L'origine dello Stato
Un percorso da Platone a Marx
A cura di Carla
Maria Fabiani
1. Platone
Il maestro di
Platone, Socrate, rappresentò per lui non solo un esempio di sapienza e di
ricerca teorica della verità, attraverso il continuo dialogare, ma anche un
esempio morale e politico di comportamento nei confronti della comunità, della polis
e del potere.
Fin dall’inizio
della sua ricerca teorica, Platone si avvicina alla filosofia intesa
socraticamente come scienza non solo teoretica - ricerca della verità - ma
anche pratica e morale - come scienza del bene e del male - ; il piano
puramente teorico del pensiero, del ragionamento, della discussione intorno
alla verità delle cose viene tenuto insieme a quello del comportamento morale,
del rapporto politico fra il cittadino e la polis, fra l’individuo e la
comunità. La ricerca della verità è, per Socrate, consapevolezza di ciò che è
bene e di ciò che è male; ricerca che avviene in un contesto di rapporti umani,
politici e sociali, quale era quello della polis (Atene) nel corso del V
secolo a. C.
La vicenda umana e
filosofica di Socrate si conclude tragicamente, come si sa, nel
L’esempio socratico
costituisce per Platone un punto di partenza per il suo successivo percorso
filosofico che si distaccherà, a un certo punto, dalla concezione della dialettica
che aveva Socrate approdando a quella "dottrina delle idee" che,
invece di eliminare l’esigenza filosofica di interrogarsi sulla verità,
accentuerà la necessità, da parte di chi ricerca il vero, di percorrere un
cammino di conoscenza verso quelle forme o idee delle cose (éidos o idéa
in greco) che, non sconosciute all’animo umano, debbono però essere
faticosamente riportate alla memoria.
Socrate costituisce
un fondamentale punto di partenza anche per la riflessione e l’attività
politica di Platone, il quale, dopo la morte del maestro, si recherà in Sicilia
a Siracusa, presso la corte del tiranno Dionigi il Vecchio, con il fine di
realizzare, fuori d’Atene (la città che aveva condannato il più sapiente fra
gli uomini), uno stato in cui potere politico e filosofia fossero organicamente
uniti.
La forte delusione,
per altro ripetuta in altri due successivi viaggi, che seguì all’incontro e al
tentativo di collaborazione col tiranno, spinse Platone, tornato ad Atene, da
una parte a fondare nel
Nei primi dialoghi (Gorgia,
Menone) del secondo periodo platonico (periodo della maturità che segna
il distacco da Socrate), vengono fatti accenni per lo più negativi alla
politica, considerata in modo assai pessimistico, data la vicenda socratica
alle spalle. La politica però viene definita eticamente, e cioè proprio come la
pratica consapevole del bene da parte di chi vuole estendere la virtù a tutta
quanta la città, a tutti i cittadini e al loro comportamento complessivo; cosa
a cui finora si sono sottratti tutti i (falsi) politici, e della quale solo
Socrate si è seriamente occupato.
La teoria politica
di Platone si fa più complessa e articolata nella Repubblica dove il
filosofo viene descritto come il perfetto politico, e cioè come colui che sa
cos’è la giustizia e la applica consapevolmente. Il dialogo comincia con la
domanda che cosa sia veramente giustizia, approdando a una feconda analogia fra
la giustizia nell’uomo e la giustizia nello Stato. Da questo punto in poi viene
ricercata la genesi dello Stato, la sua origine di carattere economico, fondata
cioè sulla necessità di soddisfare i bisogni naturali dell’uomo e della
comunità. D’altra parte lo Stato si fa "gonfio di lusso" e cioè
aumentando la popolazione, aumentano e si complicano quei bisogni che si
distaccano dalla iniziale naturalità e necessitano di un allargamento, che
provoca guerre, ma soprattutto disequilibri interni.
La giustizia viene
allora identificata proprio con l’equilibrio, con la capacità di ciascuno - e
di ciascuna classe presente nello Stato - di svolgere bene il proprio compito.
