HERBERT SPENCER

A cura di Adriano Torricelli

 

- Introduzione

Spencer è oggi un pensatore dimenticato, se non tra gli addetti ai lavori (filosofi, sociologi, antropologi…) quantomeno tra la gente di media cultura. La sua opera ha conosciuto una parabola opposta a quella di un altro maestro del pensiero sociologico: Auguste Comte, il quale, rifiutato ed emarginato in vita dalla società intellettuale e dalle riviste scientifiche, fu invece esaltato - forse fin troppo - dopo la propria morte (essendo inoltre, con le sue dottrine politiche di stampo riformista , uno degli ispiratori di molti programmi del XX secolo). Certo, i limiti del pensiero di Spencer divennero evidenti già verso la fine dei suoi anni (mentre, nel pieno di questi esso fu alquanto rinomato, rendendo il suo autore uno dei principali protagonisti della vita intellettuale dell'Inghilterra vittoriana…. al pari, o quasi, dello stesso Darwin). Tuttavia, esso contiene anche notevoli motivi di interesse e considerevoli spunti di riflessione in merito alla natura del divenire storico all'interno delle società umane.Così come, del resto, non può non far riflettere il fatto che esso sia stato immediatamente apprezzato - ciò che, come vedremo, non fu affatto casuale - soprattutto negli Stati Uniti, un paese in cui il capitalismo conobbe uno sviluppo particolarmente 'selvaggio', maturando di conseguenza una etica di stampo radicalmente individualista e liberista (ai limiti, in sostanza, dell'amoralità…). I capisaldi della visione spenceriana furono difatti:
a- l'idea della centralità assoluta della libera iniziativa privata,
b- quella (di matrice utilitarista e benthamiana) che vede la società come la somma dei vantaggi individuali,
c- e infine quella che considera la società industriale (basata sul commercio e sulla libera iniziativa personale) come il momento culminante dello sviluppo politico e culturale dell'umanità!Oltre che un tipico rappresentante di quel tipo di 'mentalità positiva' che tendeva a vedere nella scienza e nei suoi metodi (nel caso di Spencer, soprattutto in quelli delle scienze biologiche, geologiche, ecc. - più che in quelli delle scienze esatte: cioè matematica e fisica) una sorta di 'leva d'Archimede' attraverso la quale elaborare sistemi universali capaci di spiegare l'intera evoluzione umana e cosmica, Spencer fu, con la sua ostinazione nello sviluppare con maniacale intransigenza dei presupposti filosofici posti - in un modo peraltro, essenzialmente aprioristico e tendenzialmente acritico - come assoluti, un tipico esponente della società puritana inglese.Figura - come vedremo - a tratti quasi inquietante (e per alcuni versi finanche grottesca) dal punto di vista umano, egli però ci invita anche col suo pensiero ad operare una vastissima riflessione sulla natura e sullo sviluppo delle società umane, e sui differenti tipi di organizzazione che possono essere posti a base di esse.

 

 

- Vita e personalità di Herbert Spencer (1820-1903)

La vita di Spencer - contrariamente a quella del suo "antagonista" francese, nonché fondatore della scienza sociologica, Auguste Comte - non fu densa di eventi e di 'rivoluzioni', procedendo al contrario in una apparente tranquillità senza scosse. Nonostante tale apparenza tuttavia, essa non fu forse meno difficile e drammatica di quella del suo predecessore, tormentata come fu da problemi nervosi e da un profondo disadattamento di carattere sociale, legato a quell'indole maniacalmente puritana e intransigente (cui si è appena accennato) i cui caratteri si riflettono anche nei contenuti e nella rigida costruzione del suo sistema di pensiero. Ricevuta dallo zio un'inflessibile educazione protestante (di quel protestantesimo, detto 'dissidente', la cui caratteristica era peraltro una forte emarginazione di carattere sociale e una dura reazione di chiusura nei propri principi), e dal padre una formazione di tipo prevalentemente scientifico e tecnico, Spencer si impiegò ancora giovane come ingegnere nella compagnia ferroviaria che costruiva la linea Londra-Birmingham. In seguito tuttavia, egli entrava con successo nel ramo giornalistico divenendo nel 1848 vice-direttore di un prestigioso giornale tuttora esistente, l'Economist. Ma questa non fu che la prima parte della sua vita professionale, poiché - in seguito a una cospicua rendita assicuratagli prima dalla morte dello zio e in seguito da quella del padre - egli poté, dal 1853, dedicarsi a tempo pieno alla stesura delle proprie opere di carattere filosofico-scientifico, propugnando e sviluppando così la sua originalissima visione del cosmo (che potremmo peraltro definire 'a 360 gradi', dal momento che si estende a tutti gli aspetti della realtà, da quelli fisici a quelli umani). Non passò molto tuttavia, che egli si ammalò di una grave malattia nervosa, legata allo sforzo costante del suo intelletto, impegnato nel formulare le basi di un sapere di carattere enciclopedico universale, posto inoltre su fondamenti filosofici rigidi e assoluti. E, seppure riuscì a riprendersi, conservò sempre delle gravi limitazioni funzionali (quale ad esempio, il non potersi impegnare in attività intellettuali per più di poche ore al giorno). Sul piano sentimentale, non si sa di alcuna relazione di Spencer con l'altro sesso, il che peraltro lascia il forte sospetto che non ve ne siano mai state! D'altra parte, la difficoltà nell'istituire rapporti umani caratterizzò un po’ tutta l'esistenza del nostro autore, il quale, subissato fin dalla più tenera infanzia dalla personalità di precettori estremamente esigenti, riuscì in età adulta a frequentare solo ammiratori e seguaci, o comunque scienziati di chiara fama coi quali intrattenne rapporti più intellettuali che di vera e propria amicizia. E' nota inoltre, la sua frequentazione privata con la scrittrice inglese George Eliott (una delle figure letterarie più significative dell'età vittoriana), anche se pare che una tale relazione non andò mai - e forse proprio per volontà di Spencer - oltre i limiti di una semplice amicizia. Un'altra stranezza della sua persona - e ciò soprattutto se si considera l'autorevolezza cui egli assurse in vita come pensatore - fu la sua malsicura preparazione culturale. Se difatti sul piano filosofico non studiò mai - o quasi - direttamente le opere degli altri filosofi (secondo una pratica di "igiene mentale", ampiamente condivisa con lo stesso Comte), preferendo a esse la rapida lettura di compendi divulgativi… quando non addirittura le spiegazioni 'a voce' dei propri amici, anche la sua preparazione scientifica fu molto probabilmente estremamente deficitaria. Non è difatti infondato il dubbio secondo cui, più che un lettore di riviste e di opere di carattere scientifico, egli ne fosse in realtà un semplice spigolatore, che trasceglieva qua e là brani che (costituendo le parti per lui più interessanti… sia in senso positivo - cioè come sostegno delle sue tesi -, che in senso negativo e polemico) riproduceva poi nei suoi testi. Un ruolo fondamentale inoltre, pare che avessero in questo frangente i suoi collaboratori, i quali gli suggerivano spesso argomenti e letture che potevano tornargli utili! Da tutto questo, emerge il quadro di una personalità insicura, egocentrica e fortemente disturbata. E non è da escludere che proprio a tali caratteri personali si debbano i limiti strutturali della sua opera: geniale per alcuni versi, ma superficiale e affrettata per altri. Spencer morì nel 1930, dopo aver visto le sue teorie in merito all'evoluzione industriale, pacifica e anti-statalista della società moderna, tutte pressoché smentite (o forse, dovremmo dire inascoltate) dagli eventi degli ultimi decenni. Data la sua indole fiera e ostinata, ciò non poté non comportare da parte sua un ulteriore ripiegamento in se stesso, ovvero quell'auto-isolamento ulteriore che segnò gli ultimi amari periodi della sua esistenza.

