest’uomo, per il quale la filosofia non è che una rivelazione ritrovata, pone la perfezione del sapere umano vicina alla creazione. E’ dunque un progresso all’indietro che egli invita a realizzare consigliandoci il suo metodo di filosofare.

Bacone riesce ad introdurre in questa straordinaria prospettiva storica una concezione profondissima del metodo scientifico.

I termini stessi in cui Bacone ci parla della rivelazione filosofica primitiva indicano ch’essa verteva semplicemente sui principi, giacché erano occorsi ancora seicento anni per sviluppare le conseguenze. Ma c’è di più. La filosofia non può mai arrivare ad essere veramente completa, e noi non avremo mai finito di spiegare i particolari del vasto mondo in cui ci troviamo posti.

La prima condizione per far progredire la filosofia è di sbarazzarla dagli ostacoli che ne fermano lo sviluppo.

Uno dei più funesti è la superstizione dell’autorità. Egli quindi la perseguita con i suoi sarcasmi senza risparmiare nessun uomo né alcun ordine religioso, nemmeno il suo.

Quando egli critica nell’Opus maius i setti difetti della teologia, le critiche si rivolgono al francescano Alessandro di Hales e al domenicano Alberto Magno:

1.     L’uno è celebre per una Summa di mole ponderosa, e che d’altronde non è sua; ma egli non ha nemmeno conosciuto la fisica e la metafisica di Aristotele e la sua famosa Summa marcisce ora senza che nessuna la tocchi.

2.     Quanto ad Alberto Magno, è un uomo che non è certo privo di meriti e che sa molte cose, ma non ha nessuna conoscenza delle lingue, della prospettiva né della scienza sperimentale.

 

Il difetto di Alberto, del suo discepolo Tommaso e di tanti altri è di voler insegnare prima di aver imparato.

 

Si ha da dire che Bacone non si riconosce dei veri maestri? I due che egli cita più volentieri sono Roberto Grossatesta e Pietro di Maricourt. Ora, Roberto Grossatesta gli piace in primo luogo perché, senza averli ignorati, si è distolto dai libri di Aristotele per istruirsi per mezzo di altri autori e della sua esperienza personale; poi perché egli ha saputo spiegare matematicamente le cause di tutti i fenomeni e mostrare che questa scienza è necessaria non solo a tutte le altre, ma anche alla teologia stessa.

Il suo vero maestro è colui ch’egli non finisce di elogiare, Pietro di Maricourt, autore di un trattato sulla calamita. Infatti, in quest’Epistola de magnete, egli afferma la necessità di completare il metodo matematico on il metodo sperimentale. Non basta saper calcolare e ragionare, bisogna anche essere abili manualmente.

Non si può sapere niente delle cose di questo mondo, sia celeste, sia terrestre, se non si sanno le matematiche.

 

“£Ci sono infatti due modi di conoscere, il ragionamento e l’esperienza. La teoria conclude e ci fa ammettere la conclusione, ma non dà quella sicurezza esente da dubbio in cui lo spirito si riposa nell’intuizione della verità, finché la conclusione non è stata trovata attraverso la via dell’esperienza.”

 

Se uno possiede una dimostrazione concludente in queste materie, ma non l’ha verificata con l’esperienza, la sua mente non vi si attaccherà, non vi si interesserà e trascurerà questa conclusione finché una constatazione sperimentale non gliene faccia vedere la verità. Soltanto allora accetterà questa conclusione in tutta tranquillità.

L’esperienza quale la concepisce Bacone è duplice.

1.     l’una interna e spirituale, i cui gradi più alti ci conducono alla sommità della vita interiore e della mistica

2.     l’altra esterna e che noi acquistiamo per mezzo dei sensi. E’ quest’ultima che è all’origine di tutte le nostre conoscenze scientifiche veramente certe e in particolare della più perfetta delle scienze, la scienza sperimentale.

La scienza sperimentale (scientia experimentalis) , il cui nome compare per la prima volta nella storia del pensiero umano sotto la penna di Bacone, supera tutti gli altri generi di conoscenza per una triplice prerogativa.

1.     La prima è che, come abbiamo detto, essa genera una conoscenza completa.

2.     La seconda prerogativa di questa scienza è che essa può determinarsi nel punto ove termina ciascuna delle altre scienze e dimostrare delle verità che esse sarebbero incapaci di raggiungere con i loro mezzi propri.

3.     La terza prerogativa della scienza sperimentale non è relativa alle altre scienze, ma consiste nella potenza che permette loro di frugare i segreti della natura, di scoprire il passato, l’avvenire e di produrre tanti effetti meravigliosi da assicurare il potere a coloro che la possiederanno.

E’ quanto la chiesa dovrebbe prendere in considerazione per risparmiare il sangue cristiano in questa lotta contro gli infedeli, e soprattutto in previsione dei pericoli che ci minacceranno al tempo dell’Anticristo, pericoli ai quali sarebbe facile ovviare, con la grazia di Dio, se i principi del mondo e della chiesa favorissero lo studio della scienza sperimentale, e perseguissero i segreti della natura dell’anima.