Ma per fare questo è necessaria la massima consapevolezza dell’identità fra
l’interesse proprio e l’interesse dello Stato. Gli unici a possederla, secondo
Platone, sono i filosofi, ai quali viene affidato il comando supremo. In questo
senso si può parlare in Platone di uno Stato e di rapporti politici fra le classi
(filosofi-governanti, guerrieri-soldati e artigiani-agricoltori) in cui viga la
noocrazia, e cioè l’egemonia e il potere di chi sa. Come si vede, qui
dove non ce lo aspettavamo, si impone il concetto e il termine nous,
mente, conoscenza e consapevolezza filosofica, la quale solamente può
identificarsi senz’altro con il potere politico. La perfezione politica dello
stato, in altri termini, presuppone la perfezione filosofico-etica di esso,
incarnata dalla classe dei filosofi al potere.
Si è a lungo parlato
e discusso del valore storico e filosofico dello Stato platonico; se esso sia
solo un’utopia (un’idea perfetta ma difficilmente realizzabile), oppure abbia
un carattere normativo nei confronti della realtà, e cioè sia un modello a cui
gli Stati reali devono, per quanto è possibile, rifarsi. Hegel ha sostenuto in
vario modo che lo Stato platonico fosse una ‘utopia reale’, e cioè certamente
un prodotto di pensiero, ma non un ideale vuoto, piuttosto quel concetto
di Stato che meglio di tutti coglieva la natura stessa dell’eticità greca.
D’altra parte
La riflessione
politica di Platone, dopo
Questo maggiore
senso del concreto che l’ultimo Platone sembra manifestare nella sua ricerca in
campo politico, individua nello Stato spartano la forma costituzionale
migliore, poiché essenzialmente mista: l’unità del principio monarchico è nella
figura del Re, di quello aristocratico nel Consiglio degli anziani e di quello
democratico nell’Eforato. La predilezione platonica per la politica spartana,
rispetto a quella ateniese, risale in realtà al tempo della giovinezza, ma qui
viene espressa con riferimenti precisi al campo del diritto che precedentemente
non erano mai stati presi in considerazione.
In conclusione si
può dire che l’ultimo Platone si sia evoluto in senso pessimistico per quanto
riguarda la politica, nella misura in cui prende atto della sempre maggiore
difficoltà di fondare uno stato veramente giusto ed equilibrato (si vedano
anche le negative esperienze politiche vissute in Sicilia); d’altra parte però
non abbandona la sua convinzione profonda della necessità di tenere
organicamente unite la vita politica con la vita filosofica, la conoscenza
dell’uomo con quella dello Stato, quella dello Stato con quella dell’universo.
In questo senso - e qui vi accenniamo soltanto - il Timeo risulta
paradigmatico, anche perché istituisce un nesso etico universale; si potrebbe
dire che l’etica stessa, in questo dialogo, riceva una fondazione cosmica. Come
il mitico Demiurgo è l’artefice del mondo e dell’uomo, così l’uomo deve dar
vita a uno stato basato su equilibri che ricordino quelli dell’armonia
universale.
1.1. L’origine dello
Stato platonico: il Libro II della Repubblica
Nel Libro I Socrate
e Glaucone avevano iniziato con Polemarco, Cefalo, Trasimaco, Adimanto e altri
concittadini a parlare di ‘giustizia’. Che cos’è giustizia? La restituzione del
debito, fare del bene agli amici e male ai nemici, la competenza nel gestire i
propri affari, e così via? Nel dialogo serrato fra Socrate e Polemarco
interviene violentemente Trasimaco (il sofista) proponendo una netta
definizione di giustizia: essa è l’utile del più forte. Ma il più forte, in una
comunità, nella polis, è certamente chi governa. Allora delle due l’una:
o chi governa persegue il proprio utile o l’utile dei suoi sudditi. Per
Trasimaco - Socrate è convinto del suo immoralismo di fondo - la giustizia è
certamente uno strumento; chi detiene il potere lo usa per i propri fini, per
rafforzarsi, non per favorire il bene della collettività. Dunque ciò che è
giusto per il più forte è ingiusto per il più debole e non coincide
necessariamente con l’interesse di tutti. La giustizia, così intesa, si
rovescia piuttosto nel suo contrario, nell’ingiustizia.