 

- Evoluzione, complessità e integrazione

(a) Spencer e Darwin

Spencer sviluppò in modo indipendente quel medesimo tema cui Charles Darwin, negli stessi anni ma nello specifico campo delle scienze biologiche, stava conferendo nuova dignità : quello cioè dell'evoluzione, attraverso la selezione all'interno di un determinato ambiente, degli individui più adatti alla sopravvivenza. E' necessario tuttavia, sgombrare subito il campo da un'idea grossolana ed errata, secondo la quale il filosofo londinese avrebbe espresso a posteriori - dopo cioè aver conosciuto le teorie biologiche ed evoluzionistiche darwiniane - una sistemazione filosofica e astratta di queste ultime. Egli difatti, se da una parte procedette autonomamente nella sua ricerca, arrivando su alcuni aspetti a risultati estremamente simili a quelli cui giunse Darwin, dall'altra non aderì mai del tutto alla teoria biologica darwiniana (teoria secondo cui "l'organo fa la funzione": basata cioè sull'idea di modificazioni meramente accidentali o fortuite della struttura ereditaria tra genitori e figli) conservandosi invece sempre fedele alla precedente concezione lamarkiana (per la quale le modificazioni sorte nei singoli individui a causa di necessità di tipo ambientale, si trasmettono ereditariamente di padre in figlio - "la funzione fa l'organo"). Ciò che tuttavia - e senza alcun dubbio - accomunò questi due grandi pensatori fu l'idea che il progresso di ogni specie fosse basato sulla selezione degli individui più adatti alla sopravvivenza, ciò che per conseguenza porta a un costante miglioramento e raffinamento sia dell'ambiente che delle forme di vita in esso contenute (il tutto, ovviamente, sulla scia di quel paradigma storicistico - tendente ad affermare la verità come un fatto storico ed evolutivo - inaugurato dalla filosofia hegeliana all'inizio del secolo).

(b) Caratteri dell'evoluzionismo spenceriano

Il discorso evoluzionista di Spencer si fonda sull'idea secondo cui, a partire da un originario stato di (maggiore) omogeneità e indistinzione (ovvero di caos) si passerebbe, per un processo automatico, a uno di maggiore integrazione e complessità tra le parti, attraverso lo sviluppo da parte di queste ultime (un fatto che, almeno per ciò che riguarda gli aggregati inanimati, sarebbe essenzialmente accidentale) di caratteri sempre più specifici, nonché di conseguenza, a livello ambientale, di una struttura sempre più complessa e articolata. Una tale tendenza, il cui valore si estenderebbe a tutti i fenomeni cosmici (costituendo così la base comune delle scienze nel loro complesso….), sarebbe dovuta all'instabilità congenita di ciò che è privo di una propria coerenza interna. Esso difatti, a causa di tale carattere, sarebbe predisposto a subire l'azione 'aggressiva' di entità meglio organizzate e strutturate. Ciò che ancora si trova in uno stato di potenzialità e indistinzione insomma, verrebbe posto - secondo una tale visione - da parte di ciò che invece è già maggiormente formato, di fronte a una sorta di aut-aut: o adattarsi acquisendo una struttura specifica e determinata, o scomparire a causa della propria genericità. Esso verrebbe insomma costretto ad assumere a sua volta una forma e una funzione determinata all'interno di una precedente totalità - al cui interno verrebbe così ricompreso. Come si vede, era in buona sostanza il discorso portato avanti da Darwin in merito al rapporto tra gli individui e l'ambiente naturale, anche se esteso da Spencer su un piano di validità assoluta, e come tale assurgente a fondamento ontologico del reale, nonché a base metodologica di qualsiasi vera indagine scientifica. Un altro aspetto da sottolineare - e in controtendenza rispetto a ciò che si è appena detto - è la potenzialità sempre latente di un arretramento (o involuzione) del processo evolutivo di ogni aggregazione naturale verso una sempre maggiore complessità e integrazione tra le proprie parti. Spencer giustificava ovviamente un tale aspetto con l'idea che, essendo l'evoluzione una semplice tendenza (che come tale si imporrebbe solo nella maggioranza dei casi), essa possa conoscere nel tempo anche delle temporanee e contingenti battute di arresto (quando non, addirittura, delle fasi di regresso), anche perché una maggiore complessità significherebbe spesso per un sistema una maggiore vulnerabilità di fronte agli agenti esterni. Un elemento estraneo quindi, anziché venire inglobato nel sistema stesso, potrebbe facilmente scardinarne il funzionamento interno, divenendo così per esso causa di un'autodistruzione parziale o totale. Passeremo adesso ad analizzare un po' più in dettaglio gli sviluppi di una tale impostazione di fondo sul piano della scienza sociologica, la quale in assoluto ci appare come la parte più interessante e prolifica della filosofia spenceriana.

