A cura di Giuseppe Tortora
Il "nuovo" spiritualismo
Nel clima positivistico s'era finito col far coincidere la filosofia con la scienza, e col dare alla scienza stessa un ruolo non solo predominante, ma esclusivo, nell'interpretazione del mondo, dell'individuo, della società e della storia. Ciò aveva posto fuori gioco gli stessi compiti programmatici, oltre che i metodi di lavoro, della metafisica e della teologia. Ma ugualmente ciò aveva compromesso gli stessi concetti di ordinamento finalistico della natura, di libera volontà umana, e, per quanto riguarda il pensiero religioso, quello di valori trascendenti rispetto all'individuo e alla storia, e quello di fini ultraterreni del comportamento umano.
Lo spiritualismo che si sviluppò tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, prese forma ed indirizzo specifico proprio come opposizione alle "aberrazioni" positivistiche. Esso non pretese di fondare la validità delle proprie affermazioni a partire da presunte verità fondamentali incrollabili ed incontestabili, ma pure inverificabili, bensí aspirò a ricavare quelle verità dall'analisi interiore, introspettiva, dell'uomo. Il nuovo spiritualismo si configura, anche quando non ha carattere specificamente religioso, come analisi che la coscienza fa di se stessa. Sicché i "dati di coscienza", per gli spiritualisti, dovrebbero avere lo stesso valore testimoniale e probatorio dei "fatti" di cui parlano i positivisti. Si tratta di dati interiori in generale, compresi dunque anche quelli sentimentali, del cuore. Cosí, ad esempio, era possibile recuperare la trascendenza di Dio in quanto dato incontestabile dell'esigenza interiore di infinità e di perfezione assoluta propria dell'uomo; oppure la libertà umana come dato certo che il singolo può cogliere immediatamente in sé e può teorizzare poi filosoficamente.
Immanuel Hermann Fichte
(1796-1879), editore delle opere del piú celebre padre, si mosse nella difesa del cristianesimo, attraverso lo sviluppo dei problemi teologici su base filosofica. Ciò egli fece prendendo le distanze da certo esagerato idealismo e dalle pretese monopolizzatrici dei positivisti. Il mondo per lui è ordinato finalisticamente, ad opera di un creatore intelligente. La scienza non può contestare questa verità, perché essa si trova al di là del suo orizzonte specifico. L'uomo, quindi, essere del mondo, partecipa di una forza spirituale divina che si esprime, al grado massimo, nell'estasi religiosa.Rudolph Hermann Lotze
(1817-1881) propose un "idealismo teologico". La sostanza del mondo, egli dice, è il bene; tutte le esigenze e i sentimenti dell'anima umana inducono l'uomo alla ricerca del bene. Pertanto niente da contestare all'affermazione scientista che il "meccanicismo" domina la realtà naturale; infatti è incontestabile che la natura si muove secondo leggi necessarie ed immutabili; ma bisogna aggiungere che tale ordinamento meccanico è espressione di una saggezza superiore, ed ha uno scopo complessivo che è quello della realizzazione del bene. Anzi quanto piú si approfondisce la perfezione del meccanismo naturale, tanto piú si fa chiaro il principio superiore di razionalità inerente alla realtà. E infatti, la scoperta che il processo di evoluzione della natura culmina nell'uomo, nella sua vita spirituale, è la testimonianza che tutta la realtà, cosiddetta "materiale", è nella sua sostanza "spirituale", e che l'affermazione dello spirito è il fine stesso del processo naturale. Inoltre la regolarità del processo mostra che Dio è la condizione di ogni evento fisico e di ogni legge meccanica. All'uomo cosí resta aperta la via alla speranza e alla gioia dell'esistenza, come pure la possibilità dell'azione morale e la certezza della fede.Per rivendicare la priorità e l'indipendenza dello spirito rispetto alla natura, poi, Afrikàn Spir (1837-1890) parte da lontano. Il principio logico d'identità, egli dice, non concorda con l'esperienza perché ogni oggetto percepibile non è mai identico a sé; pertanto quel principio è a priori e non a posteriori; esso esprime un concetto relativo all'essenza delle cose; dunque l'esperienza non ci rivela l'essenza delle cose, ma solo la loro apparenza. Perciò c'è un piano delle essenze, permanenti immutabili incondizionate, e un piano della realtà empirica, molteplice mutevole e, per il suo mutamento continuo, condizionata. Tra i due piani non ci può essere rapporto; sarebbe una contraddizione: infatti molteplicità mutevolezza relatività e infine falsità e male, che sono i caratteri che contrassegnano il mondo empirico, dovrebbero avere la loro condizione d'esistenza nell'incondizionata causa prima; il che è impossibile. Sicché, sostiene Spir, il condizionato è incondizionato; ossia, è vero che ogni fatto singolo del mondo empirico ha luogo in virtú di una causa, ma il fatto che in generale il mondo empirico, per esistere, deve muoversi e trasformarsi, non ha alcuna ragione o causa. L'uomo è l'unico essere di questo mondo che può aspirare a far coincidere la sua esistenza mutevole con la sua essenza immutevole; e lo può con la vita morale; ma evidentemente deve isolare i suoi impulsi sensibili; cosí l'essenza si configura come un valore e come il fine etico per la volontà. Dio, l'incondizionato, è il principio del reale e di ogni valore; la filosofia della religione ne può dimostrare l'esistenza con la prova ontologica; ma altro è la filosofia della religione e altro è la fede; questa si fonda non sulla ragione ma sul sentimento interno, in cui soltanto si rivela la relazione tra il singolo e Dio, senza alcuna mediazione, né ontologica né logica.
Eduard von Hartmann
(1842-1906) fonda la sua tematica spiritualistica sull'armonizzazione delle filosofie di Schelling Hegel e Schopenhauer. Il principio del reale è l'"assoluto" di cui parla Schelling, un assoluto inconscio che in tutti gli esseri finiti si manifesta come la "volontà" di cui ha parlato Schopenhauer, e che, come lo "spirito universale" di Hegel, ordina secondo un piano razionale la vita dell'universo e dell'uomo, inteso sia come singolo che come storia. Sicché, l'ordinamento finalistico della natura, l'istinto dell'animale, i sentimenti e la volontà dell'uomo, sono tutte testimonianze da cui si può risalire induttivamente al principio assoluto che è Dio. L'uomo vive conformemente a questo principio, ma inconsciamente: tutta la sua vita, compresi i momenti estetici e quelli etici, è inconscia; la sua coscienza permette soltanto il riconoscimento di quell'azione che inconsciamente il principio assoluto esprime nella realtà e nel comportamento umano.Rudolph Eucken
(1846-1926) porta agli estremi limiti le tematiche dello spiritualismo tedesco; ma le sue opere hanno il tono piú di "letteratura religiosa" che non di saggi filosofici. Le conclusioni a cui arriva sono le seguenti: l'uomo, come "esistenza materiale", come ricerca di beni, valori e rapporti materiali ed esteriori, è insignificante; ha un significato solo come "esistenza spirituale", cioè quando instaura, col pensiero consapevole, i rapporti con lo Spirito universale; solo in questa seconda dimensione l'uomo ha la possibilità di "svilupparsi"; e solo nella vita religiosa porta a compimento tutte le possibilità inerenti alla sua vita spirituale.
Lo spiritualismo in Francia
Anche in Francia si sviluppa un forte movimento spiritualista Jules Lequier (1814-1862) sostiene che la tesi della necessità interna all'ordinamento della realtà naturale non debba essere estesa fuori del campo della scienza. Il che significa che i problemi che essa comporta sul piano dell'indagine filosofica sull'uomo - come quello della identità, ovvero della confusione, tra bene e male e tra verità ed errore - sono risolvibili solo facendo ricorso alla coscienza. La quale avverte, anzitutto, che se tutto è necessità, l'uomo non potrebbe neppure affermare che tutto è necessità. Infatti il riconoscimento della necessità può avvenire soltanto da un punto di vista di effettiva libertà, per contrapposizione a questa. Se non ci fosse nei fatti questa contrapposizione, l'affermazione "tutto è necessità" sarebbe priva di senso, impronunciabile. Certo, la "libertà", in tal senso, risulta solo un puro "postulato", basato sull'analisi delle conseguenze dell'ammissione del suo contrario; ma a ben vedere, anche la "necessità" non ha altro carattere che quello di postulato. Comunque, sulla base del postulato della libertà si fonda la possibilità di distinguere il bene dal male, la verità dall'errore, e, piú in generale, di affermare che l'uomo è spirito, ed è responsabile sia sul piano della conoscenza che su quello dell'azione. Sulla base di quel postulato inoltre ha un senso la ricerca del vero e l'attuazione del bene, oltre che il rapporto dell'uomo con Dio. A proposito di questo rapporto Lequier afferma che il fatto che io sia "responsabile" implica che lo sia verso qualcuno, verso una persona "irresponsabile" perché "assoluta", verso una persona in cui non c'è scissione tra ciò che è e ciò che dev'essere, che ha in sé la ragione di se stessa, e che possiede in modo infinito quelle perfezioni a cui io tendo e che per me sono - quando attuate - finite. D'altra parte, l'esistenza di Dio non entra in collisione con la libertà umana; Dio non "predetermina" il comportamento umano; non c'è predestinazione; infatti l'uomo è "padrone dei possibili"; scegliendone uno esclude gli altri, e in questa scelta non è né si sente obbligato da Dio. Dio è certo "presciente", ma nel senso che conosce tutte le possibilità che si aprono alla deliberazione dell'uomo, perché egli stesso le ha create; ma tale prescienza non è predeterminazione: in questo caso infatti l'unico possibile autentico sarebbe quello effettivamente scelto dall'uomo, il che significa che esso non sarebbe possibile ma necessario, e che l'uomo non sarebbe libero; ciò è, per Lequier, in palese contraddizione col postulato richiesto e posto dalla coscienza stessa.
Félix Ravaisson-Mollien
(1813-1900) fa risalire poi le radici dello spiritualismo allo stesso Aristotele, il quale, a suo giudizio, ha mostrato come l'intelligenza dell'uomo "per esperienza immediata colga in se stessa la realtà assoluta dalla quale ogni altra dipende". Dunque la percezione intima della coscienza è rivelativa del senso dell'essere dell'uomo, e dev'essere il fondamento della riflessione filosofica. In questa esperienza interiore l'uomo si scopre spirito, cioè libertà, o meglio libera attività creatrice sul piano del pensiero e su quello dell'azione. Ma si tratta di uno spirito non separato dalla materia, bensí in continuità con essa. Infatti è vero che la libertà caratterizza lo spirito e la necessità contrassegna la materia, ma c'è un'area della vita psichica umana - quella dell'"abitudine" che ci mostra quella continuità; nell'abitudine infatti la volontà cosciente diventa inconscia, la libertà diventa semplicemente spontaneità; in essa l'attività non si pone fuori del campo dello spirito, perché è pur sempre in funzione di un fine, e quindi implica l'esercizio dell'intelligenza; ma il fine è incorporato nell'attività stessa, reso inconsapevole, per cui l'azione sembra assumere caratteri "meccanici".Dunque non c'è opposizione tra spirito e materia; e pertanto va riveduto lo stesso concetto di "meccanicismo naturale". La vita della natura "appare" meccanica, ma una riflessione piú profonda rivela che tutta la realtà è in movimento verso l'intelligenza, e non solo nel senso che tende al suo compimento nella vita intellettiva dell'uomo, ma anche e soprattutto nel senso che essa tende all'Intelligenza divina. Ciò ha mostrato anche Aristotele quando ha indicato nel passaggio dalla potenza all'atto la legge che muove gli enti finiti verso il Pensiero puro. L'uomo è il punto di congiunzione tra la materia, cosiddetta meccanica, e Dio, spirito puro, perché nell'uomo lo spirito, imbrigliato nella natura, diventa consapevole e si apre alla perfezione divina in un rapporto di "amore scambievole" con Dio. Tale apertura ha luogo nello slancio della volontà verso la realizzazione del bene, e nell'amore per la bellezza della natura e dell'arte.
Anche Charles Renouvier (1815-1903) approda allo spiritualismo, ma sulla base di un "ritorno" a Kant e di una rivendicazione della "relatività" della conoscenza. Il suo è un personalismo che rivendica la libertà contro ogni forma di determinismo, sia materialistico che idealistico.