Ma l’ingiustizia
come tale - incalza Socrate - sebbene considerata superiore alla giustizia, può
essere il collante di un insieme sociale, di una comunità, di un’alleanza fra
uomini? La convinzione socratica è chiara al proposito: entro una comunità
(piccola o grande che sia) non può vigere l’ingiustizia e cioè il perseguimento
da parte dei suoi membri del proprio esclusivo interesse, pena la rottura
dell’unità stessa. L’ingiustizia, dice Socrate, è ciò che rompe e interrompe
quell’unità che si voleva realizzare (1).
La discussione
intorno a che cosa sia giustizia prosegue poi senza però arrivare ad una
definizione certa.
Nel Libro II i
dialoganti intendono ricercare che cosa sia la giustizia in se stessa e quali
effetti abbia, mettendola a confronto con l’ingiustizia. Ma Socrate allarga e
complica il piano della discussione, facendo diretto riferimento alla necessità
che gli uomini hanno di unirsi in comunità per realizzare il proprio bene e
soddisfare i propri bisogni. Il suo diretto interlocutore è al momento Adimanto.
"Ti dirò. Noi
chiamiamo giustizia sia quella di un singolo uomo che anche quella di un’intera
città? O forse no?"
"Sì, è così."
"E non è più grande una città di un singolo uomo?"
"Certo, è più grande."
"Forse dunque in ciò che è più grande potrebbe esserci una giustizia più
grande e più facile da esaminare. Se volete perciò cercheremo innanzitutto
nella città che cosa mai sia la giustizia; e poi in questo modo la osserveremo
anche in ciascuno preso singolarmente, considerando la somiglianza di ciò che è
più grande nell’idea di ciò che è più piccolo."
[Repubblica,
II, 368e-369a]. (2)
Socrate istituisce
qui un’analogia apparentemente di poca importanza, funzionale alla ricerca del
significato di giustizia, in realtà però, a ben vedere, di grande impatto etico.
La sua proposta è quella di spostare il punto di vista della ricerca
dall’individuo singolo (che cosa sia giustizia per ciascuno) alla polis
(che cosa sia giustizia per "una città intera"). Il piano individuale
della moralità, senza che gli interlocutori di Socrate possano immediatamente
accorgersene, viene adattato al piano etico-politico. La distinzione fra i due
è inizialmente presentata come una differenza quantitativa; quello che è giusto
per il singolo uomo, nella città si presenta ‘in grande’ (quindi in una
prospettiva più adatta all’osservazione), ma - aggiunge Socrate - la ricerca
deve stabilire una similitudine fra l’una e l’altra giustizia, deve trovare
"la somiglianza di ciò che è più grande, nell’idea di ciò che è più
piccolo". E cioè deve partire dalla giustizia nella polis per poi
adeguarvi quella dell’individuo: deve trasferire, per similitudine, ciò che è
giusto nella e per la città (ciò che è giusto ‘politicamente’) nella
considerazione della giustizia individuale.
Il metodo così esposto
e proposto da Socrate è giustificato teoreticamente. Il ‘vedere’ è il
discrimine della ricerca. Ciò che si vede meglio, perché è più grande, deve
avere la precedenza su ciò che si vede meno bene, perché è più piccolo (3).
Il dialogo poi
continua con la domanda che Socrate rivolge ad Adimanto sull’origine della polis.
"Io, dissi,
credo che la città nasca perché ciascuno di noi non può certo bastare a se
stesso, ma ha bisogno di molti altri. O credi che ci potrebbe essere qualche
altra causa originaria per la fondazione di una città?"
"Nessun’altra."