(c) Principi della sociologia spenceriana

Come tutte le parti del sistema di Spencer, anche quella sociologica si basa sull'idea di un'evoluzione progressiva delle strutture - in questo caso, di quelle di carattere sociale - verso una maggiore complessità e estensione. A differenza di Comte, il quale solo pochi decenni prima aveva elaborato le proprie teorie sociologiche in Francia (un paese che, a differenza dell'Inghilterra di Spencer, conosceva una fase estremamente turbolenta della propria storia, lacerata com'era da conflitti sociali e da conati rivoluzionari), Spencer diede un'interpretazione fondamentalmente 'materialista' dei fatti sociali. Mentre il sociologo francese poneva difatti alla base dei diversi stadi storici (si ricorderà a tale proposito la celebre "legge dei tre stadi") il livello di sviluppo cui le scienze erano giunte in un determinato contesto, facendovi dipendere anche i fattori di organizzazione politica e giuridica, Spencer considerava al contrario le forme politiche e culturali come un'espressione di carattere sovrastutturale (usiamo qui, come si vede, un termine preso a prestito dalla filosofia marxista) rispetto al livello di organizzazione materiale, ovvero di integrazione, raggiunto da una data società. Non vogliamo ovviamente, con ciò, sostenere che Spencer avesse elaborato una teoria economicistica della società (ovvero una visione per la quale le forme o strutture produttive in essa prevalenti si pongono alla base dell'organizzazione politica e giuridica, come affermato appunto nella visione marxista). Mostreremo anzi più avanti, come la mancanza di un tale tipo di problematiche (o forse, piuttosto, l'assenza di un loro pieno e consapevole sviluppo) sia una delle più profonde carenze della sociologia spenceriana. E' innegabile tuttavia, che per il filosofo londinese - come del resto per Marx e Engels, e contrariamente a Comte - i fattori culturali siano essenzialmente un prodotto dei fattori materiali e organizzativi, e non viceversa! Quanto alle direzioni di sviluppo della società umana, esse secondo Spencer sarebbero essenzialmente di due tipi, tra loro differenti eppure compatibili (nel senso di poter coesistere come fattori evolutivi all'interno di una medesima società).

A - Da una parte Spencer vedeva la possibilità di uno sviluppo di tipo eminentemente progressivo, movente cioè verso una maggiore complessità ed articolazione della società. Egli individuava in tal senso nello stadio militare la fase sempre precedente lo stadio industriale.

La società difatti, muovendosi verso una sempre maggiore estensione e complessità, per le ragioni di cui abbiamo parlato sopra (ovvero, in sostanza, per la naturale tendenza di ciò che è esterno a un determinato sistema ad entrare a farvi parte, oltre che a causa della competizione - in ragione di risorse limitate - tra le sue stesse parti), conoscerebbe diversi stadi di sviluppo. Nei primi, essendo ancora poco sviluppata la differenziazione delle attività sociali (ovvero la divisione del lavoro, per usare una terminologia economicistica), è ancora possibile ad un potere centralista (quale quello monarchico) controllare dall'alto le attività che si svolgono all'interno della società stessa. Essendo inoltre l'economia di tali contesti ancora fondamentalmente primitiva, cioè basata in gran parte - oltre che su attività di sussistenza - sulla rapina e sulla guerra, la forza vi svolgerebbe un ruolo fondamentale per mantenere la coesione interna, essendo inoltre un valido mezzo di arricchimento attraverso i conflitti esterni. Non a caso queste società sono definite da Spencer come militari: in esse infatti se la produzione è essenzialmente agricola, la distribuzione della ricchezza è invece spesso il prodotto della guerra. A tali tipi di società rigide, gerarchiche e stataliste (ovvero fondate sulla forza militare, oltre che su apparati statali molto forti, e prive a volte dell'idea stessa di proprietà privata… basate quindi su una netta prevalenza della dimensione collettiva su quella privata), farebbero seguito altre di opposta natura, ovvero privatistiche e industriali. In queste ultime, non è già operante necessariamente l'industria intesa in senso moderno e tecnologico, bensì piuttosto la produzione ai fini del commercio - un'attività quest'ultima di carattere essenzialmente privato! Un tale tipo di società sorgerebbe dal fatto che, aumentando col tempo il grado di specializzazione delle attività all'interno della società, diverrebbe gradualmente sempre più impossibile per lo stato esercitare su di esse un reale controllo. Per tale motivo, esse si trasformerebbero allora in attività private, ovvero gestite e tutelate dai singoli cittadini - anziché dall'autorità pubblica. Inoltre, un tale fattore renderebbe ogni persona responsabile non per tutte le altre, ma solo per i propri interessi privati, lacerando così il tessuto sociale, e rendendo tutti almeno in potenza 'nemici' di tutti, ovvero in reciproca competizione. In questo tipo di società, le attività industriali soppiantano quelle militari, la guerra diventando uno strumento obsoleto e sorpassato: alla guerra tra stati seguirebbe infatti quella - commerciale e imprenditoriale - tra i singoli individui. Anche i confini tra gli stati perderebbero in gran parte la propria funzione divisoria, essendo il commercio un'attività senza confini, senza pregiudizi culturali, ecc. Abbiamo qui delineato dunque i due stadi essenziali: quello collettivista/statalista e quello, a esso successivo, industriale/individualista. Nel primo la competizione e la legge di sopravvivenza del più forte si applicherebbe solo - o comunque in primo luogo - alle nazioni (attraverso, chiaramente, lo strumento della guerra), nel secondo invece essa si sposterebbe sulle singole persone, creando inoltre - attraverso le attività di carattere industriale e commerciale - una società non più centralizzata, bensì fondamentalmente aperta. E' chiaro altresì come le società militari siano più semplici ed arretrare rispetto a quelle industriali, in quanto la loro esistenza sarebbe basata su un minor grado di sviluppo interno nelle attività che vi si svolgono, ovvero nella divisione del lavoro!

Società militari

Scarsa divisione del lavoro, centralizzazione delle attività sociali attraverso gli eserciti e la burocrazia: l'economia è agricola e di conquista;

Società industriali

Maggiore divisione del lavoro, le attività produttive non possono più essere - almeno oltre un certo limite - controllate dallo stato, mentre l'economia diviene industriale, basata cioè sulla produzione dei prodotti finalizzata alla loro vendita.