Jules Lachelier
(1834-1918), discepolo di Ravaisson, ne accoglie i temi fondamentali, cercando di armonizzarli coi presupposti del kantismo. Noi conosciamo le apparenze, i fenomeni connessi secondo un ordine meccanico; ma la realtà, in sé, è strutturata secondo un ordine finalistico; sicché la realtà non è dominata dalla legge della necessità, ma è caratterizzata dalla "contingenza"; in essa ogni ente, mirando al raggiungimento di un fine, ha un'essenza spirituale, ed è dotato di libertà. È lo Spirito, dunque, che si oggettiva nel reale e ritorna in se stesso come coscienza umana; ma questo Spirito è Dio stesso; Dio stesso perciò si fa mondo e ritrova se stesso nella coscienza umana. Il punto critico di questo discorso di Lachelier sta nella contrapposizione del mondo apparente a quello reale; il primo "necessario", il secondo "contingente", il primo "meccanico", il te secondo "finalisticamente organizzato". Ma Lachelier si sforza di mostrare che lo stesso mondo "fenomenico" rimanda ad un ordinamento reale finalistico. Il pensiero, egli dice, richiede che i fenomeni siano organizzati in unità, la quale è possibile solo se si ammette che ogni parte della realtà tende ad un fine comune; per cui bisogna ammettere che nella realtà il tutto precede e condiziona l'esistenza e il movimento delle parti; il che significa che le parti del reale esistono e si muovono in funzione del tutto, dell'armonia del tutto. L'uomo, la cui essenza è lo spirito libero, non gode, tuttavia, di libertà e spiritualità assolute nella sua condizione mondana; ma nulla esclude che possa goderne in un'altra condizione, cioè in un altro mondo, diverso. Questa, certo, non è verità filosofica, ma nondimeno è un'esigenza dello spirito; esigenza fondata sul fatto che l'uomo tende continuamente a "spingere sempre più lontano le vedute della mente" e ad "elevare sempre più i motivi della condotta". Tale esigenza perciò legittima il valore della fede.L'obiettivo di Octave Hamelin (1856-1907) fu invece quello di costruire una filosofia spiritualista basata sui presupposti dell'idealismo. Egli partí dalla affermazione di sapore kantiano che "la rappresentazione è l'essere e l'essere è la rappresentazione", per poi giungere alla tesi che la coscienza è l'apice della realtà, che ogni coscienza finita è radicata in una Coscienza universale, che questa Coscienza universale è Dio. Pertanto non c'è posto, a suo giudizio, né per le filosofie materialistiche né per il panteismo idealistico; il mondo non può identificarsi con Dio, né il suo "male" può essere stato prodotto dalla bontà divina; esso è il residuo di una "caduta" originaria; tuttavia può diventare il regno della giustizia. E non c'è posto perciò neppure per le concezioni deterministiche dell'esistenza umana: la persona umana, in quanto coscienza, è libera di perseguire i suoi fini; e proprio quando "agisce" liberamente si realizza sommamente come coscienza.
Boutroux: contingentismo e critica alla legge scientifica
Discorso a parte merita il pensiero di Émile Boutroux (18451921). Con i suoi saggi Della contingenza delle leggi della natura, L'idea di legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanea, e con l'opera Scienza e religione nella filosofia contemporanea, egli ha inteso vanificare la pretesa positivistica di mostrare che il reale è soggetto a leggi deterministiche; anzi ha voluto fare di piú: ha tentato di svuotare di ogni valore oggettivo le stesse leggi scientifiche. Insomma la polemica antipositivistica con lui si sposta dalla semplice rivendicazione della libertà e dell'ordinamento finalistico della natura, all'attacco al cuore stesso del "positivismo". Quali sono gli oggetti d'indagine della scienza? I corpi, l'organismo, e l'uomo. In verità, ognuno di questi "oggetti" non solo costituisce un campo delimitato di scienze specifiche, ma rappresenta un vero e proprio "ordine di realtà"; nel reale, infatti, è possibile distinguere un "ordine fisico", uno "biologico" e uno "psichico". Nella successione in cui sono stati enunciati, quello che segue è "superiore" a quello che precede. Ossia ognuno presenta, oltre che elementi in comune con gli altri, anche caratteri propri, specifici, originali, che non si ritrovano nell'ordine precedente, e che lo caratterizzano come piú ricco di varietà e di qualità rispetto ad esso. Orbene, il positivismo sostiene che l'ordine superiore deriva per evoluzione da quello inferiore. Ma nella realtà nulla mostra come la forma piú alta sia ricavabile da quella piú bassa, o, addirittura, sia riducibile, in ultimi termini, a questa. Anzi, tra le forme inferiori e quelle superiori c'è un vero e proprio salto. Il superiore non è costituito dalla semplice "combinazione" o "aggregazione" dei caratteri dell'ordine inferiore, ma è un fatto totalmente nuovo, in cui gli elementi che contraddistinguono le forme piú basse si ritrovano riplasmati in una nuova "creazione". Dunque ogni ordine è "contingente" rispetto agli altri che lo precedono. Si proceda, per esempio, alla comparazione tra l'ordine fisico e quello biologico:
Se si analizzano i princìpi della vita non sembra di trovarvi alcun elemento che già non esista nel mondo inorganico. Sembra dunque che non vi sia, tra il mondo vivente e il mondo fisico, altro che differenze di grado: una piú grande diversità tra gli elementi, una maggiore potenza di differenziazione, delle combinazioni piú complesse... Ma l'essere vivente si trasforma continuamente: si nutre, si sviluppa, genera altri esseri: è di una instabilità, di una flessibilità singolari ... E vi è nell'essere vivente una sproporzione impressionante tra la parte della funzione e quella della materia ...
Anche con un numero di elementi piú ristretto di quello impiegato dalla forza fisica, la vita produce opere ben piú possenti, poiché un filo d'erba può spezzare una roccia.
In che consiste l'atto vitale, l'organizzazione? È chiaro che non è definito in modo sufficiente col termine di "combinazione". Non consiste nella formazione di un aggregato analogo a un pezzo di zolfo o a una goccia di mercurio, ma nella creazione di un sistema in cui certe parti sono subordinate a certe altre. In un essere vivente vi sono un agente e degli organi, una gerarchia.
La funzione della vita sembra essere una creazione, senza principio ne fine, di sistemi le cui parti presentano non solamente dell'eterogeneità ma altresì un ordine gerarchico. L'essere vivente è un individuo, o piuttosto, con azione continua, si crea un'individualità e genera degli esseri capaci essi stessi di individualità. L'organizzazione è l'individualizzazione.
Ora questa funzione non sembra esistere nella materia inorganica. Cosí l'essere vivente racchiude un elemento nuovo, irriducibile alle proprietà fisiche: il progresso verso un ordine gerarchico, il farsi individuo.
(Della contingenza delle leggi della natura)
E si esamini pure il mondo umano rispetto a quello animale:
Senza dubbio il nostro primo sentimento è che esiste una differenza radicale tra l'uomo, dotato di ragione e di linguaggio, e il resto degli esseri viventi. Ma... non vediamo la natura umana presentare, nel passato e nel presente, una serie di degradazioni che la riavvicinano agli esseri inferiori? Non si può dire che nell'uomo più elevato le facoltà che noi ammiriamo derivano da facoltà più semplici, e finalmente si riducono a poteri elementari inerenti ad ogni essere vivente...?
Sembra dunque stabilito che ogni fenomeno psichico, nella vita presente, ha la sua condizione d'esistenza in fenomeni fisiologici determinati e cosí è legittimo cercare le condizioni fisiologiche della vita psichica. Ma questa ricerca, per quanto si supponga progredita, può arrivare ad assorbire la psicologia nella fisiologia?
In tutti i fenomeni psichici si ritrova la coscienza di sé, la riflessione sulle proprie maniere d'essere, la personalità. Ogni fenomeno psichico è, o può essere, uno stato di coscienza. Sicché da questa alternativa non si esce: o si introduce artificialmente le coscienza nel fatto organico da cui si tratta di dedurla, ovvero, prendendo sin da principio la coscienza quale è, ci si trova nell'impossibilità di ricondurla, con procedimento interamente analitico, a un fatto puramente organico.
La coscienza non è una specializzazione, uno sviluppo, un perfezionamento delle stesse funzioni fisiologiche: nemmeno ne è un aspetto o una risultante. È un elemento nuovo, una creazione. L'uomo, che è dotato di coscienza, è piú che un essere vivente. In quanto è una persona, in quanto almeno il suo sviluppo naturale si compie nella personalità, egli possiede una perfezione a cui non possono elevarsi gli esseri che sono soltanto organismi individuali. La forma in cui la coscienza si sovrappone alla vita è una sintesi assoluta, una somma di elementi radicalmente eterogenei: il rapporto ch'essa implica è dunque, almeno dal punto di vista logico, contingente.
(Della contingenza delle leggi della natura)
Se ogni forma superiore è una nuova creazione rispetto a quelle inferiori, non resta che ammettere che nell'universo agisce un principio di creatività spontanea, che sottrae l'essere ad ogni considerazione deterministica. Ma da che cosa è derivata la pretesa positivistica di considerare il mondo ordinato secondo leggi necessitanti? Anticamente, dice Boutroux, si distinguevano bene due piani dell'essere: quello della verità, "dominio dell'eterno e del necessario", e quello del "fenomeno", cioè della "materia instabile", incapace di fissarsi in una determinata forma; e si distinguevano, correlativamente, due scienze: "la scienza dell'essere, perfetta e immutevole come il suo oggetto" e "la scienza del divenire, imperfetta ed instabile come il divenire stesso". Con Cartesio e con la scienza moderna, la distinzione tra queste due scienze e tra i loro oggetti viene a cadere; scompare cosí la separazione tra le matematiche e l'esperienza. Ora la scienza moderna tende soprattutto ad abolire questa dualità. La sua idea fondamentale è stata espressa da Descartes: essa consiste nell'ammettere che esista un punto di coincidenza tra il mondo sensibile e il mondo matematico, tra il divenire e l'essere, e che le cose siano, non già copie piú o meno imperfette di paradigmi trascendenti, ma determinazioni particolari delle stesse essenze matematiche.Separate, com'erano presso gli antichi, le matematiche e l'esperienza restavano le une trascendenti, l'altra incerta. Intimamente congiunte, esse fondano una scienza perfetta della stessa realtà sensibile. Le matematiche comunicano alla scienza la necessità, l'esperienza, la concretezza. Ecco la radice del determinismo moderno. Crediamo che tutto sia necessariamente determinato, perché crediamo che tutto sia, in fondo, matematico. Questa opinione è il movente manifesto o segreto della ricerca scientifica". (Della contingenza delle leggi della natura)
Ma, osserva criticamente Boutroux,
la questione è di sapere se questo è un principio veramente costitutivo o soltanto un principio regolatore e un'idea direttrice. La scienza prova, o si limita soltanto a supporre che l'essenza delle cose sia esclusivamente matematica?
(Della contingenza delle leggi della natura)
Boutroux è convinto che l'ordinamento "matematico" dei fenomeni non sia "oggettivo"; esso è solo una "ipotesi" comoda per la conoscenza. Un'ipotesi, peraltro, che non poggia neppure su fondamenti abbastanza saldi e rigorosi. Infatti gli assiomi e le definizioni su cui si fonda la matematica sono "costruzioni" del pensiero umano funzionali alla correttezza dimostrativa; sono posti "per opportunità"; per cui già la matematica, in sé, "rivela un buon numero di determinazioni contingenti e di artifici ammessi soprattutto perché hanno successo"; quindi "la stessa necessità matematica non è piú per noi incondizionata". Ma c'è di piú: l'ipotesi di un ordinamento matematico dei fenomeni ha un campo molto limitato di validità e di efficacia. Infatti, non solo
è certo che gli oggetti delle diverse scienze non si lasciano interamente penetrare dalle matematiche, e le leggi fondamentali di ogni scienza ci appaiono come i compromessi meno imperfetti che lo spirito abbia potuto trovare per avvicinare le matematiche all'esperienza, ma bisogna fare una distinzione tra le scienze fisiche che si uniscono facilmente alle matematiche, e le scienze biologiche, per le quali questa unione è assai piú artificiosa. Nelle prime l'uomo limita da se stesso il campo delle proprie ricerche; si propone di considerare solo un certo ordine di manifestazioni naturali, cioè quello che comporta la misura e il numero, e di fare astrazione dagli altri. Grazie a questa delimitazione arbitraria, si ha a che fare con un oggetto che comporta notevolmente la determinazione matematica. Anche nelle scienze biologiche si può usare questo metodo; ma allora si trascura evidentemente la parte migliore e piú caratteristica dei fenomeni. Piú si vuol cogliere l'essere nella sua realtà concreta piú bisogna contentarsi di fare osservazioni ed induzioni, rinunciando all'uso dell'analisi matematica. Cosí la forma matematica imprime alle scienze un carattere di astrazione: l'essere concreto e vivente le sfugge.(Della contingenza delle leggi della natura)
Pertanto, il principio di causalità, su cui si fondano tutte le visioni meccanicistiche e deterministiche dell'universo, perde il suo valore. "Poste circostanze identiche, devono verificarsi identici effetti": ma quando, nella realtà, sussistono circostanze identiche? E poi, se mai fosse possibile avere identiche circostanze, perché si dovrebbero avere effetti identici? Ciò è insostenibile specie sui piani biologico e umano, dove l'inammissibilità del principio di causa risulta piú evidente: infatti gli effetti posseggono sempre qualcosa di nuovo, di diverso, di originale, sia rispetto alla causa sia rispetto ad altri effetti di cause analoghe. Gli effetti sono caratterizzati quindi dalla "contingenza"; il loro essere non è "determinato necessariamente" dalla causa. D'altronde, il principio di causa implica un principio - quello d'identità - che è a maggior ragione insostenibile. Ogni cosa è uguale a se stessa; ma ciò vale per gli enti ideali, astratti, non per le realtà concrete, sempre instabili e mutevoli; pertanto è pura ipotesi astratta ammettere che nel reale si possano dare circostanze "identiche" che generino improbabili effetti identici.