"Ebbene, allora l’uno ricorre all’altro per bisogno di una cosa e a un
altro ancora per un’altra; avendo bisogno di molte cose, molti compagni e
persone che si aiutano a vicenda si raccolgono in un solo luogo, e a questa
convivenza noi diamo il nome di città. Non è così ?"
"Certamente."
"E uno mettendo insieme le sue cose con un altro non lo fa perché ritiene
che ciò sia a sé stesso più vantaggioso?"
"E' così."
"Allora su, diss’io, facciamo come dal principio una città servendoci del
logos. La creerà, così sembra, il nostro bisogno"
"Come no?"
"Ma il primo e il più grande dei bisogni è quello di procurarsi del cibo
per esistere e vivere."
[Repubblica, II, 369b-d]
L’origine dello
Stato (cioè della polis) nel mondo greco viene fatta risalire da
Socrate-Platone al ‘bisogno’ e alla necessità imprescindibile per l’uomo di
soddisfare i propri bisogni. Non è pensabile il soddisfacimento anche dei
bisogni primari e più materiali (come il trovare e preparare il cibo) in una
condizione di asocialità e di isolamento. L’individuo singolo non basta a sé
stesso, non riesce a conservarsi, a riprodursi come tale. La riproduzione del
singolo uomo non può che avvenire in un contesto ‘comunitario’; la
compartecipazione dei singoli alla ‘cosa comune’ è dettata dalla consapevolezza
del vantaggio che ne deriva. Il vantaggio di "esistere e di vivere"
cioè di riprodursi.
Sebbene l’incipit
socratico sull’origine dello Stato appaia quasi scontato e di semplice
formulazione, in realtà nasconde una complessità data dall’intreccio che viene
da subito istituito fra la ‘materialità’ della riproduzione dell’uomo e la
politicità che immediatamente vi si accompagna. La conservazione del singolo (il
suo essere in vita) può realizzarsi solo in un contesto di rapporti con altri
uomini; una stabile relazione fra individualità che, a stretto rigore, non sono
più tali. L’individuo da solo non può né essere né vivere.
L’origine della polis
perciò, sebbene sia dettata da esigenze ‘materialistiche’, al contempo però è
essenzialmente caratterizzata da elementi che vanno già al di là della semplice
riproduzione materiale dell’uomo singolo. La relazione fra uomini e il modo in
cui questi si riproducono vicendevolmente, nella consapevolezza del loro
rapporto ‘politico’, è ciò che si impone fin da subito nel ragionamento
socratico di ricostruzione ab initio della forma statale.
D’altra parte
bisogna notare anche come Platone faccia nascere la polis certamente da
rapporti economico-materialistici che superano l’orizzonte limitato
dell’individuo e che fondano gli stessi rapporti politici fra gli uomini.
La naturale
moltiplicazione dei bisogni (il cibo, la casa, il vestito, etc.) determina la
necessità di dividere socialmente il lavoro. Si prospetta perciò una
città-stato composita e complessa nelle sue relazioni economiche e politiche. A
questo proposito, Socrate continua dicendo:
"Forza dunque,
dissi, in che modo la città riuscirà a procurarsi tutte queste cose? L’uno sarà
agricoltore, l’altro architetto, l’altro ancora tessitore? o nello stesso luogo
aggiungeremo anche un calzolaio e un medico del corpo?"
"Certamente."
"Sarebbe allora al massimo una città di quattro o cinque uomini."
"Così pare"
[Repubblica, II, 369d-e]
Il dialogo di
Socrate con Adimanto si concentra poi sulla specializzazione e differenziazione
del lavoro sociale diviso fra ciascun membro della polis. E’ più
conveniente per la comunità e per la disposizione naturale del singolo che
ciascuno si specializzi in un’arte particolare piuttosto che doverle
intraprendere tutte per soddisfare i propri svariati bisogni. Ma i bisogni di
ciascuno, a ben vedere, sono infiniti; dunque una città di quattro o cinque
persone è assolutamente limitata e insufficiente. I falegnami e i fabbri
costruiranno i mezzi di lavoro per l’agricoltore, i pastori accudiranno il
gregge, e così via. La città si farà perciò sempre più composita e articolata.
