SENOFANE


Senofane sarà ricordato come il grande esule, giramondo, che per un certo tempo visse anche a Zancle (Messina) ed a Catania. Nacque nel 565 a.C. circa a Colofone, in Asia Minore, e morì forse ad Elea (Lucania) nel 470 a.C. Timeo dice che il filosofo ebbe rapporti con Gerone di Siracusa. Per la Theologumena Arithmetica "Infatti si calcolano con la massima approssimazione 514 anni dalla guerra troiana sino a Senofane il fisico e fino ai tempi di Anacreonte e Policrate e fino all'aggressione e devastazione degli Ioni ad opera di Arpago il Medo, fuggendo la quale i Focesi fondarono Massalia" (44,b,13, in I Presocratici, op. cit.). "Son già sessantasette anni che porto in giro per l'Ellade i miei affanni e i miei pensieri. Ed a questi sono da aggiungere i venticinque anni trascorsi dalla nascita, se so dire il vero intorno a queste cose". (Diogene Laerzio IX, 19; op. cit.). Fu contemporaneo di Empedocle di Agrigento e i due ebbero modo di conoscersi e confrontarsi; l'agrigentino gli fece un giorno osservare che era impossibile riuscire a trovare un uomo sapiente: 'E' naturale, perché bisogna che sia sapiente chi vuol riconoscere un sapiente', rispose il rapsodo. Col siciliano ebbe in comune la visione democratica di governo: i tiranni, disse, o sono molto gradevoli o devono essere rarissimi. Forse fu il fondatore della scuola detta Eleatica, che forgiò Zenone e Parmenide. Agli Eleati, che gli chiesero se era saggio o meno offrire sacrifici oppure canti lamentosi a Leucotea, rispose di non elevare lamenti se essi la ritenevano una dea, e di non dedicarle sacrifici se la consideravano una mortale (Aristotele, Retorica, B, 23; confronta con Plutarco, Sulla superstizione, XIII). Sempre da Plutarco apprendiamo come Senofane si difese dall'accusa d'essere un vile per essersi rifiutato di giocare ai dadi, accusa buttatagli da Laso figlio di Ermione: ammise d'essere molto vile di fronte alle cose inique (De vitioso pudore, 5; in I presocratici, op. cit.). Scrisse Senofane elegie e giambi indirizzati solo a sminuire le qualità di Esiodo ed Omero, le due basi dell'epica classica. Non condivideva quanto da loro narrato descrivendo la vita e le azioni degli dei in tutto simili alle abitudini e attitudini umane. Ma non pare fossero stati solo i due poeti il bersaglio dei suoi dardi critici che appaiono infuocati di livore: osteggiò le dottrine di Talete e di Pitagora, altro fondamento - stavolta filosofico - della cultura ellenica. Un suo concetto teorico sostiene che nell'universo possono esistere molteplici cose solo quando subentra l'azione dell'intelligenza per distinguerle. E il Dio, per l'eternità, è per lui solo pensiero e ragione; in questo ha una modernità di pensiero affascinante; ma non possiamo considerarla tale concezione simile alla nostra - Dio fece l'uomo a sua immagine - in quanto il Dio di Senofane è una sfera che "vede ed ascolta ma non respira". E può essere raggiunto con l'uso dell'intelletto, escludendo le rivelazioni sempre mutevoli dei sensi, di natura opposta a quella dell'Ente supremo ed immobile. A leggere delle varie tesi riportate dalle fonti non si è trovato chi sia stato suo maestro; forse siamo nel giusto se lo consideriamo un ribelle alla cultura ufficiale del tempo, e più per temperamento che per una sua diversa concezione del mondo. La sua produzione poetica venne da lui pure mostrata alla maniera dei rapsodi, cioè come cantore girovago dei canti omerici - e comprende dei canti celebrativi: La fondazione di Colofone e la Colonizzazione di Elea d'Italia (IX, 20). Alla fine dei suoi circa novanta anni di vita Senofane venne sepolto dopo i suoi figli; e si tramanda che egli li seppellì colle sue mani. E per dir lode del suo animo si racconta che egli vedendo un giorno un cane che veniva bastonato, intervenne presso il padrone dicendo:

"Cessa, non percuoterlo, poiché d'un uomo, un amico, riconobbi l'anima all'udir le grida" (Diogene Laerzio; VIII, 36).

