SOLGER
A cura di Diego Fusaro
Karl
Karl
Wilhelm Ferdinand Solger (1780-1819), figura eminente della filosofia romantica
tedesca e professore dal 1811 nell'Università di Berlino, ha consegnato il suo
pensiero a un non grande numero di scritti, quasi tutti in forma dialogica (Erwin.
Quattro dialoghi sul bello e sull'arte, 1815; Dialoghi filosofici,
1817; Dialoghi filosofici su essere, non essere e conoscere, postumi),
ove il tema romantico dell'ironia, da categoria essenzialmente estetica,
assurge a chiave di volta di tutta la filosofia e di una visione metafisica,
ontologica e religiosa dell'intera realtà. Traduttore dell’intera opera di
Sofocle, fu Solger a chiamare Hegel all’università di Berlino. Si tratta di un
pensatore difficilmente catalogabile: è un romantico, ma allo stesso tempo va oltre
il romanticismo; è un idealista, ma va anche oltre l’idealismo; è un teorico
dell’estetica, ma va anche più in là dell’estetica. Con Solger, ci troviamo
dinanzi ad un pensatore metafisico e religioso che utilizza l’estetica, facendo
della riflessione sul bello uno strumento per afferrare la condizione del
finito, del quale il bello sarebbe per l’appunto la manifestazione più pura.
Dopo la morte di Solger (1819), in occasione della pubblicazione postuma dei
suoi Dialoghi filosofici, Hegel ne fece una grandiosa recensione; in
realtà egli s’era già occupato del suo pensiero nelle Lezioni di estetica,
collocandolo come un momento dialettico che, nell’economia generale del
sistema, doveva portare al pensiero hegeliano stesso. Pur vivendo nel cuore
dell’idealismo classico tedesco, Solger non è pienamente ascrivibile a questa
corrente di pensiero: la sua dialettica, infatti, si pone come alternativa a
quella hegeliana, di cui peraltro (a causa della scomparsa prematura) non potè
vedere lo spiegamento completo. In opposizione alla dialettica hegeliana,
incentrata sul momento sintetico dell’Aufhebung, quella di Solger è
duale, priva di sintesi e di conciliazione: è una dialettica che tenta di
scorgere la salvezza del finito non nell’essere conciliato nell’Assoluto, ma
nella contraddizione della sua finitezza. Ed è esattamente questo aspetto del
pensiero solgeriano che Hegel non può dialettizzare (ancorché ci provi),
proprio perché si tratta di un’alternativa al suo pensiero: ed è la mancata
dialettizzazione ciò che Hegel più critica di Solger, rinfacciandogli di
essersi smarrito nell’infecondità del finito. Un altro punto cardinale della
riflessione solgeriana sta nell’aver tentato una comprensione filosofica
dell’ironia: aspetto, questo, per cui fu apprezzato tanto da Hegel quanto da
Kierkegaard. L’estetica solgeriana si pone come propedeutica alla metafisica,
la quale è imperniata sulla nozione di creazione, sull’inconoscibilità
dell’Assoluto in se stesso, e sulla salvezza del finito tramite il
riconoscimento (e non il superamento hegeliano) della propria nullità. Un
pensiero che, a tutta prima, può sembrare, se non affine, sicuramente non così
distante da quello di Kierkegaard: eppure il filosofo danese, che pure aveva
colto il cuore della riflessione solgeriana, lo rigettò in pieno, scorgendovi
troppi aspetti in comune con l’aborrito Hegel. Questi riconosce a Solger il
merito di aver colto l’identità tra fede cristiana e filosofia, ma lo accusa di
non essere stato in grado di andare oltre: detto altrimenti, agli occhi di
Hegel, Solger si è arrestato al momento negativo, senza approdare a quello
sintetico. La dialettica duale di Solger poggia sulla “negazione” e sulla
“negazione della negazione”, con l’idea che la realtà sia negazione
dell’Assoluto (il che non implica tuttavia un tentativo di riconciliazione).