E poiché i due principi, quello d'identità e quello di causa, sono i presupposti delle leggi logiche della dimostrazione, ne deriva che anche il ragionamento dimostrativo non afferra la realtà e non esclude la contingenza oggettiva dei fenomeni. Sicché entra in crisi il concetto stesso di legge. Tutte le leggi, quelle logiche, quelle matematiche, meccaniche, fisiche, chimiche, biologiche, psicologiche, sociologiche, mostrano, nell'ordine in cui sono state indicate, un sempre minore potere necessitante rispetto alla realtà, per la loro sempre maggiore "astrazione" rispetto ad essa. Le leggi di natura devono essere solo considerate "l'insieme dei metodi che abbiamo trovato per assimilare le cose alla nostra intelligenza e piegarle al compimento delle nostre volontà"; nulla dicono sull'ordinamento oggettivo del reale. La realtà resta, cioè, non riducibile ai modelli scientifici che noi ne costruiamo. Pertanto la scienza deve riconoscere le sue effettive possibilità e i suoi reali confini, e non pretendere di estendere la sua validità in altri campi, quali quelli del senso della vita individuale e sociale, dell'arte, della morale e, infine, della religione. Qui si rivela allora lo scopo ultimo della polemica antipositivistica di Boutroux: sottrarre l'esistenza umana e i suoi valori etico-religiosi al dominio della scienza. L'uomo è libero; la sua libertà si manifesta, a livello piú alto, nei tentativi autonomi di adeguarsi ad un ideale di perfezione e di bellezza - cioè di accostarsi al suo "dover-essere" -, e di aprirsi al rapporto d'amore con Dio nella fede. Non ci soffermeremo su questo aspetto, perché le argomentazioni addotte da Boutroux sono analoghe sia a quelle dello spiritualismo tradizionale, sia a quelle degli spiritualisti francesi suoi contemporanei. Ciò ch'è importante notare è che Boutroux ha tentato di fondare la validità della filosofia spiritualistica su quella critica della scienza positivistica che, nei suoi intenti, doveva separare in modo definitivo l'ambito scientifico da quello etico e religioso; separazione che gli avrebbe consentito di affermare che la religione, "non piú spiegazione dei fenomeni", "non può sentirsi piú toccata dalle scoperte della scienza", e che i fenomeni, "agli occhi della religione, valgono per il loro significato morale, per i sentimenti che suggeriscono, per la vita interiore che esprimono e suscitano".
Bergson: vitalismo e filosofia della coscienza
Solitamente si colloca anche l'elaborazione di
Henri Bergson (1859-1941) nel filone spiritualista. E non senza ragione. Certe radici del suo pensiero affondano nelle tematiche di Maine de Biran. Ma definire Bergson con l'etichetta "spiritualista" appare un po' riduttivo, tanto è complessa la sua personalità filosofica, e tanto è "moderno" il suo discorso. Certo, il centro di ogni attività teoretica e pratica è per lui la coscienza, secondo l'insegnamento dello spiritualismo francese; ma egli non compie, come espressamente dice, l'errore, ormai consolidato nei pensatori spiritualisti, di "isolare" la vita della coscienza. Per cui il suo discorso prende le forme di un "vitalismo" che nelle sue intenzioni doveva comporre insieme istanze spirituali e condizione mondana dell'uomo; vitalismo maturato attraverso l'analisi attenta dei contributi offerti dallo sviluppo della scienza. Sicché, accanto alla filosofia della coscienza, e integrata con questa in rigorosa unità, egli sviluppa una filosofia del corpo e dell'universo fisico.Autore di Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Materia e memoria (1896), L'evoluzione creatrice (1907), L'energia spirituale (1919), Durata e simultaneità (1922, nata dalla riflessione sulla scoperta di Einstein), Il pensiero e il movente (1934), Le due sorgenti della morale e della religione (1932), Bergson pone, come punto d'avvio della sua elaborazione, la riflessione sul tempo. Qual è la realtà del tempo? In genere lo si rappresenta come una "serie" in cui sono collocati gli istanti che si succedono; ogni istante "è" in quanto quelli che lo hanno preceduto non ci sono piú, e in quanto quelli che lo seguiranno non ci sono ancora. Questa rappresentazione è erronea; anzitutto perché il presente viene cosí arbitrariamente separato dal passato e dal futuro, e pertanto viene svuotato, vanificato; si riduce ad un'astrazione, ad una finzione; e poi perché, senza che ce ne si accorga, si concepisce il tempo "spazializzato". E infatti, come concepiamo lo spazio? Come uno sfondo omogeneo in cui sono situate le cose; cose caratterizzate da una "grandezza" (la parte di spazio che esse occupano), una "posizione", e una "distanza reciproca"; cioè caratterizzate dalla "misurabilità" e dalla "numerabilità"; e per di piú, nel loro esser "situate" in tal modo, le cose perdono le loro specifiche qualità (infatti, in quanto oggetti spaziali, esse sono considerate omogenee tra loro). Allo stesso modo dunque siamo portati a considerare il tempo: una "linea" costituita di punti (gli istanti) distinti e separati l'uno dall'altro, tutti uguali tra loro e caratterizzati dalla numerabilità e dalla misurabilità (cinque minuti, tre ore, due giorni ecc.). È, questo, il tempo dell'orologio; esso è la traduzione in termini di misura "temporale" dello "spazio" percorso dalle lancette dell'orologio. È quindi tempo "misurato". Certo, nota Bergson, i punti "coesistono" nello spazio, mentre gli "istanti" "si succedono" nel tempo. Ma noi consideriamo di fatto gli istanti come coesistenti, e trascuriamo il loro succedersi; non ci chiediamo in virtù di che cosa essi, per noi, si succedono. Come noi consideriamo le lancette dell'orologio sempre in una posizione determinata e statica, non nel loro spostarsi da un punto all'altro, cosí consideriamo gli istanti puntualmente, e da sommare, non nel loro susseguirsi. In virtù di che cosa allora gli istanti si succedono? In virtù della coscienza; è per la coscienza che l'istante passato è legato e "trascorre" in quello presente, e questo in quello futuro. Ha ragione dunque Sant'Agostino: il tempo è "distensione dell'anima". È la coscienza che coordina insieme passato presente e futuro; la realtà del tempo non è oggettiva, altrimenti non potrebbe avere se non i caratteri dello spazio, ma soggettiva; è il soggetto che con la memoria da una parte e con la fantasia dall'altra lega il presente, rispettivamente, al passato e al futuro. Il tempo dunque non è un "fatto" ma un "atto" della vita spirituale del soggetto; la successione è frutto dell'"unificazione" degli eventi operata dal soggetto pensante; unificazione per la quale ogni evento ha un senso in relazione (ma la relazione, appunto, è posta dalla coscienza) a quelli precedenti e a quelli susseguenti; e quindi ogni evento conserva una sua propria specificità qualitativa che lo distingue dagli altri. Allora, detto in una parola, il tempo è "durata".
La durata assolutamente pura è la forma che prende la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, si astiene da stabilire una separazione tra lo stato presente e quelli anteriori. Non vi è bisogno, per far ciò, di assorbirsi interamente nella sensazione o nell'idea che passa! ché allora, al contrario, si cesserebbe di durare. Non occorre nemmeno obliare gli stati anteriori, basta che, ricordandosi di essi, non li si giustapponga allo stato attuale, come un punto ad un altro punto, ma li si organizzi con quest'ultimo; come succede quando ci ricordiamo, fuse, per cosí dire, insieme, le note di una melodia. Non si potrebbe dire che, se tali note si succedono, noi le avvertiamo, non di meno, le une nelle altre, e che il loro assieme è paragonabile ad un essere vivente, le cui parti anche se distinte, si compenetrano per effetto stesso della loro solidarietà? La prova è che, se rompiamo la misura insistendo piú di quanto è necessario su una nota della melodia, non è la sua lunghezza esagerata, in quanto lunghezza, che a avvertirà del nostro errore, ma il cangiamento qualitativo, apportato da ciò all'insieme della frase musicale. Si può dunque concepire la successione senza la distinzione, e come una compenetrazione mutua, una solidarietà, una organizzazione intima di elementi, di cui ciascuno, rappresentativo del tutto, non se ne distingue, e non se ne isola, che per un pensiero capace di astrarre. Tale è senza alcun dubbio la rappresentazione che si farebbe della durata un essere, che, allo stesso tempo identico e cangiante non avesse alcuna idea dello spazio. Ma familiarizzati con quest'ultima idea, ossessionati addirittura da essa, la introduciamo a nostra insaputa nella nostra rappresentazione della successione pura; e giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da avvertirli simultaneamente, non piú l'uno nell'altro, ma l'uno a fianco all'altro. In breve: noi proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata in estensione, e la successione prende per noi la forma di una linea continua, di una catena, le cui parti si toccano senza compenetrarsi.
(Saggio sui dati immediati della coscienza)
Ma perché siamo portati a concepire il tempo in termini spaziali? Perché, dice Bergson, tale operazione risulta comoda nella vita pratica. Le esigenze pratiche ci spingono al frazionamento, alla "parcellizzazione" della nostra vita spirituale. La nostra coscienza solidifica l'esperienza, che è un flusso continuo, in una molteplicità di "cose" spaziali e di "istanti" spazializzati; solidifica "gruppi di immagini" e "gruppi di istanti", ponendoli come esistenti in modo "separato". E non potrebbe non farlo, perché l'anima non vive separata dal corpo, indifferente alle esigenze della condizione corporea, e in generale mondana, di tutta la persona. Anzi c'è un'unità reale tra corpo e spirito; unità provata non foss'altro che dal fatto che la vita dello spirito non avrebbe luogo, ad esempio, senza il sistema nervoso.
Perciò sono erronee tutte le forme di dualismo filosofico tra anima e corpo.
È ingenua la pretesa che la vita della coscienza si attui a prescindere dalla sua incarnazione nel corpo fisico. È infondata l'affermazione, tratta da una acritica assunzione dei "fatti", che il corpo non svolge alcun ruolo in ordine all'attività dello spirito.
I fatti ci hanno fornito l'idea, confermata dal ragionamento, che il nostro corpo sia uno strumento d'azione, e d'azione soltanto. In nessun grado, in nessun senso, sotto nessun aspetto esso serve a preparare ed ancor meno a spiegare una rappresentazione, né vi contribuisce direttamente nella percezione o nella memoria, né a maggior ragione nelle operazioni superiori della mente. Sviluppando questa ipotesi sotto i suoi molteplici aspetti e spingendo cosí il dualismo all'estremo, si direbbe che noi scaviamo un abisso invalicabile fra corpo e mente.
(Materia e memoria)
I fatti d'ordine fisico non sono certo uguali a quelli d'ordine spirituale; ma basterebbe considerare l'esperienza del dolore fisico, in cui "la superficie del nostro corpo ci è data sotto forma di sensazione e, al tempo stesso, sotto forma di immagine", per ricavare la reciproca dipendenza e interazione.
Dunque non è giusto separare lo spirito dal corpo, e, in generale, da tutta la realtà dell'universo. Ché, anzi, uno stesso carattere fondamentale contrassegna tutto ciò che è reale: il permanente fluire.
La realtà è mobilità. Non esistono cose fatte ma soltanto cose che si fanno, non stati che si mantengono ma stati che cambiano. Il riposo è sempre apparente, o piuttosto relativo. La coscienza che abbiamo della nostra propria persona, nel suo continuo fluire, c'introduce nell'interno di una realtà sul cui modello dobbiamo rappresentarci le altre. Ogni realtà, dunque, è tendenza, se conveniamo di chiamar tendenza un cambiamento di direzione allo stato nascente.