B - A parte l'osservazione sulla somiglianza col suo 'antagonista' francese, A. Comte, nell'esaltazione della società industriale intesa come esito ultimo dello sviluppo dell'umanità (pur con tutte le differenze del caso, che non verranno però qui esaminate), non si può omettere di sottolineare come il pensiero di Spencer sia decisamente più sfumato e meno univoco di come potrebbe apparire in base a quanto si è finora detto. Secondo il nostro autore difatti, entra in gioco nella trasformazione della società - oltre alla prima - anche una seconda variabile. Anche qui, è la polarità tra società militare (difensivo/offensiva) e società industriale (pacifica, individualista e commerciale) a essere il perno della diversità. Ma vi è anche una grossa differenza: in una tale polarità infatti, il divenire non deve necessariamente procedere dal primo (e più arretrato) tipo di società, al secondo! Come si è già detto difatti, Spencer - pur affermando la validità sui tempi lunghi del principio di crescita della complessità strutturale delle società - non negava assolutamente la possibilità che queste ultime conoscessero anche delle fasi regressive. Uno dei fattori che potevano più facilmente determinarle, era per lui quello costituito dalla guerra con gli altri stati. Uno stato - anche complesso e articolato, ovvero già industriale - potrebbe difatti trovarsi nella condizione di doversi difendere da un altro stato con cui intrattiene dei rapporti di tipo conflittuale, magari di guerra. Alla prima variabile (soc. militare/soc. industriale) se ne aggiunge così un'altra, quella tra società in pace (interna e esterna), e società in condizione di guerra o di conflitto. E' ovvio come, nel secondo tipo di situazione, si abbia - anche qualora si sia già usciti dalla fase evolutiva prettamente militare - un ritorno ad alcuni dei caratteri di quest'ultima: controllo dello stato sui cittadini, ripresa delle attività militari, ecc. Spencer individuava quindi in sintesi, alla base del divenire storico, sia una variabile positiva, quasi sempre in atto pur con diverse gradualità (a seconda dei diversi contesti), sia una variabile - di carattere opposto alla precedente, ma con essa spesso coesistente - di carattere negativo, instaurantesi con il sorgere di una situazione di conflittualità verso l'esterno. Si vede bene, da ciò che si è detto, come l'impostazione materialistica spenceriana fosse basata:

a) sull'idea che la società fosse un'organizzazione fondata sull'interazione tra singoli individui (i quali, secondo la sua visione adattiva e utilitarista, sceglierebbero di aderirvi per motivi di vantaggio personale!),

b) su una concezione filosofica di tipo evoluzionista, secondo la quale ogni società - nel corso di passaggi successivi e graduali - tenderebbe ad una sempre maggiore complessità, attraverso la selezione degli individui più adatti e l'eliminazione dei meno adatti (ovvero, almeno in linea di massima, dei meno specializzati).

Emerge anche, già da questi brevissimi cenni, la somiglianza latente con la filosofia marxista, nella misura in cui sia Spencer che quest'ultima individuano nei processi esistenziali e materiali e nella loro trasformazione graduale (e ciò anche considerando la diversità - che non significa però inconciliabilità - dei criteri posti a base di tali idee di evoluzione), la sostanza più profonda e ultima, il motore stesso della società umana - anche nei suoi aspetti ideologici!

(d) L'antistatalismo di Spencer

Aspetto fondamentale della filosofia sociale spenceriana, al quale egli dovette peraltro gran parte del proprio successo e del proprio seguito a livello popolare, fu la fiera opposizione a qualsiasi ingerenza da parte dello Stato (ovvero, di qualsiasi dimensione di carattere pubblico o sovra-personale) nei confronti degli interessi e delle libere decisioni dei privati cittadini. Al contrario di Comte, il quale più o meno in quegli stessi anni preconizzava la nascita di uno Stato di tipo totalitario (in senso, come noto, eminentemente tecnocratico) che si spingesse a regolare perfino le attività più 'intime' dei singoli cittadini, Spencer affermava l'esigenza di un'organizzazione sociale fondata il più possibile su principi di carattere privato e contrattuale, un'organizzazione insomma nella quale lo stato si facesse garante il più possibile del rispetto di accordi - come tali, acquisenti anche valore di legge! - stabiliti a titolo privato tra singole persone. A una concezione statica e rigida - quale era quella comtiana - delle leggi (stabilite in maniera pressoché 'assoluta' dallo stato, ovvero dalle sue più alte sfere decisionali) egli ne contrapponeva dunque una all'interno della quale queste fossero il prodotto incessante e sempre temporaneo delle decisioni dei privati cittadini: il tutto - ovviamente - secondo quella concezione selettiva e dinamica tipica della sua filosofia a tutti i livelli. Bisogna altresì ricordare, una volta di più, che Spencer non considerava in alcun modo un tale tipo di evoluzione come un fatto inevitabile, e ciò dati i molteplici fattori di arretramento spesso latenti nelle aggregazioni umane (cfr. paragrafo precedente, punto B). Al contrario, egli considerava un tale assetto come quello più profondamente auspicabile per la convivenza umana, come un'idea alla cui realizzazione la politica avrebbe dovuto concorrere in ogni modo, favorita peraltro da quelle tendenze progressive e progressiste (delle quali si è parlato nel precedente paragrafo, al punto A) sempre in qualche in atto all'interno di ogni dimensione sociale. Da una tale convinzione appunto, derivò - come vedremo meglio tra poco - la contrarietà di Spencer all'indirizzo coloniale (o imperialista) assunto dall'Inghilterra già negli ultimi anni della sua vita. Vedremo più avanti, a un tale proposito, i limiti analitici del suo pensiero (i quali lo accomunano, peraltro, a quello comtiano): un pensiero incapace, attraverso i propri mezzi, di prevedere e di comprendere le ragioni profonde dell'evoluzione in senso colonialista delle società capitalistiche.

 

- Limiti del pensiero sociologico spenceriano

(a) Assenza di studi economici nel "materialismo scientifico" di Spencer

Abbiamo già osservato come la teoria evoluzionistica spenceriana fosse sostanzialmente una teoria materialista, nonché, almeno in qualche modo, dialettica (quantomeno nel senso 'evolutivo' del termine). In ciò, e non a torto, essa può apparire ed è apparsa affine a quella più classica del materialismo marxista. Un dato che dimostra tuttavia la profonda diversità di queste impostazioni, è la mancanza nella visione spenceriana di veri e propri studi di carattere economico. E' pur vero che una tale mancanza fosse compensata - ciò che vale, del resto, anche per la filosofia comtiana - dall'estensione del suo campo di ricerca a tutti gli aspetti (fisici, chimici, biologici, ecc.) della realtà. Ma resta pur vero che Spencer (al pari, di nuovo, dell'altro grande fondatore della scuola di pensiero positivista) mostrasse sempre un certo disinteresse verso l'approfondimento delle problematiche di natura più peculiarmente economica, e tutto ciò - paradossalmente - a dispetto del ruolo largamente positivo da lui attribuito alle attività commerciali e capitalistiche nello sviluppo della società. Spencer vedeva infatti, in queste ultime, un fattore di affermazione dell'individuo e della sua libertà, in contrapposizione alla struttura rigida e costrittiva delle società ancora militari. E fu forse proprio a causa di tali 'pregiudizi positivi', che egli non tentò mai di analizzare i meccanismi più profondi e le più intime contraddizioni di un tale tipo di organizzazione. Anche a ciò, come vedremo, si dovette la sua incapacità di comprendere i motivi più profondi della trasformazione in senso imperialistico sia dell'Inghilterra sia - più in generale - della compagine degli stati europei. Un tale tipo di trasformazione difatti, non fu da lui vista come l'esito naturale dello sviluppo della società 'industriale', bensì piuttosto come una deviazione di quest'ultima dal proprio corso naturale, avendo essa secondo lui una natura pacifica (in quanto basata sulle attività di scambio anziché su quelle militari) e anti-statalista (contraria cioè all'assunzione di poteri forti da parte dello Stato). Resta tuttavia, innegabile, il fatto che le sue vedute in campo economico - pur, come si è visto, alquanto imprecise - fossero sostanzialmente affini a quelle della scuola economica "borghese" (per usare una tipica denominazione marxista), essendo sostanzialmente coerenti con la visione di quei teorici (ex. Smith e Ricardo…) che consideravano quella capitalista come l'unica - o in ogni caso, come la più evoluta - tra le possibili forme di organizzazione a livello economico. In tal senso, la visione economica spenceriana della società, fu in sostanza espressione - pur non entrando, come si è già detto, del tutto in sintonia con gli ultimi sviluppi di essa - dell'ideologia capitalistica borghese.