La sua grandezza aumenterà a vista d’occhio.
"Non sarebbe ,
dissi, una piccola città, avendo tutte queste cose."
"D’altronde, continuai, fondare una tale città in un qualche luogo in cui
non sia necessario importare merci, è cosa quasi impossibile."
"Impossibile, infatti."
[Repubblica, II, 369e]
Segue una carrellata
di nuove e particolari figure sociali che entrano in relazione politica fra
loro all’interno della città. I rapporti economici discendono direttamente dai
bisogni naturali espressi dagli uomini riuniti in comunità, ma fin da subito le
relazioni e distinzioni economiche che si vengono spontaneamente a creare ne
creano a loro volta delle altre
"E poi dunque?
nella stessa città in che modo reciprocamente si prenderà parte di quelle cose
che ciascuno produce? Quelle cose grazie alle quali, avendo formato una
comunità, abbiamo fondato una città."
"Chiaramente, disse quello, vendendo e comprando."
"Di conseguenza avremo quindi un mercato e una moneta come simbolo
convenzionale in ragione dello scambio."
"Certo."
[Repubblica,
II, 371b]
La riproduzione
strettamente economica della polis (lo scambio dei prodotti fra i
cittadini distinti ormai per competenze legate alla divisione del lavoro messo
in comune) si impone su quella immediatamente naturale e fondata sui bisogni
primari. Il cittadino così raffigurato riceve all’interno della comunità
politica una peculiare determinazione di carattere sociale ed economico: non è
solo un individuo, non si occupa solo della propria riproduzione e nemmeno
della riproduzione comune in modo aspecifico, viceversa riproduce se stesso
solo in quanto si dedica a un’arte lavorativa particolare inserita
organicamente dentro un’ampia articolazione sociale del lavoro, dalla quale
quella dipende necessariamente.
Lo scambio dei
prodotti nell’agorà fa sorgere nuove figure sociali, quali i rivenditori
al minuto, gli inservienti, e così via. Cosicché la città si popola
ulteriormente e aumenta la sua consistenza.
"Forse dunque,
Adimanto, è ormai cresciuta la nostra città, cosi da essere perfetta?"
"Forse"
"Ma allora dove sono in essa la giustizia e dove l’ingiustizia? E in quale
di quelle cose che abbiamo esaminato è nata?"
"Io, disse, non saprei, o Socrate, se non forse nell’uso reciproco di
quelle stesse cose."
"Ma forse, dissi io, parli bene; quindi bisogna esaminare e non ritrarsi
[…]."
[Repubblica,
II, 371e-372a]
La giustizia allora,
in una città del genere, consisterebbe nel modo in cui reciprocamente si
intrecciano e si soddisfano i bisogni di ciascuno. L’ingiustizia nella mancata
soddisfazione dell’uno o dell’altro bisogno, nell’interruzione dell’utile intreccio
delle attività lavorative, volte alla riproduzione dell’insieme sociale.
Ma una città del
genere - si fa avanti Glaucone - è pur sempre una piccola e semplice città.
Nella realtà invece la polis si presenta "opulenta", cioè
"gonfia di lusso" e molto più complessa di quella finora descritta.
La semplicità originaria e ‘spartana’ dei costumi viene sostituita da modi di
vita più esigenti e lontani dalla pura e semplice necessità di sopravvivere.
Le figure sociali
che mano a mano verranno create si moltiplicano a vista d’occhio (il
cacciatore, l’artista, il poeta, la balia, etc.), la popolazione aumenta e
aumenta con essa il bisogno di ulteriori risorse, non comprese e prodotte dalla
città stessa. La conquista di altre terre e di altre città, quindi la guerra,
sarà la diretta conseguenza dell’espansione oltre misura dei bisogni e del
lusso.