(L'evoluzione creatrice)
Ciò che produce la parcellizzazione, il consolidamento e l'immobilizzazione della nostra vita spirituale e, insieme, dell'immagine della realtà naturale, è l'intelletto, che segue e asseconda i bisogni del corso ordinario della nostra vita quotidiana.
Il nostro spirito, che cerca dei punti d'appoggio solidi, ha per ufficio principale, nel corso ordinario della vita, di rappresentarsi degli stati e delle cose. Egli prende di tanto in tanto delle vedute quasi istantanee sulla mobilità indivisa del reale, e ottiene cosí delle sensazioni e delle idee. Con ciò egli sostituisce al continuo il discontinuo, alla mobilità la stabilità, alla tendenza in via di cambiamento i punti fissi che segnano una direzione del cambiamento e della tendenza. La nostra intelligenza, quando segue la sua china naturale, procede da una parte per percezioni solide e dall'altra per concezioni stabili. Essa parte dall'immobile e non concepisce e non esprime il movimento che in funzione dell'immobilità.
(L'evoluzione creatrice)
Ma una volta prodotta l'immobilizzazione del reale, l'intelletto ] non può "ricostruire" la mobilità. Per cogliere tale mobilità bisogna che il nostro spirito abbandoni la sua capacità "astrattiva" e s'impegni in quella "intuitiva".
Noi ci installiamo nell'immobile per spiare il mobile al passaggio, invece di rimetterci nel mobile per traversare con lui le posizioni immobili; noi pretendiamo ricostruire la realtà, ch'è mobilità, colle percezioni e i concetti che hanno la funzione di renderla immobile. Con delle fermate, per quanto numerose siano, non si farà mai della mobilità; mentre che, data la mobilità, si può, per via di diminuzione, trarne col pensiero quante fermate si vuole. In altre parole si comprende che dei concetti fissi possano essere estratti per opera del nostro pensiero dalla realtà mobile: ma non c'è modo di ricostruire, colla fissità dei concetti, la mobilità del reale.
Ma la verità è che la nostra intelligenza può seguire il cammino inverso. Essa può installarsi nella realtà mobile, adottarne la direzione mutevole senza posa, e finalmente afferrarla per mezzo di quella simpatia intellettuale che si chiama intuizione. Ciò è d'un'estrema difficoltà. Bisogna che lo spirito si faccia violenza, che rovesci il senso dell'operazione colla quale pensa abitualmente, che rivolti o piuttosto rifondi senza posa tutte le sue categorie. Ma egli otterrà cosí dei concetti fluidi, capaci di seguire la realtà in tutte le sue sinuosità e di adottare il movimento stesso della vita interiore delle cose.
(L'evoluzione creatrice)
Con l'intuizione si può cogliere, dunque, al di là della "fissità" delle forme fisiche, lo slancio vitale. Uno slancio che crea continuamente, anzi che muove la materia con una legge di evoluzione creatrice.
Lo slancio vitale, inteso in tal modo, è spirito; pertanto l'essenza di tutte le cose è lo spirito. E la materia è da intendersi come ciò che opera, nell'unità di questa essenza, la divisione, la particolarizzazione, e la relativa e temporanea immobilizzazione della vita dello spirito nelle forme e negli stati contingenti del reale.
È necessario comparare la vita a uno slancio, perché nessun'altra immagine, tratta dal mondo fisico, vale a esprimerne con altrettanta approssimazione l'essenza. Ma è solo un'immagine: di fatto, la vita è una realtà di ordine psicologico, ed è proprio della psichicità il comprendere una pluralità confusa di termini insieme compenetrantisi.
La materia non è concepita dunque dualisticamente contrapposta allo spirito; essa è il "distendersi" dello "slancio vitale", di questa tensione interna alla realtà, per poter nuovamente "estendersi". Nel temporaneo "riposo" si genera l'universo delle forme finite; forme che si dispongono secondo un ordine matematico che rende possibile ed efficace il lavoro dell'intelletto nell'organizzazione scientifica della sua conoscenza. L'uomo, che è momento di questo universo, ha per essenza la forza vitale che lo rende attivo sia sul piano conoscitivo che su quello pratico. Per la sua natura spirituale egli ricrea continuamente se stesso, spinto da due forze, l'istinto e l'intelligenza, che agiscono in concorso al fine di soddisfare i bisogni, d'ogni genere, del suo vivere quotidiano. Queste due forze sono comuni anche agli animali; ma mentre nell'animale l'istinto prevale sull'intelligenza, nell'uomo è questa che lo caratterizza specificamente, e si esprime con la capacità di fabbricare strumenti.
Se potessimo spogliarci da ogni orgoglio e se, nel definire la nostra specie, ci attenessimo rigorosamente a ciò che la storia e la preistoria ci presentano come caratteristica costante dell'uomo e dell'intelligenza, noi forse non diremmo Homo sapiens, bensí Homo faber. In breve, l'intelligenza, considerata nelle sua funzione peculiare, è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, e propriamente strumenti atti a foggiare strumenti, e di variarne in modo indefinito la fabbricazione.Ora, un animale intelligente possiede anch'esso strumenti o macchine? Sí, certamente, ma in esso lo strumento fa parte del corpo che lo utilizza: e, correlativo a tale strumento, c'è un istinto che se ne sa servire. La forza immanente alla vita può optare tra due maniere diverse di agire sulla materia bruta; può esercitare tale azione immediatamente, foggiandosi uno strumento organico da utilizzare, o fornirla mediatamente in un organismo che, invece di possedere per natura lo strumento richiesto, se lo fabbrichi da sé, plasmando la materia inorganica. Di qui l'istinto e l'intelligenza, che, sviluppandosi, divergono sempre piú, ma non si separano mai completamente. Da un lato, infatti, l'istinto piú perfetto dell'insetto è accompagnato da un certo barlume d'intelligenza, se non altro nella scelta del luogo, del momento e dei materiali di costruzione: quando, per un caso straordinario, delle Api nidificano all'aria libera, esse inventano mezzi nuovi e veramente intelligenti per adattarsi a tale condizione nuova. Ma, d'altro lato, l'intelligenza ha ancora piú bisogno dell'istinto che non l'istinto dell'intelligenza, perché la capacità di foggiare la materia bruta presuppone nell'animale un grado superiore di organizzazione, a cui esso si e potuto elevare solo sulle ali dell'istinto. Cosí, mentre negli Artropodi la natura, nel suo processo evolutivo, si è orientata risolutamente verso l'istinto, in quasi tutti i Vertebrati assistiamo alla ricerca piú che alla affermazione piena dell'intelligenza.
(L'evoluzione creatrice)
L'istinto dunque segue il flusso della vita, e ne è espressione immediata; l'intelligenza pone l'uomo come all'esterno di quel flusso, e, con la costruzione di concetti, schemi astratti delle cose, considera le cose stesse come indipendenti dal movimento vitale. È con l'istinto, perciò, che l'uomo coglie la vita, non con l'intelligenza. Tuttavia l'intelligenza è superiore all'istinto. Questo, che è comune anche all'animale, è "legato" al suo oggetto, e solo a quell'oggetto che è il suo corrispondente naturale, e per il conseguimento del quale esso si esercita in un'azione immediata, cieca e inconsapevole. L'intelligenza invece è capace di "distaccarsi" da tutti gli oggetti, di non considerarli nella loro immediata utilità, di vedere oltre ciò che appare della realtà; e nei confronti degli oggetti esercita azioni elastiche e variate. Certo, l'oggetto colto nel rapporto istintivo, è percepito, conosciuto in tutta la sua ricchezza, mentre colto dall'intelligenza, è conosciuto in termini generali, e quindi imperfetti, inadeguati. Ma mentre l'istinto non coglie i "rapporti" tra le cose, l'intelligenza lo può fare; anzi lo fa per sua natura; i "rapporti" colti, dunque, rivelano altre possibilità di uso degli oggetti, o, comunque, permettono all'uomo di usarli meglio. È evidente che l'ideale sarebbe l'armonizzazione, nell'uomo, di istinto e intelligenza. È possibile tale armonizzazione? Si dà nell'esperienza umana? Sí, risponde Bergson: proprio con l'intuizione. L'"intuizione", che è lo strumento autentico e proprio della filosofia, consiste nel cogliere, istintivamente, il flusso del reale, e di calarvi dentro i concetti e le articolazioni dell'intelligenza; permette all'uomo di cogliere il reale nel suo crearsi e, insieme, il rapporto logico per il quale tutte le cose sono relazionate; consente all'uomo di armonizzare, nella sua esistenza quotidiana, l'esigenza "vitale" di rinnovamento di sé, di continua autocreazione, col bisogno conoscitivo di avere un mondo ordinato in cui - questa è l'aspirazione un evento sia prevedibile in virtù di leggi stabili. Sulla base di questi principi fondamentali Bergson poi delinea anche un discorso sulla morale e sulla religione. Il vivere in società non è una scelta dell'intelligenza, ma un'esigenza naturale. Infatti l'intelligenza, tendenzialmente, porterebbe l'individuo a centrare l'attenzione su di sé, a privilegiare la propria libertà, e a sottrarsi ai legami sociali; mentre ciò che vi è di naturale nell'uomo lo induce ad unirsi agli altri per garantire la conservazione della sua esistenza. Sicché gli uomini, come gli animali, tendono ad organizzarsi in una "società chiusa", in cui l'individuo si considera ed agisce come parte del tutto, e in cui, quindi, non c'è spazio per la sua libera iniziativa, dettata dall'intelligenza, che minaccerebbe l'unità e l'ordine del corpo sociale, e con ciò lo stesso perseguimento del bene comune. Di contro alla perdita della sua libertà, la società chiusa offre all'individuo, in compenso, di non restar paralizzato dalla consapevolezza dell'inevitabilità della morte, di fronteggiare con maggiore serenità l'imprevisto, il rischio, la minaccia alla propria esistenza messa in opera da tutte le forze avverse.
A garanzia della vita di una tale società svolgono un ruolo determinante la "morale dell'obbligazione" e la "religione statica". Gli obblighi morali hanno radici sociali; essi non sono che norme, consolidate dalla pratica e stabilizzatesi per abitudine, con cui la società organizza la sua esistenza e tutela la sua permanenza, e che quindi sono state, appunto per abitudine, interiorizzate dai membri del corpo sociale. E contro le "tentazioni" dell'intelligenza, quei membri, esercitando naturalmente la "funzione fabulatrice", creano una religione in cui sono rappresentati fantasticamente poteri extranaturali, i quali impongono all'individuo comandi e proibizioni (evidentemente funzionali alla vita sociale) e promettono, oltre che il loro favore alle umane imprese, anche la sopravvivenza dopo la morte.
Questo tipo di "società chiusa", con le sue correlative forme di morale e di religione, caratterizza le società primitive. Esso tende alla "conservazione" non al "progresso"; esso porta a compimento l'istinto, ma mortifica l'intelligenza. Il suo ideale morale è limitato al singolo gruppo sociale; impone la conformità dell'azione individuale alle abitudini acquisite nel tempo dall'organismo societario. La sua religione ha solo funzione difensiva contro le aspirazioni dell'intelligenza, propone un modello di vita limitato al contenimento dell'egoismo, e genera un'immotivata fiducia che il potere operativo dell'uomo sia garantito ed amplificabile con le pratiche rituali e magiche. Solo le "società aperte", invece, sono, insieme, rispettose dell'istinto e delle esigenze dell'intelligenza, lasciando spazio al potere innovativo dell'iniziativa umana e mirando al progresso. In tali società vige una "morale assoluta", che propone l'imitazione di un "modello", che guarda a tutta l'umanità mirando alla fratellanza universale, e che è in movimento in relazione allo stato di evoluzione degli uomini; ed una "religione dinamica", che si modella sull'originario "slancio vitale", che rompe ogni formalismo, che si sostanzia di "amore" per gli uomini e per Dio, che per questo amore propone anche il "sacrificio", e che, nella sua forma piú alta ma anche piú rara, è "misticismo". In tale forma l'uomo vive cosí uno "slancio" che esprime lo slancio vitale e, in sostanza, coincide con esso; vive il suo potere creativo nella consapevolezza che esso è lo stesso potere creativo di Dio; attua in sé l'amore di Dio per tutti gli uomini; vede nell'universo l'aspetto percepibile dell'amore divino, e l'oggetto dell'amore umano.