(b) Spencer e il suo tempo: limiti di comprensione

Al tempo di Spencer, lo stato borghese iniziava a intraprendere un tipo di sviluppo decisamente contrario a quell'idea privatistica e libertaria di stato che Spencer stesso - e, peraltro, non lui soltanto! - aveva propugnato attraverso i suoi scritti. Scrive a tale proposito un celebre sociologo americano, Lewis Coser: "Solamente pochi avvertirono che, proprio in quegli anni in cui la libera iniziativa godeva del massimo splendore, lo stato moderno cominciava ad accumulare poteri che i signori dell'età vittoriana avrebbero trovato scandalosi". (Lewis Coser, "Maestri del pensiero sociologico", il Mulino, pag. 173). E se le teorie spenceriane in favore di uno "stato leggero" e non invasivo nei confronti delle libertà dei privati cittadini erano - già negli anni centrali della sua vita - oramai piuttosto sorpassate, lo sarebbero diventate ancor di più in quelli successivi alla sua morte. Lo sviluppo commerciale degli stati europei continentali infatti, stava minando sempre più chiaramente la supremazia commerciale inglese, ciò che costringeva l'Inghilterra a 'ripiegare' su uno sviluppo di tipo coloniale (e ciò, in quanto le colonie erano una sicura fonte sia di materie prime a basso costo, sia di nuovi mercati) e, in modo complementare, su misure di carattere protezionistico. Due accorgimenti che, ovviamente, finivano per legare sempre più strettamente tra loro le problematiche politiche (e i poteri militari) con le ragioni dello sviluppo economico, secondo una direzione diametralmente opposta a quella indicata dallo stesso Spencer, il quale considerava l'economia borghese - fondata cioè sulla produzione e sul libero scambio dei prodotti - come foriera di uno sviluppo pacifico, nonché di una fondamentale libertà dei cittadini nei confronti del potere centrale dello stato.

Erano insomma in atto due fenomeni:

a) da una parte - come si è appena visto - quello della statizzazione dell'economia e della società, scaturente non solo da ragioni di carattere economico, ma anche da una maggior complessità della società stessa, che portava quest'ultima a esigere sempre maggiori restrizioni e sempre maggiori controlli al livello delle proprie attività interne (un fattore quest'ultimo che, seppure costituiva l'esito inevitabile dell'incalzante complessità a livello sociale, non per questo era stato previsto da Spencer);

b) dall'altra, vi era la formazione di poteri economici di carattere monopolistico. Una tendenza quest'ultima (secondo Marx, peraltro, connaturata all'evoluzione stessa dell'economia capitalistica, i cui capitali finirebbero nelle mani di un sempre più ristretto numero di persone) sulla quale Spencer non si espresse mai in modo critico e negativo, considerandola come l'esito inevitabile e largamente positivo della crescente integrazione delle attività umane, sempre più articolate e diversificate, e richiedenti quindi un'organizzazione sempre più piramidale e socializzata, con la conseguente riduzione dell'anarchia e dell'arbitrio individuali. (Si noti, a un tale proposito, la differenza che sussiste - nella visione spenceriana - tra l'invasività dello stato, che limita con la sua azione il libero sviluppo dell'economia, e la realtà delle grandi associazioni produttive e commerciali, che di un tale sviluppo sarebbero invece un esito naturale!)

Nel giudizio positivo espresso da Spencer in merito alle nascenti realtà monopolistiche, possiamo scorgere uno dei motivi reazionari della sua visione politica (per altri versi invece, ampiamente innovatrice), come anche un elemento di affinità con la sociologia comtiana. A sua volta difatti, anche il sociologo francese - seppure per ragioni molto diverse - vedeva nei monopoli un elemento essenziale della futura società positiva, identificandoli con le stesse basi produttive di essa (e ciò secondo la tripartizione della società tra i sociologi (i 'sacerdoti' della società positiva), gli industriali (i 'manager', ovvero gli organizzatori delle attività produttive) e gli operai (la classe lavoratrice)). Spencer insomma, fu un tipico esponente della corrente positivista: come tale fu essenzialmente incurante delle problematiche più peculiarmente economiche, e convinto assertore - al pari di Comte - della capacità della società capitalista borghese di 'risolvere' (attraverso, nel suo caso, l'eliminazione degli elementi socialmente più 'deboli') quei vasti problemi di povertà, di sovrappopolamento, ecc. da cui essa era - ed è - naturalmente afflitta.