L’arte della guerra
non potrà essere esercitata dagli stessi cittadini intenti a svolgere altre
attività. Sarà necessario allora istituire una particolare classe di uomini, i
guardiani, i quali si occuperanno esclusivamente dell’arte guerriera.
La divisione in tre
differenti classi (guardiani-filosofi, guardiani-guerrieri,
artigiani-commercianti) strutturerà e organizzerà la vita stessa della polis,
la quale potrà dirsi perfettamente costituita (Politéia) quando regnerà
in essa il giusto equilibrio fra le competenze di ciascuna categoria.
La visione platonica
dello Stato, e più precisamente della sua origine, da dove e come nasce la polis,
ossia una comunità politica di uomini in cui vigano rapporti di reciproco
scambio e assistenza, nella massima consapevolezza del bene comune e
dell’interesse generale, potrebbe essere facilmente confusa con una spiegazione
contrattualistica, tale che l’accordo di ciascun individuo con tutti gli altri
permette la riproduzione della comunità nella sua interezza.
A ben vedere però,
il ruolo dell’individuo nella polis viene subordinato logicamente e
storicamente a quello della stessa città: prima viene la configurazione
politica in cui i cittadini vivono e si riproducono, poi viene la possibilità,
per l’individuo, di "esistere e vivere" come tale. Il singolo uomo,
isolato politicamente, non è nemmeno pensabile.
Solo dopo che il logos
(cioè il ragionamento) abbia fatto luce sulla struttura sociale ed economica
della città-stato, si può rivolgere il pensiero al ruolo politico e etico
dell’individuo, cioè al suo modo di vita nella città.
L’origine dello
Stato certamente affonda le sue radici nel bisogno materiale dell’uomo, ma,
così sembra intendere Platone per bocca di Socrate, non dell’uomo singolo,
piuttosto dell’uomo in senso lato e generico. La comunità (koinonìa)
è la forma più immediata di sussistenza reciproca messa in atto dagli
uomini, la polis è un passo più in avanti, poiché in essa si divide ciò
che si è messo in comune secondo criteri di giustizia e di equilibrio, ossia
criteri etici, che hanno in se stessi e non nella semplice riproduzione
materiale il loro fine e la loro ragion d’essere.
L’origine economica
della polis (la città che riproduce, attraverso la divisione del lavoro,
gli uomini uniti in comunità) non può che presentarsi anche come profondamente
etica, nella misura in cui, secondo Platone, ciò che va riprodotto è
innanzitutto il bene comune, ossia l’ethos reciproco a cui i singoli
devono riferirsi sia quando necessitano di qualcosa sia quando la producono
utilmente. Nell’utilità comune, nel bisogno reciproco, nell’equilibrio fra le
diverse competenze, dice a un certo punto Adimanto, potrebbe trovarsi la
giustizia, e, prosegue Socrate, forse la strada per capire che cosa essa sia è
proprio questa.
2. Aristotele
La vita etica
dell’uomo, secondo Aristotele, si realizza in quella politica, cioè nella polis,
innanzitutto come vita associata, come realizzazione della natura più profonda
dell’uomo, cioè quella di essere essenzialmente un politicón zóon, un
"animale politico" (o socievole), destinato cioè a vivere nella polis.
Dunque la politica, nel pensiero di Aristotele, va studiata nel suo legame con
l’etica.
Il problema socratico
del Bene, o meglio del "vero" Bene, che non è tale solo in
sé ma anche per noi, in quanto ci attrae fortemente, è impostato da
Aristotele in modo tale da criticare il dualismo platonico fra ragione e
volontà, fra ragione e passione, fra la parte razionale dell’anima e quella
morale. Aristotele non intende seguire l’intellettualismo socratico, ossia
l’immediata coincidenza fra scienza del bene e virtù, fra conoscenza di ciò che
è veramente bene e conseguente pratica di esso. Nell’Ethica Eudemea e in
quella Nicomachea viene distinta anzi la virtù come "saggezza
pratica" dalla "sapienza contemplativa"; il piano pratico della
vita dell’uomo, il suo agire sensato e consapevole è distinto dal piano
puramente teoretico (In questo senso, il filosofo è altra cosa dall’uomo
politico del quale può fare solo il consigliere, ma non può sostituirlo nelle
sue specifiche funzioni di governo e comando). La conoscenza del bene non
assicura la sua realizzazione, poiché il livello dell’intelletto non è
immediatamente unito a quello della volontà. Aristotele cerca perciò di
individuare un termine medio che unisca l’elemento razionale della
"deliberazione" (la consapevolezza di perseguire ciò che è bene) a
quello irrazionale dell’"appetizione" (la spinta a farlo). Il
"proponimento" è ciò che unisce i due piani apparentemente separati.