Il primato della volontà come atto di coscienza
Con Bergson lo spiritualismo acquista già i caratteri di una filosofia novecentesca. Ma nel primo quarto del Novecento la riflessione spiritualista si presenta anche con un altro carattere piú vicino alle istanze dell'uomo contemporaneo; essa infatti si propone pure come "filosofia dell'azione".
Nello spiritualismo ottocentesco la coscienza era considerata soprattutto come capacità di contemplazione, conoscitiva e di fede; alla volontà non restava che adeguarsi, con l'azione, alle verità acquisite con l'intelligenza. Ora, invece, si pone in rilievo la spiritualità umana come capacità di produrre azioni "creative" anche dell'universo morale, sociale, religioso. L'uomo è fondamentalmente "attività"; è in questa che "s'inverano" le verità già acquisite teoreticamente, ed è da questa che scaturiscono nuove verità per l'intelligenza.
Questo "primato dell'azione", già indicato da Kant e da Fichte, assume qui, però, un significato specifico in relazione quasi esclusivamente alla vita religiosa; e inoltre, l'azione è vista piú nella sua dimensione "interiore", cioè come atto della coscienza, che non in quella esteriore, come comportamento. Sta di fatto comunque che i "filosofi dell'azione" sottolineano nell'attività l'aspetto caratteristico e specifico della natura umana, senza il quale la stessa conoscenza perde in gran parte il suo valore, e soprattutto perde il suo scopo.
Generalmente si considera John Henry Newman (1801-1890) l'ispiratore di questo filone di pensiero. Egli infatti, originariamente anglicano, divenuto poi cardinale della chiesa cattolica, nel Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana (1845) sostenne che una dottrina, una teoria, un enunciato, sia di natura etica o politica o religiosa, mostra la sua effettiva vitalità quando penetra nella moltitudine degli uomini, e non solo viene accettato o anche tradotto in termini concettuali chiari e distinti, ma diviene un "principio attivo"; attivo non solo nel senso che genera nell'uomo una nuova contemplazione o una rimeditazione, ma soprattutto nel senso che si traduce in azioni, in iniziative di applicazione. In tal senso, egli dice, si può affermare senza incertezze che il cristianesimo è stato sempre vitale.
Ma quali sono le ragioni per cui alcune, e solo alcune, teorie vengono attuate "in pratica", acquistano "vitalità"? Nel Saggio di una grammatica dell'assenso (1870) Newman nota che le proposizioni possono avere la forma della domanda, che esprime un dubbio, o della conclusione, che esprime un processo di inferenza, o della asserzione, che esprime un atto di assenso. Rispetto all'inferenza (cioè al ragionamento), in cui la conclusione è "condizionata" dalle premesse da cui si parte, l'assenso è sempre "incondizionato"; e rispetto al dubbio, l'assenso esprime "certezza"; certezza, invero, che, nota Newman, non significa infallibilità, perché essa sussiste anche quando ci s'inganna; certezza, dunque, che è un atto di fede consapevole e deliberato. L'assenso poi può essere nozionale (professione, opinione, presunzione, ecc) se è dato alle nozioni; o reale, se è attribuito a cose. L'assenso nozionale è piú debole di quello reale, perché solo questo ha la capacità di sollecitare affetti, sentimenti, passioni, può coinvolgere la volontà, può generare azioni. In campo religioso - che è quello che piú direttamente interessa a Newman - non è l'assenso nozionale, ma quello reale, che dà vitalità ad una dottrina, anche se questo secondo non sussiste senza il primo (mentre invece è possibile il contrario, che il primo sussista senza il secondo). Tuttavia vale in generale, per Newman, che solo quando una dottrina muove l'aspetto affettivo, pratico, dell'uomo, essa si sviluppa nel corso del tempo e diventa forza storica.
La distinzione tra assenso nozionale e assenso reale fu ripresa poi da Léon Ollé-Laprune (1830-1899), autore di molte opere, di cui ricordiamo La certezza morale (1880), La filosofia e il tempo presente (1890), Il valore della vita (1894). Egli, interpretandola come distinzione tra "certezza astratta" (nozionale) e "certezza concreta" (in relazione a cose), trae inedite conseguenze, dando un deciso contributo alla formulazione di una vera e propria "filosofia dell'azione". L'area della certezza astratta, egli dice, è ben piú ristretta di quella supposta da Newman; tale certezza può sussistere solo nel campo delle matematiche. In tutti gli altri casi si ha sempre una certezza reale e pratica; fatta eccezione, appunto, per le matematiche, anche in campo puramente conoscitivo la volontà viene sempre coinvolta, almeno con un atto di "preferenza" e di "scelta". È la volontà che determina l'oggetto di conoscenza e l'attenzione per esso; è la volontà che stimola l'intelligenza e la tiene applicata al suo contenuto. Insomma, "la volontà ha dappertutto, anche nel puro ordine scientifico, un'influenza che niente può sostituire". Persino l'espressione di un giudizio scientifico - dice il filosofo riprendendo un tema cartesiano - è un atto di volontà, è un atto di "consenso", consapevole e libero, ad una verità. Anzi Ollé-Laprune introduce la distinzione, anch'essa di origine cartesiana, tra "assenso" e "consenso"; il primo, a differenza del secondo, è involontario, perché è la risposta immediata all'evidenza di una verità, indipendentemente dal suo grado di evidenza. Di qui egli procede alla distinzione tra "sapere" e "credere"; si "sa" ciò che appare evidente, ma si "crede" a ciò che sempre, in qualche misura, ci resta nascosto. Quando poi l'oggetto della "credenza" è percepito dall'uomo come importante per la sua esistenza, la "credenza" assume i caratteri della "fede"; anzi la fede è quella fiducia e quella speranza che sostengono e muovono a "credere" in quella verità percepita come coinvolgente la propria vita. Ora, nota il filosofo, poiché una sola è la "ragione", sia quando si "crede" che quando si "conosce", allora non c'è opposizione o incompatibilità tra scienza e fede. Non solo: "conoscenza" e "credenza" trovano la loro piena armonizzazione su quel piano di verità superiori che riguardano la legge morale, la libertà, l'esistenza di Dio e la vita futura. Sono, queste, verità sempre dimostrabili, ma non, per loro essenza, esclusivamente razionali; esse richiedono alla ragione la credenza e richiedono un vero atto di fede, per la loro natura profondamente misteriosa; e, in piú, mostrano la loro piena verità solo a livello di vita pratica. E poiché esse sono gli oggetti privilegiati della filosofia, questa deve uscire dall'orizzonte della pura teoria e deve farsi "pratica"; e, inoltre, non può pretendere di separarsi dalla "fede", di avere un'autentica validità a prescindere da un atto personale di fede compiuto dalla persona concreta del filosofo.
Blondel: la filosofia dell'azione
Ma colui che delineò una vera e propria "filosofia dell'azione" fu Maurice Blondel (1861-1949), autore di L'azione, saggio di una critica della vita e d'una scienza della pratica (1893), di Il pensiero (1934) e di La filosofia e lo spirito cristiano (1944-1946), e simpatizzante del movimento modernista (vedi più oltre) finché esso non fu condannato dalla chiesa cattolica.
L'azione, egli dice, è ciò che caratterizza l'esistenza umana; anzi essa appare come una legge generale a cui l'uomo, nella sua individualità, è costretto ad adeguarsi per poter esistere.
Se si consulta l'evidenza immediata, l'azione, nella mia vita, è un fatto, il piú generale e il piú costante di tutti, l'espressione in me del determinismo universale: essa si produce anche senza di me. Piú che un fatto, è una necessita. Piú che una necessità, l'azione mi appare spesso come un obbligo; bisogna che si produca per opera mia, anche quando esige da me una scelta dolorosa, un sacrificio, una morte: non soltanto vi consumo la mia vita corporea, ma vi mortifico sempre affetti e desideri che pretenderebbero tutto, ognuno per sé. Non si va avanti, non si apprende, non ci s'arricchisce se non chiudendoci tutte le vie, tranne una, e impoverendoci di tutto ciò che avremmo potuto sapere e guadagnare altrimenti: vi è forse un rammarico piú sottile di quello dell'adolescente costretto, per entrare nella vita, a limitare la sua curiosità come con dei paraocchi? Ogni determinazione tronca un'infinità di atti possibili. A questa mortificazione naturale nessuno sfugge.
(L'azione)
E non ci si può sottrarre alla necessità di agire, né è possibile semplicemente sospendere l'azione, magari per "decidere".
Avrò almeno la risorsa di fermarmi? No, bisogna andare avanti; di sospendere la mia decisione per non rinunziare a niente? No, bisogna impegnarsi sotto pena di perdere tutto, bisogna compromettersi. Non ho il diritto di aspettare o non ho piú il potere di scegliere. Se non agisco di mia propria iniziativa, c'è qualcosa in me o fuori di me che agisce senza di me; e ciò che agisce senza di me agisce ordinariamente contro di me. La pace è una sconfitta; l'azione non tollera maggior indugio che la morte. Testa cuore e braccia, bisogna dunque che io li dia di buon animo, o me li prendono.
(L'azione)
Né l'azione incarna ed attua un'idea chiara, una scelta consapevole, un obiettivo autonomamente predeterminato dal soggetto agente.
Mi rimarrà la speranza di condurmi, se lo voglio, in piena luce e di governarmi con le mie idee soltanto? No. La pratica, che non tollera alcun ritardo, non comporta mai un'intera chiarezza; l'analisi completa non è possibile ad un pensiero finito.
Potrò almeno compiere ciò che ho risoluto, sia che si sia, come l'ho risoluto? No. C'è sempre fra ciò che so, ciò che voglio e ciò che faccio una sproporzione inesplicabile e sconcertante. Le mie decisioni vanno spesso al di là dei miei pensieri, e i miei atti al di là delle mie intenzioni. Ora non faccio tutto ciò che voglio, ora faccio, quasi a mia insaputa, ciò che non voglio.
(L'azione)
Nell'esistenza umana, allora, c'è un contrasto, ineliminabile, tra la volontà di dominare cose ed eventi e le condizioni oggettive della realtà che limitano e talvolta opprimono tale volontà; contrasto che si manifesta in quello, permanente, tra l'atto del volere e il risultato effettivamente conseguito, tra la "volontà volente" e la "volontà voluta". Tale contrasto tiene l'uomo in condizione di perenne insoddisfazione e lo risospinge senza posa all'azione. L'uomo è necessitato ad agire, per esistere, senza possibilità di "astenersi" e di "riserbarsi", ma agendo non riesce a "soddisfarsi", a "bastarsi", a "liberarsi", perché la sua volontà è "costretta". Una legge dialettica, dunque, governa la vita umana; ma non si tratta di una dialettica di tipo hegeliano; anzitutto perché non si tratta di una dialettica della ragione, e poi perché si alimenta solo di contrasti e non giunge mai a superamenti sintetici. Si consideri piú analiticamente l'azione: per il soggetto agente essa è "a priori", libera, autonoma; in realtà è essa che crea le condizioni per le quali appare determinata "a posteriori"; agendo, cioè, si provocano quelle "risposte" da parte della realtà che, raccolte come "insegnamenti", sono tenute in conto dalla volontà per l'azione ulteriore, sicché questa appare determinata da quelle condizioni. È ciò che accade, ad esempio, nel lavoro. Ma è anche ciò che accade nella vita sociale. Agendo l'uomo si apre agli altri uomini, e crea i rapporti sociali; questi rapporti poi limitano e condizionano l'ulteriore azione dell'individuo, che deve subordinarsi ad essi per mantenerli vigenti, o per svilupparli.
Detto in altri termini, l'uomo è insieme libero e necessitato, è libero nell'ambito della necessità, è necessitato ma non deterministicamente; il suo esser determinato gli rivela le sue effettive possibilità di essere libero, la sua libertà poi, quando diventa consapevole di sé, scopre l'ambito oggettivo del suo esercizio:
Si deve dire per questo che tale libertà necessaria s'assorbe nel determinismo? Niente affatto. Bisogna quindi mantenere ad un tempo queste due asserzioni: da una parte il determinismo ha messo capo alla coscienza della libertà; d'altra parte la libertà, prendendo coscienza di sé, ratifica tutto ciò che precede e vuole tutto ciò che le permette di volere.
(L'azione)
Se pertanto è nell'azione che l'uomo attua a pieno la sua umanità, la conoscenza allora è in funzione di essa.
La vera conoscenza è quella riflessione che spinge innanzi lo sguardo esteriore verso i fini che sollecitano la volontà, perché ivi soltanto è la ragione sufficiente delle determinazioni libere. Chiunque è nato per l'azione guarda davanti a sé; o se cerca donde viene, è soltanto per saper meglio dove va, senza mai chiudersi nella tomba d'un passato morto.
