Spettri di Marx
viene pubblicato da Jacques Derrida nel 1993 al centro dello scritto, che nasce
come rielaborazione di una conferenza, troviamo l’idea del “comunismo
postmoderno”, in riferimento al tema della “decostruzione”. Cerchiamo dapprima
di sintetizzare il contenuto del libro per poi analizzarne alcuni punti
teoreticamente fondamentali. Gli “spettri di Marx” a cui allude il titolo
devono essere intesi in un doppio senso: da un lato, Marx come spettro;
dall’altro, nel senso di spettri che ossessionavano Marx quand’era ancora in
vita. L’idea di Derrida è che, per tutta la sua vita, Marx fu un ghostbuster
impegnatissimo a dar la caccia a fantasmi: ne affiora allora l’immagine di un
fantasma ossessionante e, al tempo stesso, ossessionato dai fantasmi. Il tema
affiora bene nella convinzione marxiana secondo cui la realtà in cui viviamo è una
realtà spettrale, per capire la quale occorre non già una ontologie,
bensì una hantologie, vale a dire una messa al bando del fantasma. Si tratta di
una realtà spettrale nel senso che il modo capitalistico di produzione è un
mondo di automi senza soggetti, un mondo nel quale i morti (le merci) dominano
sui vivi (gli uomini), i tavoli ballano, il capitale assume la forma di un
vampiro che succhia il sangue ai lavoratori e il mondo stesso è
fantasmaticamente capovolto. Ma – come nota acutamente Derrida – se ci si
lascia prendere dalla foga del dare la caccia al fantasma, si finisce fatalmente
per essere dominati da esso: in altri termini, se credi che coi fantasmi la si
possa facilmente fare finita, ben presto ti ritrovi ad essere loro vittima. E
Marx, soprattutto dopo il crollo del Muro di Berlino, è un fantasma che ci
ossessiona: tutti – dal premier Berlusconi al papa – ne parlano come di uno
spettro ossessionante. Questa, secondo Derrida, coincide con quella che Sigmund
Freud chiamava la “fase giubilatoria della rielaborazione del lutto” e si
configura, a ben vedere, come una forma di esorcismo. Detto altrimenti, chi
annuncia a gran voce la morte di Marx, lo fa perché ossessionato dal suo
spettro. Certo, un capitalismo che fosse forte, non avrebbe bisogno di fare
ricorso a questo scongiuro. Anche in Derrida sembra tornare il fastidioso luogo
comune dell’eccezionalità di Marx, come se non si trattasse di un cadavere (o
di uno spettro) tra gli altri: e l’ossessione per il suo spettro è il sintomo
di un capitalismo fragile. Il pensatore algerino insiste molto sul fatto che
Marx rappresenti una delle più grandi ferite che l’umanità abbia ricevuto,
alludendo al nesso tra marxismo e totalitarismo. Lo stalinismo sarebbe nato
dalla paura dello spettro di Marx e, a sua volta, il nazismo avrebbe preso le
mosse dalla paura di Stalin (lettura che non deve comunque essere accostata a
quella proposta da Nolte, avverte Derrida). La grande falla del pensiero
marxiano, dal punto di vista di Derrida, può così essere sintetizzata: Marx
pensa la cosa giusta dal punto di vista sbagliato; pensa bene quando rileva che
il mondo capitalistico è rovesciato, spettrale, abitato da cose vive e da
uomini morti; ma Marx sbaglia, nella misura in cui – come vedremo tra poco –
s’illude che esistano zone franche da fantasmi. Molto acutamente, Derrida fa
notare che il grande spettro filosofico che ossessionava Marx era Max Stirner,
contro il quale scrive ben tre quarti de L’ideologia tedesca (cosa che
ben pochi interpreti mettono in risalto). Contro Stirner, che riconduce la
realtà al singolo, Marx la riporta al genere umano: in comune, i due pensatori
hanno il loro essere grandi esperti di spettri e nemici di essi, in nome della
vita contro la morte, dell’essere umano contro il fantasma. Tutta la loro
critica si risolve in esorcismo: essi credono di disincantare, ma in realtà
riproducono lo spettro a intensità maggiore; e questo alla luce del fatto che
essi sono convinti che il vero problema sia il fantasma e che esista un ambito