Sicché, per Hegel, quella solgeriana è la sua stessa dialettica in forma non
risolta: questo tentativo di riassorbimento nel “Sistema” indusse Kierkegaard a
sostenere che Solger cadde “vittima” del sistema hegeliano, incapace di
dialettizzarne il pensiero. Prova ne è che nelle sue Lezioni sulla storia
della filosofia Hegel taccia il nome di Solger, alla luce del fatto che non
sa dove e come collocarlo. Il punto di partenza della riflessione di Solger è
l’autoimmolarsi dell’Assoluto come Assoluto al fine di far essere gli esseri
finiti: il finito è allora soltanto in quanto “apparenza” (Erscheinung),
la quale a sua volta è “il nulla di Dio”. E noi siamo appunto questo nulla:
siamo apparenze nulle perché Dio prende esistenza in noi (facendoci essere) e
si nasconde nel suo essere. Detto altrimenti, l’Assoluto ci fa essere come il
suo essere nulla, come non essenti Lui: si tratta di una creazione (e non di
un’emanazione in senso neoplatonico), che è insieme Rivelazione, sicché
l’essere dell’Assoluto trapassa in finitezza. Si ha dunque una kènosis,
uno svuotamento, ovvero un donarsi di Dio al finito negandosi nella propria
infinitezza. È dialettica dell’apparire di Dio nella sensibilità, e trova una
formulazione compiuta nei Dialoghi filosofici del 1817. La frattura che
si apre tra finito e infinito è insanabile, perché senza quella frattura
l’esistenza sensibile non sarebbe: si tratta allora di un esistere nella
frattura tale per cui una pretesa conoscenza dell’Assoluto in se stesso sarebbe
un “non-senso”, giacché “comporterebbe il nostro non esistere”. Infatti, la
conoscenza dell’Assoluto implicherebbe, ipso facto, l’annientamento del
finito. Quella che si ha tra uomo e Dio è dunque una dialettica della polarità
e della scissione, una dialettica in forza della quale dicendo l’uno si nega
l’altro. In nessuna pagina di Solger si nega che l’Assoluto sia in sé:
semplicemente, si dice che nulla possiamo saperne, giacchè esula dalla
dimensione del “per noi” (für uns). La mancata composizione speculativa
tra finito e infinito è la chiave di volta dell’intera filosofia e dell’intera
esistenza; ciò non condanna l’infinito all’insensatezza, giacché il suo essere
nulla è e resta il nulla dell’Assoluto. Proprio in ciò risiede la più alta
ironia: donando il proprio essere al finito, l’Assoluto gliene toglie anche la
conoscenza. La prima conseguenza è che il finito resta tale, nella sua
sproporzione ontologica di fronte ad un Assoluto trascendente che è in lui
perché si è fatto lui. La seconda paradossale conseguenza è che il finito
accede all’Assoluto proprio quando decide di restare finito: il che segnala la
distanza siderale di Solger tanto dal platonismo quanto dall’idealismo
hegeliano (tutt’al più Solger guarda con interesse al “secondo Fichte”).
Accettando di restare finito, il finito torna all’Assoluto mediante non un
superamento della finitezza, ma una sua accettazione, che è necessariamente
ironica e che altro non è se non una ripetizione, da parte del finito, del
sacrificio di Dio. Proprio perché il supremo bisogno avvertito dal finito è
quello di superarsi – che, come s’è visto, è un bisogno che mai può essere
soddisfatto –, accettando l’impossibilità di tale superamento il finito compie
un sacrificio, un abbandono della violenza del concetto. Dio si cala
nell’esistenza e, per l’esistenza, Egli è solamente in questo calarsi negativo:
l’essere e il non-essere si incontrano senza mai comporsi e limitandosi a
vicenda. Ponendosi come finito, l’Assoluto pone il proprio nulla, lasciando però
trasparire la propria infinitezza: è il nulla, sì, ma il nulla dell’Assoluto.
Siamo dinanzi a una dialettica ironica anche da parte di Dio: è infatti ironico
il continuo porre uno scarto costante tra finito e infinito; ed è altresì
ironico il fatto che il darsi di Dio sia al tempo stesso il suo nascondersi.
Infine, è anche ironico il fatto che tale sproporzione ontologica tra finito e
infinito, lungi dal dover essere colmata o superata, debba essere accettata. Ma
si tratta invero di una dialettica che, oltre che ironica, è tragica: infatti,
l’esistenza finita è negativa, è gettatezza nella frantumazione, è scandalo e
paradosso, scacco e naufragio. E l’ironia riaffiora nella misura in cui la
consolazione a tale tragicità dev’essere rinvenuta non al di fuori della
tragedia, ma nella tragedia stessa. Se si coglie questo aspetto, si coglie
anche come fede e sapere abbiano lo stesso contenuto. Nel mio nulla di essere
finito, accetto Dio in me e, per ciò stesso, tramonto; il mio ritornare a Dio è
accettazione della mia finitezza, rinuncia al mio essere autonomo. Dio tramonta
affinché io sia, e dunque io devo tramontare affinché Egli sia e io sia
salvato. È questa la massima ironia e, insieme, la vera mistica.