(L'azione)
Sia pure in condizioni limitate e limitanti, l'uomo agendo "crea", compie "una creazione nella creazione"; crea nei rapporti con la natura e in quelli con gli altri uomini; e sotto questo secondo aspetto egli crea, progressivamente, la famiglia, la patria, l'umanità; e poi, al di sopra dei rapporti sociali, pone i rapporti etici, in cui però sussiste pur sempre un contrasto tra la volizione e la realizzazione, come tra il dovere e il fatto. Anche a livello di vita etica l'uomo vive l'insoddisfazione, non bastandogli ciò che ha realizzato. È a questo punto che gli si apre, nel suo cammino progressivo, la porta del soprannaturale. È proprio nella sua consapevolezza d'esser sempre e comunque signore e schiavo, è proprio nel bisogno di trovare la sua ragion d'essere ed il fine del suo agire, che egli si apre al trascendente.
Senza dubbio, accanto alla potenza misteriosa che sperimenta in sé l'uomo si sente assalito e spesso vinto da oscure tirannie, ed il grande enimma della sua natura è appunto questa mescolanza estrema di forza e d'infermità. Ma se talvolta egli è come uno zimbello tra mani sconosciute nulla però dal lato delle scienze positive, nulla nel determinismo dei fenomeni minaccia la sua sovranità. E se è vero che il suo sforzo fallisce spesso contro miserabili scogli, non è mai per cause che la scienza possa definire né in nome delle leggi generali della natura o del pensiero. La libertà adotta tutte le sue condizioni antecedenti. Ma non vi trova la sua ragion d'essere. In un fine trascendente alla natura e alla scienza diviene necessario vedere la vera ragione dell'azione.
(L'azione)
Tale trascendente non può essere se non Dio.
Al termine, presto raggiunto, di ciò che è finito, fin dalla prima riflessione, eccoci dunque in presenza di ciò che il fenomeno e il nulla celano e manifestano ugualmente, di fronte a colui del quale non si può mai parlare di ricordo come d'uno straniero o d'un assente, davanti a colui per cui in tutte lelingue e in tutte le coscienze c'è una parola e un sentimento per riconoscerlo, Dio. L'idea di Dio in noi dipende in doppio modo dalla nostra azione. Da una parte, appunto perché agendo troviamo in noi stessi un'infinita sproporzione, siamo costretti a cercare nell'infinito l'equazione della nostra azione. Dall'altra, appunto perché affermando la perfezione assoluta non riusciamo mai ad adeguare la nostra affermazione, siamo costretti a cercarne il complemento e il commentario nell'azione. Il problema posto dall'azione, solo l'azione lo può risolvere.
Ma Dio si sottrae ad una conoscenza piena da parte dell'uomo. Bisogna sempre "inseguirlo", ed inseguirlo con l'azione.
Appena si crede di conoscere Dio abbastanza, non lo si conosce piú. Nel momento dunque in cui sembra si raggiunga Dio con uno strale di pensiero, egli sfugge, se non lo si conserva, se non lo si cerca con l'azione. Non si può mirare alla sua immobilità come una mèta fissa se non con un perpetuo movimento. Dovunque ci si ferma, egli non è, dovunque si va avanti, egli è. È una necessità passar sempre oltre, perché sempre egli è al di là. Appena non ce ne stupiamo piú come d'una inesprimibile novità, e lo consideriamo dal di fuori come una materia di conoscenza o una semplice occasione di studio speculativo senza giovinezza di cuore né inquietudine d'amore, è finita, non abbiamo piú fra le mani che fantasma e idolo. Tutto ciò che s'è visto o sentito di lui non è che un mezzo di andare piú innanzi; è una strada, non ci si fermi in essa dunque, altrimenti non è piú una strada.
La nostra azione, proprio in quanto si configura come "cooperazione", come "collaborazione" alla "teergia", all'azione divina, ci istalla nel cuore stesso di Dio; e l'azione umana acquista cosí anch'essa un carattere trascendente.
Pensare a Dio è un'azione; ma pure noi non agiamo senza cooperare con lui e senza farlo cooperare con noi, con una specie di teergia necessaria che reintegra nell'operazione umana la parte divina, allo scopo di mettere l'azione volontaria in equazione nella coscienza. Ed appunto perché l'azione è una sintesi dell'uomo con Dio, essa è in perpetuo divenire, come travagliata dall'aspirazione d'una crescita infinita. Assiso in sé e contento di sé, il pensiero è un mostro: la sua natura è d'introdurre, nello svolgimento della vita, un dinamismo progressivo. Non è frutto della vita se non per diventare un germe di vita nuova. Ecco perché il pensiero del trascendente impone inevitabilmente all'azione un carattere trascendente.
Nata, per l'impulso stesso del determinismo, da un conflitto in seno alla coscienza umana, l'idea necessaria di Dio, con un ultimo progresso del determinismo, risolve tale conflitto in un'alternativa inevitabile.
(L'azione)
Con l'azione l'uomo non solo attua di fatto la presenza di Dio nel mondo, ma compie, ne sia o no consapevole, uno sforzo per agguagliarsi a Dio, per diventare Dio. L'azione, insomma, ha un significato "religioso".
L'idea di Dio (si sappia o no nominarlo) è l'inevitabile complemento dell'azione umana, ma anche l'azione umana ha l'inevitabile ambizione di raggiungere e di adoperare, di definire e di realizzare in sé questa idea della perfezione. Ciò che noi conosciamo di Dio è questo sovrappiú di vita interiore che esige il suo impiego: non possiamo dunque conoscere Dio senza volerlo diventare in qualche modo. L'idea viva che abbiamo di lui non è e non resta viva se non si volge alla pratica, se non si vive di lei e non se ne nutre l'azione.
(L'azione)
Resta comunque all'uomo la libertà di "riconoscere" questo carattere religioso dell'azione. Pertanto gli si pone il dilemma: essere dio senza Dio e contro Dio, o essere dio per mezzo di Dio e con Dio.
Cosí, mediante il meccanismo della vita interiore, eccoci condotti di fronte ad un'alternativa che riassume tutti gl'insegnamenti della pratica. L'uomo, da solo, non può essere ciò che già è suo malgrado, ciò che pretende diventare volontariamente. vorrà vivere, sino a morirne, se si può parlare cosí, consentendo ad essere soppiantato da Dio? Oppure pretenderà bastarsi senza di lui, approfittare della sua presenza necessaria senza renderla volontaria, prendere in prestito da lui la forza per fare a meno di lui e volere infinitamente senza volere l'infinito? Volere e non potere, potere e non volere, questa è l'opzione che si presenta alla libertà: "amarsi sino al disprezzo di Dio, amar Dio sino al disprezzo di sé".
Senza dubbio, l'alternativa sorge necessariamente dinanzi alla coscienza, ed è ancora una necessità pronunziarsi: ma non si equivochi. L'opzione, è vero, ci è imposta; ma è per suo mezzo che diventiamo ciò che vogliamo: checché ne debba risultare, non potremo prendercela che con noi. Cosí, in ultima analisi, non è la libertà che si assorbe nel determinismo; è il determinismo totale della vita umana che è sospeso a questa suprema alternativa: o escludere da noi ogni volontà diversa dalla nostra, o abbandonarsi all'essere che non siamo come all'unico salvatore. L'uomo aspira a fare il dio: essere dio senza Dio e contro Dio, essere dio per mezzo di Dio e con Dio, questo è il dilemma.
(L'azione)
Quando si sceglie di essere dio con Dio, allora
all'iniziativa assoluta dell'uomo è necessario sostituire, liberamente come vi è necessariamente, l'iniziativa assoluta di Dio. Non spetta a noi darcelo, né darci a noi stessi; il nostro compito è di fare in modo che Dio sia tutto in noi come egli vi è da sé e di ritrovare nel principio stesso del nostro consenso alla sua azione sovrana la sua presenza efficace. La vera volontà dell'uomo, è il volere divino. Confessare la sua fondamentale passività, è, per l'uomo, la perfezione dell'attività. A chi riconosce che Dio fa tutto, Dio concede d'aver fatto tutto; ed è vero. Non appropriarsi nulla, è il solo metodo d'acquistar l'infinito. Egli è dovunque non ci si appartiene piú.
(L'azione)
Le filosofie del senso interiore e della coscienza
Anche in Inghilterra si vanno affermando quelle concezioni del mondo in cui sono recuperate la spiritualità dell'uomo, la libertà del comportamento individuale, e la trascendenza dei valori che l'uomo si propone come fini della propria azione. E anche qui queste concezioni nascono in opposizione al trionfante "positivismo".
Arthur James Balfour
(1848-1930), infatti, rivendicando i diritti della coscienza, afferma che l'uomo è "senso intimo"; bisogna quindi che conoscenza e azione siano conformi alle caratteristiche proprie della sua realtà spirituale. Se si parte da questo presupposto, egli dice, allora il naturalismo è inammissibile, perché riduce l'etica ad una serie di precetti utilitaristici, e l'amore del bello al piacere effimero: tutte cose che sono in contrasto col bisogno proprio della coscienza di aspirare a ciò che è piú alto e piú nobile delle pure soddisfazioni dei bisogni materiali. Né gode di maggiore legittimità l'idealismo che, identificando l'uomo con Dio, svuota l'uomo delle caratteristiche che la sua stessa coscienza riconosce ed ammette, come ad esempio la finitezza. Piena legittimità invece ha la fede religiosa, in quanto pone le sue salde basi proprio sulla coscienza, sul suo bisogno di riconoscere l'esistenza di un Dio che sia vicino all'uomo nelle sofferenze, che lo aiuti nelle difficoltà, e che gli proponga quei valori a cui tendere per realizzare a pieno la sua umanità.All'esperienza interiore si richiama pure Andrew Seth Pringle-Pattison (1856-1931). In polemica con l'idealismo egli sostiene che solo l'esperienza interiore permette all'uomo di conoscere la vera realtà di Dio: gli ideali morali e religiosi dell'uomo, infatti, rivelano non solo le esigenze piú autentiche che albergano nel suo cuore, ma soprattutto una "perfezione reale", quella di Dio stesso. Nell'ambito di quell'esperienza però l'uomo scopre pure la "trascendenza" di Dio, quale l'Altro con cui l'individuo è in rapporto e della cui vita la coscienza riconosce l'infinita ricchezza; ma tale trascendenza non è da intendersi in senso ontologico; Dio infatti non è fuori o prima del mondo, bensí vive in esso; il che - riconosce il filosofo - comporta il problema dei rapporti tra la realtà divina e la libertà morale dell'uomo; ma questo - egli aggiunge - è un mistero inaccessibile alla finitezza del pensiero umano.
Anche in Italia lo "spirito positivo" finisce col generare il suo contrario. Contro la vanificazione del ruolo della filosofia rispetto alla scienza, compiuta dai positivisti, Piero Martinetti (1871-1943) ribadisce non solo la specificità ma la priorità di valore della ricerca filosofica. Le scienze, egli dice, sono forme imperfette di conoscenza che trovano compimento solo nella filosofia. Sicché la filosofia è fondata sulle scienze, e queste hanno il loro scopo naturale nella filosofia. Per questa, l'essere è sempre "essere per la coscienza"; dunque la coscienza del soggetto umano è l'origine e l'oggetto dell'indagine filosofica. La coscienza è il centro unificatore della conoscenza e dell'azione. Esistono, è vero, molteplici coscienze, ma la stessa molteplicità dei soggetti coscienti si radica in un Soggetto assoluto che, a sua volta, le unifica. Uno solo dunque è il soggetto, anche se "riflesso in un infinito numero di esseri". Solo il Soggetto universale è nella condizione di conoscere tutto senza esser conosciuto da nessuno. Tale Soggetto però non si riflette solo nei soggetti, ma anche nelle cose, che da esso vengono unificate in un mondo. Dunque la natura di ogni reale - cosa o uomo - è spirituale. E tutti gli enti tendono al Soggetto assoluto, che, pur presente in ogni essere, lo trascende, in quanto, in sé, è fuori del divenire, fuori del tempo.
Il modo precipuo con cui l'uomo tende al Soggetto assoluto sono le umane attività, gli sforzi della conoscenza, l'esperienza artistica, il comportamento etico e la vita religiosa. In ognuno di questi momenti della vita spirituale dell'uomo si realizza un'aspirazione all "unità" che nasce nel bisogno di attingere l'Unità trascendente. Cosí nella vita etica la comunione degli spiriti non è altro che il segno della loro comunione piena in Dio. In questa prospettiva le religioni giocano un ruolo importante: sono forme di conoscenza di Dio. Conoscenza sempre approssimata che abbisogna della critica filosofica per rinnovarsi e approfondirsi di continuo; anzi la dialettica tra filosofia e religione stimola un progresso permanente della vita spirituale dell'uomo. Uomo che è libero, ma la cui libertà coincide con la necessità della Ragione Infinita. Tale coincidenza però non è un fatto, bensí un ideale; deve essere conquistata; ma la conquista è possibile perché è lo stesso Soggetto assoluto che agisce nell'uomo che per tal fine spende le sue energie.