L’Opus maius di Bacone non si presenterà quindi come un’esposizione della scienza totale, perché questa scienza non è acquisita, essa rimane da acquisire. Bacone pretende soltanto di invitare alla ricerca e soprattutto alla pratica delle esperienze.

Il carattere enciclopedico della sua opera principale in cui noi incontriamo successivamente l’analisi delle condizioni richieste per uno studio serio del linguaggio filosofico, un’esposizione del metodo matematico ed esempi della sua applicazione alle scienze sacre e profane, un trattato di geografia, un trattato sull’astrologia e le sue utilizzazioni, un trattato sulla visione, una descrizione del metodo sperimentale e una morale.

Ma, ancor più del contenuto stesso della sua dottrina, è lo spirito di cui essa è animata a conferirle l’interesse e a garantirle un posto duraturo nella storia delle idee.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La cattedra domenicana di teologia fu occupata dal 1248 al 1261 da Roberto Kilwardby, eletto arcivescovo di Canterbury nel 1272 morì a Viterbo nel 1279.

Si deve a Kilwardby:

·        tutta  una serie di commenti a Porfirio, all’Organon di Aristotele e alle seguenti opere: Fisica, De coelo et mundo, De generatione et corruptione, Meteore, De Anima, Metafisica;

·        Commento alle Sentenze, sono ancora inedite e non sono state studiate che in modo insufficiente.

 

Kilwardby ha voluto conservare ad Oxford, con l’insegnamento e, in caso di necessità, con la sua autorità episcopale, la tradizione di sant’Agostino.

Il solo titolo del suo De ortu scientiarum (ricorda l’opera analoga di Gundissalino).         E’ una classificazione delle scienze, ispirata a quella di Aristotele e sviluppata come introduzione generale alla filosofia dove, su alcuni punti, si lasciano già indovinare le sue posizioni personali; ma esse si affermano nel suo Commento alle Sentenze. Inoltre, si sono recentemente pubblicati o studiati parecchi scritti originali di Kilwardby: De spirito immaginativo, De tempore, De unitate formarum, De natura relationis, De conscientia, De theologia, dove Kilwardby parla a proprio nome.

Nella sua qualità di arcivescovo di Canterbury, Kilwardby condannava a sua volta una lista di sedici proposizioni nella speranza di arrestare il movimento avversario e la diffusione di teologie come quella di sant’Tommaso.

Le sedici proposizioni proibite da Kilwardby ci ragguagliano infatti sulle sue posizioni personali. La terza proibisce di insegnare ad Oxford “quod nulla potentia activa est in materia” (tr. il fatto che nella materia non v’è alcuna potenza attiva): ciò equivaleva ad imporre l’insegnamento di una dottrina della causalità analoga alle ragioni seminali di Agostino.

 

Nel suo Commento alle Sentenze, dove egli identificava la potenza attiva della causa seconda, che muove perché è mossa, con quella che si chiama “ratio seminalis, quia latet in materia” (tr. La ragione seminale per il fatto che è latente nella materia )                           

 

Come questa proibizione d’insegnare la dottrina aristotelica della materia colpiva tutta l’ontologia e tutta la fisica, così tutta l’antropologia e la psicologia erano colpite dalla dodicesima proposizione “quod vegetativa, sensitiva et intellectiva sint una forma simplex”  (tr. Per il fatto che la vegetativa, la sensitiva, la razionale sono una forma semplice).

Il commento di Kilwardby alle Sentenze aveva già generalizzato questa tesi.

Composizione ilomorfica degli angeli, illuminazione divina richiesta come complemento della nostra luce intellettiva anche per la conoscenza del sensibile, semplice distinzione di ragione tra l’anima e le sue facoltà, sono altrettante note che dipendono dal complesso agostiniano.

 

Egli pone la forma come causa attiva e la materia come causa passiva dell’individuazione, ma questa gli sembra un fatto complesso che include la stessa individualità. Si deve dunque dire, dapprima materia e forma, poi determinazione della materia da parte della forma, infine l’individuo stesso che ne deriva e che è l’essere atto.  La forma, egli precisa, s’individua lei stessa individuando la sua materia, e l’esistenza attuale sembra la proprietà dell’individuo così costituito.

 

 

Nel 1271, il ministro generale dei frati predicatori, Giovanni di Vercelli, mandò a Tommaso d’Aquino e a R.Kilwardby  un elenco di 43 domande alle quali entrambi risposero, con uno spirito tuttavia molto diverso. Alla quarta domanda di Giovanni di Vercelli “E’ provato infallibilmente che gli angeli sono i motori dei corpi celesti?” :

·        San Tommaso rispose che da un lato i Dottori cristiani insegnano che Dio governa le cose inferiori per mezzo delle cose superiori, e che d’altro lato, i filosofi platonici e peripatetici consideravano dimostrativa la loro prova che i corpi celesti sono stati animati e mossi dalle loro anime (Avicenna), sia, e ciò è preferibile, mossi da degli angeli (Averroé).