Senofane, dunque, nacque a Colofone e fu contemporaneo di Pitagora: pure lui dovette fuggire dalla patria e scrisse in ionico, ma non in prosa, allontanandosi così da Anassimandro, che aveva introdotto con il suo scritto la prosa. Senofane visse molto a lungo e passò la sua vita girovagando qua e là . Egli scriveva usando un metro simile a quello omerico e pur usando il metro è un filosofo a tutti gli effetti: il fatto che un filosofo si serva del metro è riconducibile al suo spirito divulgativo: voleva far conoscere i suoi scritti al maggior numero di persone. Egli affronta diversi argomenti tra i quali spicca la dura critica rivolta ai poeti per il loro modo di concepire la divinità. Senofane voleva riformare il concetto di divinità rendendolo più puro e questo suo atteggiamento gli valse l'appellativo di "illuminista". Pur usando un verso simile a quello omerico, egli critica aspramente i poeti ed in particolare Omero ed Esiodo. Senofane scrive così: "Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente". Secondo Senofane i due errori dei poeti sono: 1) di natura etica: se il divino deve rappresentare la perfezione ed il modello per gli umani, si deve rifiutare che gli dei abbiano caratteristiche riprovevoli perfino per gli uomini; 2) vi è una condanna dell'antropomorfismo: gli dei erano comunemente rappresentati simili agli uomini e questo era un grande gesto di presunzione del genere umano che Senofane non era disposto ad accettare. Questa sua critica emerge tutta in queste parole: "ma i mortali sono convinti che gli dei siano nati e che abbiano abito a linguaggio e aspetto come loro". Anche qui troviamo una forte critica nei confronti di Omero (quando dice "che abbiano abito linguaggio e aspetto..." ) e di Esiodo (quando dice "siano nati..." : Esiodo è infatti autore della Teogonia, quella sorta di Bibbia dei Greci in cui è narrata la nascita degli dei). Senofane critica con un esperimento mentale l’antropomorfismo: "ma se i buoi (ed i cavalli ) e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò che gli uomini sanno fare, i cavalli disegnerebbero figure di dei simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato"; da questo esperimento mentale emerge innanzitutto l'importanza della mano, che è l'elemento che divide il mondo animale da quello umano: essa permette all'uomo di stabilire rapporti complessi con la realtà. Senofane poi sostiene che ci sia una tendenza sbagliata: quella di crearsi gli dei a propria immagine e somiglianza. Questa critica emerge anche in un altro frammento conservatosi: "gli Etiopi dicono che i loro dei sono camusi e neri, i Traci che sono cerulei di occhi e rossi di capelli". Questa è – per così dire - la pars distruens della filosofia di Senofane: egli smonta qui le tesi già esistenti a riguardo delle divinità per presentarne altre totalmente rinnovate. Vi è poi una parte che risulta particolarmente difficile da comprendere: "Uno, dio, tra gli dei e tra gli uomini il più grande, nè per aspetto simile ai mortali, nè per intelligenza"; pare quasi che Senofane sia monoteista (parla di un dio solo), poi vi è la contrapposizione tra un dio e altri. Nel nostro mondo la contrapposizione tra monoteismo e politeismo è forte, ma all'epoca doveva essere più attenuata: vi era una proliferazione di dei e solo le persone di maggior spicco culturale erano monoteiste (il concetto è un po’ simile a quello nostro della proliferazione dei santi). L'idea predominante nel mondo greco è quella di ritenere il divino come unica realtà (to qeion) anche se le divinità sono tante. Va però fatta per Senofane un'osservazione: l'espressione "tra gli dei e tra gli uomini" poteva benissimo essere formulare, un modo di dire di allora per sottolineare la potenza del dio: quindi l'espressione "tra gli dei" non è usata in senso proprio come se vi fossero davvero divinità in gioco. Giustamente Senofane è stato considerato il primo teologo, vale a dire argomentatore razionale del divino. Vi è anche un accenno alla "teologia negativa": partendo dall'impossibilità di rappresentare la divinità con pezzi di realtà, al posto di dire ciò che la divinità è, si dice ciò che non è. Senofane dice poi: "sempre nell'identico luogo permane senza muoversi per nulla, nè gli si addice recarsi or qui, or là"; gli dei omerici dovevano scendere dall'Olimpo per interagire nel mondo e dovevano quindi spostarsi fisicamente. Senofane non accetta questo e afferma che la divinità sia immobile, ma ciononostante può muovere tutto ("ma senza fatica con la forza del pensiero tutto scuote"). Senofane dice poi, in riferimento alla divinità,: "tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode": dato che non si può rappresentare la divinità attribuendole caratteristiche della