(c) Il dibattito tra Spencer e Mill sullo Stato

In merito al tema della libertà degli individui nei confronti del potere statale, è da segnalare il dibattito che si sviluppò tra lo stesso Spencer e un altro grande esponente del pensiero liberale e della scuola degli economisti 'classici', John Stuart Mill. Quest'ultimo infatti, pur sottolineando la validità dei meccanismi auto-regolativi del mercato e della libera concorrenza a livello commerciale, auspicava anche in particolari frangenti l'intervento dello stato contro gli eccessi di sperequazione della ricchezza e contro (ed emerge qui, molto chiaramente, la differenza d'impostazione rispetto a Spencer) la formazione a livello economico di poteri di carattere monopolistico! Al contrario, Spencer ribatteva che tali limitazioni sarebbero state l'espressione dell'invasività dello stato nei confronti del libero sviluppo e dell'evoluzione selettiva (secondo lui orientata, senza alcun dubbio, verso il miglioramento dell'uomo e delle sue condizioni di vita) dell'economia e della società industriale. A difesa di una tale convinzione inoltre, egli sosteneva che la difesa dei ceti più deboli equivalesse anche a quella degli elementi socialmente più improduttivi, e che come tale essa si scontrasse con la reale utilità sociale! Dunque, se i monopoli erano per Spencer l'espressione del naturale corso evolutivo della società nel suo stadio industriale, corso orientato verso una sempre maggiore complessità ed efficienza strutturale (ma anche - notiamo noi -, almeno in questo caso, verso una riduzione della libertà individuale!), la selezione degli elementi più deboli (quelli cioè incapaci di trovare una propria collocazione all'interno del sistema produttivo) era una necessità improrogabile, al fine di migliorare la specie umana, consentendole così un futuro più brillante e felice. In termini marxisti quindi, se Mill si dimostrava un "riformista borghese" (fiducioso, come tale, nelle capacità correttive del sistema produttivo capitalista, attraverso l'instaurazione di opportune misure legali, attuate per mezzo di un potere quale quello dello stato, superiore agli interessi privati), Spencer mostrava al contrario di essere un economista borghese 'puro' (fiducioso cioè nell'intrinseca capacità auto-correttiva dell'economia di mercato, senza bisogno di azioni - politiche e giuridiche - a essa estrinseche).

 

- Motivi d'interesse e di attualità del pensiero spenceriano

E' ovvio come il paragrafo che qui seguirà sia, all'interno di tutto questo breve scritto, quello maggiormente opinabile, in quanto espressione di un punto di vista del tutto soggettivo. Speriamo, ciononostante, che esso posa contenere per qualche lettore dei validi spunti di riflessione. Ciò detto, pensiamo che siano essenzialmente tre le ragioni di interesse del pensiero spenceriano - soprattutto di quello più peculiarmente sociologico e politico:

a) il primo è, a propria volta, un motivo di carattere 'sociologico', riguardando il tipo di ricezione che esso ha avuto in alcuni luoghi, e che ne ha determinato - almeno lì - un successo quasi imperituro;
b) il secondo è legato invece ai dibattiti odierni in merito al futuro dell'economia capitalistica (dibattiti che potremmo tradurre più o meno con la seguente domanda: "è o no, tale economia, destinata ad essere superata da altri e migliori - o in ogni caso differenti - sistemi di produzione a livello sociale?");
c) il terzo infine riguarda la parte 'utopica' del pensiero di Spencer.

Quest'ultima, come vedremo, trova il suo principale motivo di interesse nel fatto di avvicinare Spencer al suo "grande nemico", Karl Marx, prospettando per il futuro dell'umanità un orizzonte fondato sulla pace e sul rispetto reciproco tra gli uomini: la fine o quasi, quindi, di quello stato di sopraffazione reciproca che da sempre regna tra essi. Trasversale poi a tutta la nostra analisi, sarà il tema del confronto tra il pensiero evoluzionistico spenceriano e quello materialista e dialettico marxista (o marxiano, se si preferisce). Cercheremo cioè di rilevare sia le somiglianze che le differenze sussistenti tra le due impostazioni, tanto da arrivare a definire Spencer - quantomeno sotto alcuni aspetti, e mutuando un'espressione spesso usata per un altro sociologo, Max Weber - come una sorta di "Marx della borghesia".

(a) Spencer e la tradizione politica anglosassone

Innanzitutto, è interessante rilevare come Spencer, cittadino inglese, sia assurto a 'ideologo' della "società senza stato", ovvero della filosofia sociale del <<lasciar fare>> (Laissez-faire) - una filosofia in nome della quale, come abbiamo visto, egli difendeva tanto il libero scambio e l'iniziativa individuale, quanto il fenomeno delle aggregazioni monopolistiche (essendo contrario, come abbiamo visto, a qualsiasi intervento da parte dello stato - secondo quanto proposto, tra l'altro, da un altro filosofo inglese: J. Stuart Mill - atto a limitarne gli smisurati poteri economici…). Per tale ragione, Spencer riscosse più consensi in una nazione quale l'America del nord (gli U.S.A.), da sempre paladina delle libertà personali contro l'invadenza e le limitazioni del potere statale, di quanto non ne riscosse invece nella sua vera patria, l'Inghilterra (una nazione che, - come si è già visto -, proprio a partire dai suoi anni, si indirizzò verso una nuova forma di organizzazione, all'interno della quale l'autorità statale assumeva un ruolo di sostegno e di controllo sempre più centrale). Spencer fu quindi un ideologo (anche se, forse, in gran parte inconsapevole) di un'economia borghese di stampo liberista, contraria cioè non solo al superamento della logica della concorrenza (ovvero della "sopravvivenza del migliore") ma anche a qualsiasi provvedimento atto ad alleviare le asperità connesse con un tale tipo di regime, laddove per esempio esso sfociava appunto nella nascita dei monopoli (i quali ovviamente, da molti punti di vista, segnavano e segnano la fine della libera iniziativa e del libero mercato). A nostro giudizio, è possibile fare qui alcune interessanti osservazioni in merito alla somiglianza/differenza dell'analisi spenceriana rispetto a quella materialista marxiana.

a) Innanzitutto, la "lotta sociale". Sia Marx che Spencer sono, come abbiamo già ricordato, dei 'materialisti', nel senso di non porre alla base della società le idee, ma i conflitti e gli interessi concreti tra gli individui. Entrambe poi, e di conseguenza, vedono nelle ideologie e negli atteggiamenti sociali una sorta di traduzione o di riflesso involontario (sul piano ideale, speculativo e morale) di quelle istanze pratiche (riguardanti l'organizzazione della vita comunitaria, ovvero i suoi aspetti più concreti) caratterizzanti il loro contesto d'origine. Una differenza essenziale tra essi però, sta nel fatto che mentre Marx parlava di "lotta di classe" (cioè della lotta esistente tra differenti gruppi o categorie sociali, composte da individui accomunati da interessi e da concezioni di fondo tra loro affini), Spencer parlava invece soltanto di lotta tra singoli individui (fossero essi, delle comunità intere - ovvero degli stati in guerra tra loro per questioni di dominio -, dei singoli imprenditori o imprese, od infine delle associazioni tendenti a esercitare un monopolio commerciale all'interno di un mercato). Per entrambi dunque, pur avendo a riguardo concezioni tendenzialmente opposte, era il conflitto di interessi il motore concreto del divenire storico. E tuttavia, coerentemente con la visione di coloro che Marx definiva pensatori economici borghesi - anche di quelli a suo giudizio più acuti e fecondi, quali Ricardo e Smith -, Spencer considerava la società in un'ottica astratta piuttosto che dialettica: come cioè un coacervo di elementi semplici e distinti, anziché come un terreno di scontro/incontro tra entità o gruppi trasversali (le classi, appunto) all'interno di un più ampio sistema sociale (ex: quello schiavista, diviso tra gli schiavi e i liberi cittadini; quello capitalista, diviso tra proletari e proprietari dei mezzi produttivi; ecc.).

b) Per tale ragione - e veniamo qui al secondo aspetto della questione - non si prospetta in Spencer alcuna idea di rivoluzione sociale, quantomeno in senso forte.