·        Kilwardby, che si esprime con indulgenza sulla tesi avicenniana delle anime delle sfere, rifiuta invece l’idea che i corpi celesti siano mossi da degli spiriti angelici, che non ne sarebbero né l’atto né la forma. Kilwardby la dichiara priva di valore filosofico e constata che nessun Padre l’ha accettata come sicuramente vera.

 

La sua riposta aderisce più da vicino alla domanda di Giovanni di Vercelli, ma il fatto è che egli stesso preferiva alle due precedenti opinioni una terza, che egli tuttavia non presenta come personale. Un terzo gruppo ammette:

 

Che come i corpi pesanti e leggeri sono mossi dal loro peso e inclinazione (“propriis pondoribus et inclinationibus”) verso i luoghi dove s’arrestano, così i corpi celesti si muovono circolarmente nel luogo in virtù delle loro inclinazioni naturali, che sono come il loro peso, per conservare gli essere corruttibili e impedire loro di disfarsi rapidamente e di perire

 

In altri termini, qui non siamo ancora alle soglie della scienza moderna, perché Kilwardby non si occupa di meccanica, ma egli pone sicuramente il principio filosofico necessario perché secondo l’espressione  di Duhem, “i movimenti celesti e i movimenti sublunari dipendano da una stessa meccanica”.

 

Successore di Kilwarby al seggio arciepiscopale di Canterbury fu Giovanni Peckham  . Era un francescano. Il suo atteggiamento personale è chiaramente definito in una lettera del 1 giugno 1285 al vescovo di Lincoln.

 

“Noi non disapproviamo affatto gli studi filosofici, in quanto essi servono i misteri teologici, ma disapproviamo le novità profane di linguaggio, introdotte da vent’anni nella profondità della teologia contro le verità filosofiche e a detrimento dei Padri, le cui posizioni vengono disdegnate ed apertamente disprezzate. Quale dottrina è più solida e più sana, quella dei figli di san Francesco, cioè di fratello Alessandro (di Hales) , di santa memoria, di fratello Bonaventura e altri simili che si fondano sui Padri e sui filosofi in trattati esenti da ogni rimprovero, oppure questa dottrina del tutto recente e quasi tutta contraria, che riempie il mondo intero di dispute verbali,indebolendo e distruggendo con tutte le sue forze tutto ciò che sant’Agostino insegna sulle eterne norme e la luce immutabile, le facoltà dell’anima, le ragioni seminali incluse nella materia e su innumerevoli Questioni dello stesso genere, giudichino gli antichi, poiché in essi sta la sapienza, giudichi il Dio del cielo, e che vi ponga rimedio.”.

 

Si noterà inoltre che Peckham  non disapprovava la filosofia, ma un certo uso indiscreto di una falsa filosofia; che, malgrado il caso contrario di Kilwardby, che egli aveva avuto sott’occhio, l’opposizione delle due dottrine si traduce concretamente per lui nell’opposizione dei due Ordini:

 

·        l’agostinismo dei francescani;

·        l’aristotelismo dei domenicani.

 

; infine che quando egli vuol citare qualcuno dei punti sui quali i due gruppi sono in contrasto, i primo tre che gli vengono in mente sono, nell’ordine in cui li cita:

1.     la dottrina dell’illuminazione divina

2.     l’unità reale delle potenze dell’anima con l’essenza dell’anima

3.     le ragioni seminali

 

Problema = Si tratta innanzitutto di sapere se l’uomo possa o no fare a meno di Dio per conoscere il vero.

 

Per questo vediamo Peckham stesso esaminare attentamente questo problema nelle sue Questioni De anima. Egli concede ad ogni uomo un intelletto agente creato, ma aggiunge ad esso un intelletto agente superiore, che è Dio. La sua posizione dunque non è quella di Avicenna, per il quale l’intelletto agente unico della specie umana non è Dio ma un’intelligenza separata; essa non è nemmeno quella di Tommaso d’Aquino, per il quale Dio non è il nostro intelletto agente; ma se dovesse scegliere tra Avicenna e Tommaso d’Aquino,  Peckham preferirebbe Avicenna.

In realtà, l’unico che abbia posto la verità, se non totale, almeno essenziale, è sant’Agostino, che nulla pare abbia potuto scacciare da Oxford fin verso gli ultimi anni del XIII secolo.

Ricordiamo che Peckham, fedele ai Padri, lo è anche alle scienze. La sua Perspectiva communis (Ottica), il suo Tractatus spherae, la Teorica planetorum e i Mathematicae rudimenta. Anche in questo egli continua la tradizione oxoniense di Ruggero Bacone e di Roberto Grossatesta. Sarebbe forse inesatto parlare di una scuola di Oxford nel Medioevo, ma vi fu sicuramente uno spirito di Oxford nel XIII secolo.

 

 

Alberto Magno

 

L’adozione del peripatetismo da parte dei teologi fu una vera rivoluzione nella storia del pensiero occidentale, e la più superficiale riflessione ci permettere di coglierne ancor oggi le conseguenze.

 

A partire dal XIII secolo, la solidarietà tra l’aristotelismo e il cristianesimo sarà tale, che la filosofia peripatetica sta, per così dire, per entrare a far parte della stabilità e dell’im