realtà, un buon modo di rappresentarla per Senofane è questo: mentre in noi il vedere, il sentire etc. si realizzano un po’ alla volta, in sequenza, nella divinità si realizzano tutte contemporaneamente. Così come per Alcmeone, anche per Senofane c'è distinzione tra il sapere certo degli dei e l'opinare congetturando degli uomini ("il certo nessuno mai lo ha colto nè alcuno ci sarà che lo colga e relativamente agli dei e relativamente a tutte le cose di cui parlo. Infatti, se anche uno si trovasse per caso a dire, come meglio non si può, una cosa reale, tuttavia non la conoscerebbe. Perchè a tutti è dato solo l'opinare"). Comunque il fatto che gli uomini possano solo opinare non ha solo connotazioni negative: significa che l'uomo applicandosi e usando bene la sua mente può conoscere. Senofane è del parere (un po’ come lo siamo noi ) che l'uomo parta dal basso per raggiungere col tempo l'alto tramite i suoi sforzi; a proposito egli dice: "non è che da principio gli dei abbiano rivelato tutte le cose ai mortali , ma col tempo essi cercando ritrovano il meglio"). Senofane, oltre a rifondare il concetto di divino, lo depura dalle manifestazioni naturali: l'arcobaleno, per esempio, era visto come fenomeno divino (esso si identificava con la dea Iride); per Senofane è solo un fenomeno naturale che non ha nulla a che fare con il divino: "quella che chiamano Iride è anch'essa una nuvola che presenta alla vista delle colorazioni purpuree scarlatte e verdastre". Secondo l’autorevole testimonianza di Platone (Sofista), Senofane sarebbe stato il capostipite dell’eleatismo. Il punto di partenza della sua riflessione è costituito dalla critica alle concezioni antropomorfe della divinità: facile comprendere perché Platone scorgesse in lui l’archegeta dell’eleatismo: introducendo una sola divinità, Senofane finiva per proporre quell’unità tanto cara a Parmenide e ai suoi discepoli. Se è sbagliato propugnare l’antropomorfismo degli dèi, altrettanto sbagliato è, nell’ottica di Senofane, ritenere che la conoscenza divina sia paragonabile a quella umana: il sapere proprio della divinità è infatti incommensurabilmente superiore rispetto a quello umano, e gli uomini, nella migliore delle ipotesi, possono acquisire qualche certezza dopo aver percorso un faticoso itinerario conoscitivo; il tema della conoscenza come tortuosa via da percorrere sarà ripreso e approfondito da Parmenide stesso. Senofane dubitava fortemente che la divinità aiutasse gli uomini a conoscere, mettendo in questo modo l’accento sulla responsabilità umana della conoscenza: senza godere di aiuti divini, l’uomo è responsabile e artefice della propria conoscenza. Naturalmente, con la maggiore indipendenza dell’umano dal divino aumenta la fragilità della situazione umana, poiché gli uomini devono agire solo in virtù delle proprie forze, in quanto la divinità non ha fatto loro alcun dono (né le tecniche né il sapere). La prospettiva è piuttosto simile a quella di Alcmeone, ma diversa è la soluzione: se per il filosofo di Crotone agli uomini non restava che congetturare, secondo Senofane, invece, l’unica arma conoscitiva di cui essi dispongano è quella che egli definisce, introducendo un termine destinato al successo, dokoV , l’opinione. La conoscenza umana è, dunque, essenzialmente opinione, nemmeno congettura; il termine "opinione" suggerisce, tra l’altro, l’idea di una instabilità del sapere umano, suscettibile di essere vero o falso. Ma Senofane lascia una via per sperare: agli uomini è infatti concesso di avanzare verso il meglio, verso cioè opinioni migliori. La superiore intelligenza della divinità, ovvero le superiori attività percettive e intellettive che la contraddistinguono, dice Senofane, sono tali perché coinvolgono la divinità nella sua totalità: gli uomini con un senso vedono, con un altro gustano, con un altro ancora odono, e così via, mentre la divinità non presenta, nella sua interezza, distinzioni sensoriali. Ciò non toglie, però, che, pur nella loro notevole inferiorità, gli uomini possano acquisire conoscenze via via migliori: " non è che in principio gli dèi abbiano rivelato tutte le cose ai mortali; ma col tempo, ricercando, essi trovano il meglio ". La conseguenza necessaria di questa riflessione è che, procedendo per opinioni, il sapere umano non potrà mai raggiungere certezze, ma solo, come abbiamo già detto, opinioni più accreditate di altre. Sotto questo profilo, anche quando crediamo di dare una definizione esatta di qualcosa, in realtà ci muoviamo comunque nell’ambito dell’opinione: ciascuno di noi può esprimere a parole nel migliore dei modi ciò che qualcosa è, ma non per questo può conoscere con certezza, nel suo linguaggio, la cosa stessa.


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