Essendo appunto secondo la sua visione la società una somma di entità individuali (e non solo - come si è appena accennato - di singole persone, bensì innanzitutto di singoli organismi: dagli stati, alle persone, ai grandi produttori…), non era per lui possibile alcuna vera trasformazione o rivoluzionamento dell'assetto sociale, ma più semplicemente una risoluzione dei singoli conflitti in favore dell'una o dell'altra parte. Forse anche per tale ragione, Spencer non parlò mai (quantomeno esplicitamente, come fece invece Marx) di una progressione di stadi produttivi, bensì più semplicemente di due differenti stadi 'organizzativi': quello militare e quello industriale. Alla lotta di classe, perciò, si sostituiva in Spencer quella tra individui desiderosi di conservare la propria sopravvivenza o - al limite - di acquisire un dominio personale su altri individui. Non vi era quindi, a livello sostanziale, alcuna differenza tra l'una e l'altra parte, né di conseguenza dall'esito di tali lotte avrebbe potuto dipendere un cambiamento profondo dell'assetto sociale. [Ciò detto, non si deve comunque dimenticare l'esistenza, all'interno del suo sistema, dei due già ricordati tipi di organizzazione…]. Nel complesso insomma, se anche Spencer sviluppò una sua idea di dialettica sociale, essa fu limitata a quella di una lotta tra interessi sì discordanti, ma anche in sostanza analoghi da un punto di vista qualitativo. Tale idea non si spinse quindi, nel suo caso, a quella di un contrasto tra la classe dei dominatori e quella dei dominati, tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati… (secondo appunto quella polarità che, seppure sotto forme sempre diverse a seconda degli stadi attraversati dall'umanità, era per Marx la sostanza stessa della lotta sociale in ogni epoca!) Sempre per tale ragione, non essendo presente nel suo sistema una prospettiva di tipo classista, Spencer non arrivò mai ad una visione quale quella marxista, per la quale la "nuova società" (socialista prima, e poi comunista) si sarebbe basata sul rifiuto di ogni diversità economica, ovvero delle differenze di classe. Il che tuttavia non significa - come vedremo meglio alla fine di questo scritto - che egli non arrivasse a modo proprio a formulare una sorta di 'utopia sociale', fondata se non sull'eguaglianza tra le persone, quantomeno sulla solidarietà e sulla correttezza dei rapporti interpersonali, contro il principio universale della sopraffazione reciproca. Ciononostante, Spencer non rinunciò mai ad affermare la priorità assoluta dell'individuo sulla collettività e sulla comunità, ed anche il suo "socialismo" (se così vogliamo definirlo) non smentì questo atteggiamento dottrinario.

(b) Capitalismo o socialismo?

Un'altra questione sollevata dal pensiero spenceriano, è quella inerente la trasformazione della società capitalista (da lui definita "industriale", in quanto basata soprattutto sull'industria e sul commercio dei suoi prodotti) in società socialista - o in ogni caso il mutamento di essa in una nuova e alternativa forma di produzione sociale. Abbiamo già visto come - al pari degli economisti classici, "borghesi" - Spencer in sostanza non contemplasse riguardo allo 'stadio industriale' la possibilità di un cambiamento o di un'evoluzione verso una superiore organizzazione sociale - soltanto, semmai, la possibilità di una sua involuzione o regresso verso una società statalista e militarista. [Un dato caratterizzante comunque la sua impostazione, e totalmente mancante invece nelle teorie di Smith e Ricardo, è il principio secondo il quale l'organizzazione sociale e produttiva si evolverebbe, per una interna necessità logica, lungo fasi successive. Al pari di Marx, quindi, anche Spencer può essere considerato un pensatore storico - o meglio storicistico -, in quanto dimostra di non ignorare la natura non (meramente) contingente e casuale delle trasformazioni dell'umanità. In ciò nuovamente (oltre che nella già ricordata concezione 'materialistica' della storia), scorgiamo un motivo di affinità profonda del suo pensiero rispetto a quello di Marx.] La sociologia di Spencer pone dunque oggi implicitamente un problema, ovvero quello della necessità o meno di una trasformazione dell'attuale società (fondata, come noto, sul profitto commerciale) in un diverso tipo di organizzazione economica. E a tale domanda - al pari peraltro, come si è già detto, dei pensatori borghesi - egli risponde negativamente. E se tale risposta riceve oggi più adesioni di quanto non avvenisse in passato, ciò si deve senza dubbio alla trasformazione degli ex-regimi 'socialisti' del blocco sovietico, in stati a economia di mercato. La posizione di Spencer quindi, ci appare oggi più fondata di quella assunta a tale riguardo da Marx e dai suoi 'seguaci', quantomeno nel senso di escludere una necessità autonoma e oggettiva di trasformazione del sistema vigente in un nuovo sistema (secondo i dettami sia di molte opere di Marx e Engels, che di molta pubblicistica socialista). Resta in ogni caso evidente che, nei confronti della visione elaborata da Marx e Engels, la filosofia sociale spenceriana - nonostante la sua indiscutibile efficacia come strumento di analisi e di interpretazione della società - si dimostri carente riguardo ad alcuni aspetti davvero centrali: cioè a tutti quelli inerenti quelle divisioni interne che attraversano trasversalmente qualsiasi tipo di organizzazione sociale - in una parola, alle divisioni di classe. E proprio a un tale aspetto 'semplificante' si deve senza dubbio la maggiore apprendibilità della sociologia spenceriana rispetto a quella marxista (con cui condivide però il tentativo di fornire una visione critica e razionale degli sviluppi sia materiali che spirituali dell'umanità): un dato che costituisce ovviamente una delle ragioni del fascino che essa ha esercitato, e che ancora oggi esercita, su molti studiosi. Se a ciò si aggiunge che una tale teoria - per le ragioni già ricordate - non mette in evidenza né le contraddizioni interne dell'economia capitalista (o, per dirla con Spencer, "della società industriale") né i suoi punti di debolezza strutturale (per quanto profondi e distruttivi essi possano essere), si comprende il motivo del suo facile e immediato successo, già a partire dai primi scritti del nostro autore, in un paese come gli Stati Uniti! Come si è peraltro spesso osservato riguardo a Weber, sembrerebbe quasi che le teorie di Spencer siano teorie costruite 'ad uso e consumo' della borghesia industriale e commerciale, in favore cioè dell'idea di libero mercato! E sembrerebbe inoltre che esse - in modo ovviamente involontario e inconsapevole, data la sovrapposizione temporale dei due autori - tentino di correggere la filosofia marxista in un senso nettamente favorevole all'ideologia capitalistica borghese. Possiamo allora azzardarci ad adoperare per Spencer una definizione - in passato già utilizzata per Weber - che lo vedrebbe come una sorta di "Marx della borghesia"… ovvero come un ideologo della classe borghese, le cui affinità con il marxismo sono tuttavia per molti versi innegabili. Resta infine da analizzare un ultimo aspetto di tale visione, il quale - come del resto già i precedenti - segna contemporaneamente tanto la distanza quanto la vicinanza del pensiero del nostro autore rispetto a quello marxista: e cioè l'aspetto utopistico della sua concezione.