Bernardino Varisco
(1850-1933) approdò ad uno spiritualismo ad impronta leibniziana e, insieme, rosminiana, dopo una fase "positivistica" in cui però egli non si mostrò chiuso alle istanze religiose intese come "fatti" della realtà umana.I soggetti umani, egli sostiene, sono molteplici, ma ognuno costituisce un centro dell'universo, ed è dotato di autonoma spontaneità per la quale interferisce con gli altri; ma le reciproche interferenze dei soggetti hanno luogo in una "unità" che li vincola, e che costituisce il fondamento dell'ordine dell'universo stesso. Questa unità è quella di Dio. Dio è Essere unificante gli oggetti, perché costituisce il loro comune elemento ontologico, e unificante i soggetti, in quanto in tutti sta come "Idea di Essere" e come fine comune di ogni conoscenza. Nelle cose l'Essere si attua, e nei soggetti pensanti si pensa come pensiero e come realtà. In un'ulteriore fase della sua speculazione Varisco sostiene la personalità dell'Essere, di Dio che, egli dice, per assicurare la libertà all'uomo, si autolimita nella sua onniscienza. Egli sa lo sviluppo complessivo del mondo, ma convoca l'uomo a collaborare con la sua libera iniziativa al compimento della creazione; il che garantisce, a suo giudizio, I armonia tra l'azione provvidenziale di Dio e l'attività autonoma dell'uomo.
Pantaleo Carabellese
(1877-1948) afferma che solo la coscienza è realtà concreta; coscienza in quanto consapevolezza che il soggetto umano possiede dell'"essere"; l'essere quindi non è esterno ed estraneo alla coscienza, ma immanente in essa; fuori della coscienza ci sono solo le esistenze particolari degli oggetti sensibili; l'essere che è nella coscienza è invece "essere universale", la "cosa in sé" che è il fondamento della "cosa reale", empirica. Nella coscienza c'è l'assoluto essere; fuori di essa c'è solo l'esistente relativo e diveniente, la cui essenza e la cui ragione d'esistenza stanno dunque proprio nella coscienza. L'essere - aggiunge poi Carabellese -, quello che è oggetto puro di coscienza, è lo stesso Dio; l'essere infatti non può essere se non unico e assoluto, e questi sono i caratteri della realtà divina; pertanto di Dio si può dire che "è", non che "esiste", perché l'esistenza è caratteristica degli enti finiti; e non si può dire neppure che esiste come "soggetto", perché in senso proprio "soggetti" sono gli uomini, in cui I essere - cioè Dio - "si frange". Acquista cosí credito anche la fede; l'intuizione di fede, come il pensiero concettuale del filosofo, è pensiero dell'oggetto puro in sé, di Dio che sta a fondamento della coscienza credente o pensante. Fondamento della coscienza, non coscienza, perché Dio è l'idea pura della ragione e l'oggetto assoluto della fede.Dati questi presupposti Carabellese rivaluta, rivedendola, la prova ontologica. E d'altra parte ridimensiona il ruolo delle religioni positive, che sono fondate sulla coscienza approssimata e imperfetta della realtà divina. In ogni caso pone un fondamento al rapporto intersoggettivo: se l'oggetto della coscienza, Dio, è immanente ad essa, e se la realtà empirica è estranea ad essa, solo l'altra coscienza, l'altro soggetto, è veramente "altro da essa"; essa lo riconosce "altro", e ciò è possibile perché ne riconosce insieme l'omogeneità con sé; cosí nella coscienza stessa è fondata la molteplicità dei soggetti e la possibilità di autentiche relazioni intersoggettive. Ma soprattutto Carabellese esalta il ruolo della filosofia, anche a fronte della religione: la filosofia è sforzo di raggiungere l'essere in sé, anzi è il supremo sforzo dello spirito; il suo compito, però, è solo teoretico non pratico; per il suo statuto non deve "servire" alla vita; non offre norme e regole per la vita, perché in tal caso sarebbe subordinata alla vita e dipendente da essa, mentre, in realtà, la vita è subordinata ad essa, che sola può scoprirne il fondamento ontologico; la filosofia è dunque "inutile", ma la sua inutilità è "divina".
Marcel: la filosofia del mistero
In clima pienamente novecentesco si muovono quei pensatori che, pur prendendo alimento dallo spiritualismo di fine Ottocento, sentono il fascino delle tematiche dell'esistenzialismo, specialmente di quello kierkegaardiano. Essi cercano, in generale, di coniugare il discorso sulla "coscienza" con quello sulla "esistenza come possibilità", sulla sua "precarietà", e sull'angoscia che la contrassegna quotidianamente. Gabriel Marcel (1889-1973) fu addirittura un "anticipatore" della "rinascenza kierkegaardiana", per certe sue annotazioni che risalgono fin al 1914; certo è comunque che l'evoluzione del suo pensiero lo portò a posizioni molto affini a quelle jaspersiane (vedi cap. XI), per cui si è soliti considerarlo un "esistenzialista religioso"; tuttavia il quadro in cui si inscrive il suo itinerario speculativo è quello "spiritualistico"; il suo obiettivo fu quello di mostrare la necessità dell'apertura dell'esistenza a Dio, e, in modo piú specifico, dell'apertura alla rivelazione cristiana. Drammaturgo e critico letterario, Marcel fu anche autore di opere di notevole impegno filosofico: Giornale metafisico (1927), Essere e avere (1935), Dal rifiuto all'invocazione (1939), Homo viator (1944), Il mistero dell'essere (1952), L'uomo problematico (1955). Il punto di partenza del suo discorso sta nella considerazione che i cosiddetti "problemi" dell'io, del mondo, di Dio, non sono problemi. Ma non nel senso ch'è già tutto chiaro, bensí al contrario, che se fossero "problemi" dovrebbero pure, in linea di principio, essere risolubili per dimostrazioni razionali. Il che è impossibile; infatti il problema mi deve stare "davanti", egli dice, ben chiaro come problema; mentre l'io, il mondo, Dio - cioè, in una parola, l'essere - mi coinvolgono; io sono comunque coinvolto, non posso "distaccarmi" dall'essere, oggettivarlo. Il che significa che quello dell'essere è piuttosto un "mistero".
Fra problema e mistero c'è questa essenziale differenza: il problema è qualcosa che io incontro, che si trova nella sua interezza di fronte a me, e che posso pertanto delimitare e dedurre; mentre invece un mistero è qualcosa in cui io stesso sono impegnato e che non è perciò concepibile che come una sfera in cui la distinzione fra l'in-me e il davanti-a-me perde il suo significato... Mentre un problema autentico cade all'interno d'una certa tecnica in funzione della quale si definisce, un mistero trascende per definizione ogni possibile tecnica. È certamente possibile (logicamente e psicologicamente) degradare un mistero facendone un problema; ma si tratta di una procedura intrinsecamente viziosa e le cui origini risalgono forse ad una specie di corruzione dell'intelligenza.
(Essere e avere)
Il mistero dell'essere è, dunque, tale perché mi sovrasta e mi avvolge, e perché non ho strumenti tecnici per dissolverne l'oscurità.
E non si confonda, avverte Marcel, il mistero con l'"inconoscibile"; il riconoscimento dell'inconoscibile segna infatti l'arresto dell'intelligenza, e, in sostanza, una sua sconfitta; il riconoscimento del mistero, invece, è un'affermazione positiva dello spirito, che apre l'uomo ad una serie di scelte positive coerenti con esso.
Bisogna evitare con grande cura ogni confusione fra mistero e inconoscibile: l'inconoscibile, in realtà, non è che un limite del problematico e non può essere attualizzato senza contraddizione. Il riconoscimento del mistero, al contrario, è un atto dello spirito essenzialmente positivo, l'atto positivo per eccellenza ed in funzione del quale si rende rigorosamente definibile ogni positività.
(Essere e avere)
Ma perché mai io "avverto" il mistero dell'essere? Perché, dice Marcel, io avverto che il mio essere non coincide con la mia esistenza; perché colgo una distanza tra ciò che sono e il modo in cui vivo. Io sono infatti
un essere la cui caratteristica centrale consiste, forse, nel non coincidere puramente e semplicemente con la propria vita. La prova o la conferma di questa non coincidenza consiste nel fatto che io valuto la mia vita in modo piú o meno esplicito, che è in mio potere non soltanto condannarla... ma mettere un termine effettivo, se non alla mia vita considerata nelle sue piú profonde radici (che, forse, sfuggono al mio dominio) almeno all'espressione finita e materiale che sono libero di considerare come risolvente in sé l'intera vita. Il fatto che il suicidio sia possibile diviene, sotto questo profilo, una direttrice essenziale di ogni pensiero metafisico autentico.
Proprio perché quello dell'essere è un mistero io posso "scegliere" tra vita e morte, tra speranza e disperazione, amore e odio, fedeltà - in tutti i suoi aspetti - e tradimento, ecc Laddove i primi termini delle coppie manifestano la mia "apertura" al mistero, i secondi la mia "chiusura" ad esso. Apertura e chiusura liberamente scelte. Certo, il nostro vivere quotidiano ci induce a propendere per la chiusura. Si consideri, ad esempio, il tradimento, dice Marcel. Esso non solo "è possibile ad ogni istante, in ogni grado, sotto ogni forma" (tradimento di ciò che si è, di ciò in cui si crede, di ciò che si ama, ecc), ma "sembra che la struttura stessa del nostro mondo ce lo imponga"; tutto, in questo mondo, "ci appare come un'incitazione costante al rinnegamento e alla defezione totale". Tutto ci spinge a lasciarci guidare dal criterio dell'"avere", del "possedere e dominare la realtà esteriore", e a far coincidere forzosamente il nostro "essere" con il nostro "avere"; tutto ci sollecita a tradire, a rinnegare, pur di possedere. Ma non c'è dubbio che il possedere la realtà esteriore, al costo del tradimento, non sancisce la signoria dell'uomo sul reale, ma, magari inconsapevolmente, la sua dipendenza da esso, la sua schiavitú. Egli "ha", ma non "è". Essere significa allora non proiettarsi fuor di sé, ma vivere immersi nella consapevolezza del mistero dell'essere, e quindi anche del proprio essere; e scegliere l'"apertura" ad esso, con tutte le implicazioni, a livello di atteggiamenti e di comportamenti, che la cosa richiede. L'uomo "è", allora, quando ama, spera, è fedele. Ma soprattutto nell'amore e nella fedeltà gli "si presenta" il mistero. E si presenta - aggiunge Marcel, rivelando la finalità religiosa del suo discorso - nella forma del "Tu"; un "Tu" al quale, proprio nell'amore e nella fedeltà, l'uomo non può non riconoscere di "appartenere". Da ciò Marcel ricava che il "mistero ontologico" non si oppone alla "rivelazione cristiana"; anzi:
Una ontologia cosí intesa è evidentemente aperta ad una rivelazione, che essa tuttavia non potrebbe né esigere, né presupporre, né integrare, e neppure, in linea assoluta, comprendere, ma di cui non pertanto può, in certa misura, preparare l'accettazione.
(Essere e avere)
L'uomo che "è", dunque, è colui che è consapevole della ostilità che il mondo oppone all'attuazione del suo essere, e che quindi considera la sua esistenza come una "prova".
Non c'è salvezza né per l'intelligenza né per l'anima che a condizione di distinguere tra il mio essere e la mia vita... Dire che il mio essere non si confonde con la mia vita significa essenzialmente dire due cose. La prima è che, poiché non sono la mia vita, questa mi è stata data ed io sono quindi in un certo senso, forse umanamente impenetrabile, anteriore ad essa, cioè "io sono" prima di vivere. La seconda è che il mio essere è qualcosa di minacciato dal momento in cui vivo, ed è perciò qualcosa che io debbo salvare; che il mio essere è una posta, e che in ciò risiede forse il senso della vita. Da questo secondo punto di vista io non sono al di qua ma al di là della mia vita. Non c'è altro modo di interpretare la prova umana, ed io non vedo che mai possa essere la nostra esistenza se non una prova.
(Essere e avere)
L'uomo "aperto" al mistero ontologico non sarà allora sopraffatto dall'"angoscia", nel corso della prova. L'angoscia "paralizza", "sterilizza", mentre l'"apertura al Tu" porta con sé proprio il suo superamento. Certo, non scompare l'"inquietudine", ma questa, per chi è < istallato" nel mistero, è "feconda", "creatrice"; è insomma "positiva".