di fenomeni non contaminato da esso (l’unico di Stirner, il genere umano di
Marx). In particolare, nella prospettiva marxiana, non appena si va in avanti
(società comunista) o indietro (società precapitalistiche), ecco che scompaiono
i fantasmi (feticismo della merce, opacità della società, ecc.). Al contrario,
Derrida è convinto che sia impossibile una zona libera da fantasmi: l’alone
spettrale resta sempre e comunque. Ma, da pensatore postmtafisico e non
arrogante, Derrida continua a criticare la società così com’è e lo fa in nome
di Marx e del messianesimo. Derrida insiste poi su un tema a lui assai caro:
quello dell’ospitalità. A ben vedere, la paura del fantasma è paura dell’altro;
e un pensiero che, come quello marxiano, mira soltanto a fare la pelle ai
fantasmi, porta in sé i germi del totalitarismo e vede la diversità e l’altro
come spettri. La prospettiva di Derrida è tanto più lucida se si considera la
sua straordinaria capacità di anticipare lo “spirito del tempo”: è infatti
assolutamente vero che, dopol’89, Marx esiste soltanto come spettro, tanto
presso i nemici dichiarati del marxismo quanto presso i suoi presunti amici (i
partiti che a lui più o meno si richiamano). È bene soffermare l’attenzione su
quattro dicotomie centrali per comprendere il discorso di Derrida:
1) spirito
– fantasma
2)
fine della storia –
messianesimo
3)
diritto – giustizia
4)
vita – morte
Noi analizzeremo
soprattutto la prima. Nella conferenza Dello spirito, egli aveva
commentato alcuni luoghi in cui Martin Heidegger parlava di “spirito” (Geist)
e ne aveva tratto la conclusione che il terreno su cui era potuto nascere il
nazismo era la cultura, anche alla luce del fatto che le affermazioni più
compromettenti e filo-naziste Heidegger le fa quando parla dello spirito. Ma
che cos’ha di cattivo lo spirito? Il fatto di pretendersi sempre buono,
cancellando le differenze; al contrario, il fantasma è sempre inteso come cattivo
(solo Shakespeare sembra vederlo come positivo),ma in realtà è buono. Memore
del suo passato di fenomenologo, Derrida cerca di unire il marxismo alla
fenomenologia husserliana (operazione in cui si era già cimentato il filosofo
vietnamita, Tran Duc Thao, scomparso enigmaticamente)
e lo fa appellandosi al “segno”, come a dire che per fare la “riduzione
eidetica” è pur sempre necessaria un po’ di materia. E se lo spirito è mero
spirito, il fantasma ha sempre un po’ di materia (i fantasmi vengono
immancabilmente raffigurati con le catene addosso), non è ubiquo (di solito
vive in un castello): detto altrimenti, il fantasma è la versione
materialistica dello spirito. Si pensi a quando Cristo resuscitato deve convincere
i suoi discepoli di non essere un fantasma. Per quel che concerne la dicotomia
fine della storia – messianesimo, Derrida si misura con la posizione di
Fukuyama, che, com’è noto, sostiene che la storia è ormai finita: ma parlare di
“storia finita” è, per Derrida, contraddittorio quanto parlare di “puro
spirito”; infatti, anche se fosse finita, la storia ricomincerebbe, giacché ad
ogni istante ne segue un altro. Proprio perché si aspetta sempre l’arrivo di
qualche cosa, la storia va avanti, come già notava Husserl. La fine della
storia, allora, non può coincidere con la fine del marxismo. Per quel che
riguarda la dicotomia diritto – giustizia, Derrida preferisce curiosamente la
giustizia, benché ci si sarebbe potuti aspettare che optasse per il diritto (che
ha a che fare con la scrittura). La quarta dicotomia (vita – morte) rimanda al
fatto che il vivere sia un sopravvivere e, in quanto tale, abbia un che di
spettrale.
[ Questo estratto nasce da
una mia rielaborazione della conferenza “Derrida interprete di Marx”, tenuta
dal prof. Gaetano Chiurazzi, dal prof. Enrico Donaggio e dal prof. Maurizio
Ferraris nel marzo del 2006 presso l’Università di Torino. Naturalmente
eventuali errori e imprecisioni sono da attribuire al sottoscritto. ]
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