(c) Il "socialismo" di Spencer

Se vogliamo delineare e conoscere i tratti salienti dell'"utopia spenceriana", non dobbiamo andare a cercarli nella sua teoria politica, bensì in quella più propriamente etica. E infatti, come si è già detto, egli non credeva in sostanza nella possibilità di una società più evoluta e migliore di quella cosiddetta industriale, anche se - come si vedrà - era convinto della possibilità di un ulteriore e sostanziale perfezionamento morale di essa. Una società assolutamente buona, difatti, non poteva per lui prescindere da un rispetto pressoché assoluto nei confronti delle libere iniziative dei suoi componenti, aborrendo quindi e respingendo qualsiasi ingerenza nelle libere scelte dei cittadini da parte di un qualsiasi potere superiore, quale era appunto quello dello Stato. Se tuttavia, secondo Spencer, la competizione equivaleva per se stessa all'interesse collettivo, d'altro canto la socialità non poteva non implicare anche tutta una serie di norme morali, volte a rendere possibile una convivenza pacifica e onesta tra i cittadini stessi. La sua riflessione etica, dunque, era incentrata sull'idea di una progressiva interiorizzazione delle norme morali poste a base della convivenza, un fatto dovuto - come sempre - a un graduale adattamento della specie umana al proprio stesso contesto di esistenza. Secondo una tale visione quindi, la selezione avrebbe agito una volta di più in un senso positivo, favorendo il radicamento delle norme etiche nell'interiorità stessa degli individui della specie umana. Attraverso un tale processo dunque, esse avrebbero secondo lui perduto il loro intrinseco valore di obbligatorietà, divenendo al contrario dei piaceri - non più quindi delle forme auto (o etero) costrittive, ma delle componenti positive della natura e dei comportamenti umani. Il vivere coerentemente con esse sarebbe quindi diventato parte dell'agire istintivo e naturale degli uomini… in modo simile, del resto, a come - già oggi - si prova piacere nel prendersi cura della propria prole e della propria famiglia! La trasformazione dell'arbitrio umano da un fatto essenzialmente egoistico (volto cioè al piacere e all'utilità immediate da parte degli individui, secondo la concezione più tipicamente utilitarista benthamiana) in uno invece altruistico (seppure ancora, in qualche modo, impregnato di motivazioni edonistiche e utilitarie), avrebbe comportato insomma la trasformazione del corpo sociale in una comunità fondata sull'urbanità e sul rispetto reciproco tra tutti gli individui - fatta salva ovviamente l'intangibilità della libera iniziativa privata, nonché di tutti i suoi annessi e connessi giuridici e politici! Per chiudere in bellezza questa breve e senza dubbio deficitaria analisi del pensiero spenceriano, e nella fattispecie della concezione 'utopica' di esso, vogliamo qui istituire una volta di più un paragone con il pensiero marxiano, laddove esso sfocia nella prefigurazione di una società comunistica ed egualitaria, e cioè - rispetto a quella spenceriana - in un differente tipo di utopia sociale.

(a) Innanzitutto, le somiglianze : entrambi i pensatori, dopo avere elaborato un'idea personale del progresso storico (ovvero due diversi metodi di interpretazione di esso, tutti e due peraltro soltanto indicativi, ovvero - e ciò soprattutto, come abbiamo già osservato, nella visione di Spencer - molto spesso revocati dalle circostanze storiche concrete, soggette a frequenti processi involutivi), preconizzano un avvenire di giustizia e di prosperità.

(b) Ma anche le non meno cruciali differenze : mentre per Marx, una tale società dovrà sorgere dal superamento stesso di quella logica selettiva e competitiva che è propria della società capitalistica industriale (e, pure in modi diversi, anche di quelle a essa precedenti…), secondo Spencer tale società sorgerà inevitabilmente dallo svolgimento finale di tale processo, e quindi in continuità - anziché in contrasto - con ciò che storicamente l'avrà preceduta. Ancora una volta, ci verrebbe da ribadire la precedente e audace definizione del nostro autore, da noi visto come di una sorta di "Marx della borghesia", il quale da un lato sembra ricalcare le orme di Marx - rovesciando però dall'altro alcuni dei presupposti fondamentali del suo pensiero! E ci sorge spontanea anche un'altra osservazione, qualora si pensi alla fiducia nutrita ai giorni nostri dalla società occidentale (e, prima di ttutto, proprio da quella americana) nei confronti delle proprie tradizioni liberiste e democratiche, considerate come una sorta di panacea per tutti i mali, ovvero come una sorta di società ideale (potremmo dire leibnizianamente… come "il migliore dei mondi possibili"!?…) che finirà per imporsi su tutte le altre organizzazioni, e sulle impostazioni culturali a esse corrispondenti! [Ma questa osservazione, pur carica di ironia, non esclude altresì che in ciò vi sia una buona parte di ragione.] Concludendo, anche Spencer, al pari di tutti gli altri pensatori storicistici ottocenteschi (da Hegel a Marx a Comte…) ha sentito l'esigenza di elaborare una propria visione idealizzata in merito all'esito finale del divenire storico, forse per dare un senso e un valore positivo a quella teoria evolutiva che - almeno da un punto di vista politico ed etico - sarebbe altrimenti rimasta una semplice, e in ultima analisi arida, concezione del divenire storico.

 

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