L'inquietudine positiva, quella che porta nel suo seno un valore, è la disposizione che ci permette di liberarci dalla morsa in cui ci rinserra la vita quotidiana con le sue mille preoccupazioni, che finiscono per nascondere le realtà autentiche. Siffatta inquietudine è un principio di oltrepassamento, è un sentiero che dobbiamo percorrere se vogliamo giungere alla pace vera... Ho parlato di inquietudine e non di angoscia, perché mi sembra che l'angoscia sia sempre un male, dato che essa è, dopo tutto, chiusa in se stessa, e corre il rischio di generare una specie di gioia sadica. A mio modo di vedere le filosofie dell'esistenza fondate sull'angoscia portano in un vicolo cieco. Sono convinto che se sono suscettibili di rinnovamento, sarà possibile solo attraverso una meditazione sulla speranza e sulla gioia; ho detto la gioia, non ho detto la soddisfazione, perché quest'ultima non fa leva che sull'avere, ed è certamente legata a ciò che in noi esiste di piú transeunte. Ma la gioia, comunque, non esclude l'inquietudine... perché essa è, in ultima analisi, l'aspirazione d'un meno d'essere a un piú d'essere ed è ben possibile che essa non possa trovare il suo termine che al di là dei ristretti confini entro cui scorre la nostra esistenza apparente, in una contemplazione piena d'amore che non può esser altro che una partecipazione. Se l'uomo è essenzialmente un viaggiatore, egli è in cammino verso un fine di cui si può dire, contemporaneamente e contraddittoriamente, che gli è visibile e invisibile.
(L'uomo problematico)
Le filosofie della "persona"
Come cogliere il senso dell'essere? Calandosi fino in fondo nella profondità della coscienza, immergendosi con occhio filosofico nell'intimità della propria esistenza, dice René Le Senne (1882-1954), autore di Introduzione alla filosofia (1925), Il dovere (1930), Ostacolo e valore (1934), Trattato di caratteriologia (1945), Il destino personale (1951), La scoperta di Dio (pubblicato postumo, nel 1955).
In tal modo l'uomo si scopre, nella sua dimensione mondana, "limitato"; egli si trova in un mondo di "oggetti" (ob-jecta) di fronte a cui si coglie come "soggetto", soggiacente (sub-jectum). E s'accorge che per lui si aprono due strade: o adeguarsi consapevolmente all'oggetto, all'"ostacolo" che si oppone alla realizzazione del suo autentico essere, e quindi subirlo; oppure affrontare l'ostacolo per superarlo, per conquistare se stesso attraverso il suo superamento. L'uomo insomma si scopre come "contraddizione" e come "libertà"; egli infatti si avverte "dilacerato" interiormente, e sa che tale dilacerazione comporta non solo la messa in questione della propria esistenza, ma una scelta, un atto di libertà di fronte all'alternativa, un'autonoma deliberazione, una propria iniziativa per la costruzione di sé, per l'acquisizione di una piena coscienza di sé. Bisogna dunque oltrepassare il limite, abbattere l'ostacolo; il che è possibile solo individuando un "valore" nella cui direzione camminare, e per raggiungere il quale conviene sostenere la lotta; un "valore" che sia il "termine" di un'attività creatrice. Sicché, allora, l'arte e la scienza, ad esempio, in quanto tensione verso il bello e il vero, sono attività che consentono la progressiva realizzazione dell'unità della "persona", il superamento dell'assoggettamento dell'individuo alla realtà, la sua liberazione dal limite. Il valore si configura, cosí, come l'oggetto dell'impegno autentico dell'uomo; il suo perseguimento come il "dovere". Nel perseguimento dei "valori" l'uomo entra in contatto col "Valore", cioè con Dio, origine d'ogni valore; con Dio-Persona che è la condizione della "personalizzazione" dell'uomo, quando questi si apre al rapporto, alla comunione con Lui. Nel mio intimo, dice Le Senne, Dio si rivela come fonte delle contraddizioni che spaccano il mio essere, ma anche come la realtà che rende possibile la ricomposizione, l'oltrepassamento delle situazioni empiriche che mi limitano; Dio infatti si nasconde nelle contraddizioni per permetterci di realizzare il nostro essere con le nostre scelte libere; cosí ci respinge e ci attrae contemporaneamente. L'esistenza dell'uomo è il suo stare nell'intervallo tra le determinatezze delle situazioni empiriche e l'assolutezza del Valore infinito; egli vive nel limite, ma aspira al valore; vale a dire, dunque, l'uomo è Dio incarnato, è il Valore che si trova nella condizione finita, e che aspira all'infinità. Dio pertanto non sta "per sé", "senza di noi". sarebbe una "finzione", anche se utile a rendere piú accettabile l'esistenza. "Dio, invece, è con noi".
Louis Lavelle
(1883-1951), autore di Dialettica del mondo sensibile (1921), La coscienza di sé (1933), La presenza totale (1934), L'io e il suo destino (1936), L'atto (1937), Il tempo e l'eternità (1945), oltre che di altre opere notevoli, sottolinea piuttosto la partecipazione dell'Essere assoluto all'uomo, o meglio il parteciparsi di Dio alla vita dell'uomo, la sua "presenza" in lui. E - annota - proprio il coglierlo nella propria intimità costituisce per l'uomo il culmine della sua spiritualità. Dio, egli dice, non è "fuori" delle determinazioni empiriche delle mie situazioni e della mia stessa esistenza; le "trascende", sí, perché per sua natura è infinito e assoluto, ma si partecipa ad esse, dando loro essere e significato. Non dobbiamo quindi "costruire" il nostro essere, ma esplicitare ciò che già siamo, perché non c'è scissione tra il nostro essere e il nostro esistere. Non dunque "Dio è con noi", ma Dio è in noi e noi siamo in Dio. Per questa "presenza totale" di Dio in noi, noi "siamo" e siamo quel che siamo; l'uomo è essenzialmente atto, è creatore, perché Dio è Atto, è attività creativa. L'unico scarto tra la nostra esistenza e il "nostro" Essere sta nel fatto che la nostra esistenza è finita e contingente, mentre il nostro Essere è infinito e assoluto. Ma, dice Lavelle, è questo "scarto" che dà significato al nostro esistere; nel senso che noi esistiamo come sforzo di adeguamento della nostra vita al nostro Essere. L'uomo perciò è una possibilità di adeguamento all'Essere; possibilità che si realizza nel "presente" per il "futuro". Futuro che genera in noi, insieme, timore e speranza, perché non sappiamo sino a qual punto arriveremo con la nostra "partecipazione" alla vita divina; ma che non deve generare angoscia, perché sempre e comunque già occupiamo un posto nell'Essere.Emmanuel Mounier
(1905-1950) fu fondatore di quel filone dello spiritualismo che sviluppatosi soprattutto intorno alla Seconda Guerra Mondiale, assunse la definizione di "personalismo". Egli espresse il suo pensiero nella rivista da lui creata, "Esprit", nel Manifesto al servizio del personalismo (1936), e nei saggi Rivoluzione personalista e comunitaria (1936), Che cos'è il personalismo (1946), Il personalismo (1949). L'uomo è spirito; ma non spirito in astratto, bensí spirito caratterizzato come "persona"; laddove il termine "persona" indica non solo le caratteristiche specifiche che distinguono un uomo dall'altro, ma anche e soprattutto l'apertura della sua coscienza agli altri. Sbagliano dunque i filosofi che riducono l'uomo a "cogito", a percezione isolata, autosufficiente di sé; perché tale percezione di sé non può aver luogo se non nella comunicazione con gli altri; e sbagliano pure quelli che riducono l'esistenza umana a "cura di sé", perché è impossibile esistere senza esistere con gli altri. La persona dunque è "comunicazione" e "comunione" con un mondo di persone, e in questo rapportarsi esplicita la sua libertà. Libertà che però, sottraendola ad ogni previsione rigorosa, ne rivela il carattere misterioso. Della realtà dell'altra persona, ad esempio, posso raccogliere e ordinare dei segni, che tuttavia non si traducono in "conoscenza oggettiva", perché possono imprevedibilmente essere smentiti dalla sua spontaneità creativa. Sicché il rapporto tra persone è un "incontro", anzi un "incontrarsi" avventuroso sul cammino, anch'esso avventuroso, verso una meta comune. La pienezza della libertà della persona si attua poi nel suo "trascendere" consapevole e deliberato; trascendimento da intendersi nel duplice significato di superamento di sé verso forme d'esistenza piú personali, e come oltrepassamento di se stessi verso "l'Esistenza suprema modello delle esistenze". Tale trascendimento, tuttavia, non può aver luogo e non avrebbe senso senza l'"impegno" nel mondo; impegno teso a realizzare quella forma di vita comunitaria che potrebbe essere definita "persona collettiva"; impegno dunque mirante ad attuare quei valori umani che non sono fini ma mezzi per garantire la vita personale dell individuo; impegno che, infine, realizza nel mondo quello che i cristiani chiamano la "comunità dei santi", in cui gl'individui partecipano della vita divina. La finalità religiosa dell'esistenza non è in contrasto col carattere essenzialmente "mondano" dell'uomo; Dio, incarnandosi nel Cristo, ha riscattato l'uomo e il mondo; perciò l'uomo non solo deve realizzare le autentiche finalità umane connesse alla sua condizione mondana, ma deve vivere la sua tensione verso Dio non contro il mondo, bensí in e attraverso esso. Sul finire dell'Ottocento si sviluppò un movimento di critica religiosa all'interno della chiesa cattolica, il "modernismo", che si ancorava a certe tematiche sviluppatesi nel "protestantesimo liberale" tedesco, ai principi fondamentali della "filosofia dell'azione", e all'idea, sostenuta dal teologo protestante francese Louis-Auguste SABATIER (1839-1901), che i dogmi sono solo "simboli provvisori" delle verità di fede ed hanno valore solo nella misura in cui il credente li "ricrea" internamente. I capisaldi del movimento, che si riproponeva di adeguare il cattolicesimo ai nuovi tempi, erano i seguenti: la rivelazione di Dio all'uomo avviene anzitutto nell'ambito della coscienza del singolo, pertanto i dogmi non sono che forma inadeguata di questa rivelazione; l'esperienza religiosa deve tradursi in esperienza pratica, in comportamento etico; la Bibbia è documento storico, e va quindi studiata, come tutti i documenti storici, scientificamente, cioè con i mezzi dell'indagine filologica, senza limitazione alcuna da parte dell'autorità ecclesiastica; il Cristianesimo deve promuovere il progresso dei popoli e non difendere i privilegi del clero e dei gruppi socialmente dominanti.Queste tesi trovarono sistemazione nei Saggi di filosofia religiosa di
Lucien Laberthonnière (1860-1932), e nelle opere di Alfred Loisy (1857-1940), e trovarono accoglimento non solo in Francia, dove praticamente nacque il movimento, ma anche in Inghilterra, presso il teologo George Tyrrel (1861-1909), e in Italia, presso lo studioso di storia delle religioni Ernesto Buonaiuti (1881-1946). Il movimento però fu presto condannato dalla Chiesa con l'Enciclica Pascendi, emessa da papa Pio X nel 1907. E tale condanna rimise in corso la filosofia tomistica, che in verità non era mai stata abbandonata nella Chiesa e che già papa Leone XIII aveva dichiarato, con l'Enciclica Aeterni Patris, come la filosofia ufficiale della Chiesa. Sicché si verificò dappertutto un incremento di studi filosofico-teologici sulle linee teoretiche offerte dal pensiero di S. Tommaso d'Aquino. Nacque e rapidamente si consolidò, cosí, il "neotomismo", che ancora oggi ha nell'Università belga di Lovanio e nell'Università Cattolica di Milano notevoli centri di elaborazione e di diffusione.Gli esponenti principali della rinascita tomista furono
Désiré Mercier (1851-1925) e Jacques Maritain (1882-1973); questo secondo, riecheggiando un argomento giobertiano, individuò in Lutero e Cartesio i punti di divaricazione dell'elaborazione speculativa dalla tradizione tomista; anzi a questi egli aggiunse anche Rousseau; inoltre teorizzò un "realismo critico", sostenendo che l'essere è immediatamente evidente alla coscienza, e dall'identità dell'essere con se stesso l'intelligenza umana trae il principio logico d'identità grazie al quale può teorizzare l'identità e la sostanzialità dell'anima; inoltre, contro le forme religiose dell'esistenzialismo, sostenne la priorità dell'essenza sull'esistenza: proprio perché l'uomo "è" può "esistere".