La virtù, la realizzazione compiuta del Bene, dunque l’essenza etica dell’uomo,
si identifica, secondo Aristotele, proprio con il proponimento del giusto
mezzo, con la ricerca cioè della mediazione costante fra elementi razionali
e elementi irrazionali, fra intelletto e volontà, conoscenza e azione.
L’abitudine alla virtù garantisce la continuità del bene come pratica
consapevole.
La vita etica, la
vita attiva, si realizza nella politica, poiché la vita associata, per l’uomo,
è un’esigenza naturale. Il barbaro, che non conosce la polis, è
servo per natura, il greco invece è per natura un "animale
politico", un animale cioè etico che realizza politicamente il bene
comune.
La formazione dello
Stato non deriva da un accordo o da una convenzione stipulata dai singoli;
essi, al contrario, sussistono solo all’interno della polis, la quale si
configura come la struttura sociale a cui tendono tutte le altre forme di
convivenza (la famiglia, il villaggio).
Come per
Il primo libro, che
qui verrà preso in considerazione, tratta esplicitamente dell’origine della polis,
cioè dello Stato.
L’oikos
(casa, famiglia) è la comunità originaria, nella quale l’uomo greco, libero
"per natura", si riproduce e conserva nel rapporto di ‘genere’
maschio-femmina e nel rapporto di dominio padrone-schiavo.
La physis,
cioè il fondamento naturale di questi rapporti originari, è l’essenza etica,
umana e già ‘politica’ che fonda la costituzione della polis. L’insieme
di più famiglie è il villaggio (kome) e più villaggi sono la
"cosiddetta polis". L’autosufficienza e la capacità autonoma
di riprodursi dell’insieme sociale (sia esso familiare o politico) è il fine
etico verso cui la natura umana è spinta immediatamente, è la realizzazione
stessa della felicità. L’economia familiare e la gestione familiare delle
ricchezze è la base materiale da cui prende le mosse tutto il resto.
2.1. L’origine
economico-familiare della polis aristotelica
"Poiché vediamo
che ogni città [o Stato] è una sorta di comunità e che ogni comunità si
costituisce in vista di un certo bene (infatti grazie a ciò che sembra bene
tutti fanno tutto), è chiaro che tutte prendano di mira un certo bene, ma
soprattutto è chiaro che la più importante fra tutte tenda al sommo dei beni e
che ricomprenda tutte le altre; questa è la cosiddetta pólis o anche la
comunità politica.
Allora dunque, quanti credono che l’uomo politico e il re e l’amministratore e
il despota siano lo stesso, non dicono bene; infatti nel più e nel meno di
ciascuno di questi individuano le differenze, non invece nella specie [eídei]
[…]: ma sarà chiaro ciò che sto dicendo a chi esamina la questione secondo
metodo.
Come infatti negli altri campi della scienza è necessario dividere il composto
[syntheton] fino agli elementi semplici (cioè alle parti più piccole del
tutto), in questo modo, esaminando di quali elementi si compone, vedremo meglio
la città e anche riguardo a questi, ossia in che cosa differiscono tra loro e
se è possibile accogliere una nozione scientifica di ciascuno di cui si è
detto.
Se dunque si riguardassero le cose svolgersi dall’origine, come in altri campi,
anche in questi se ne avrebbe così una perfetta visione. E’ necessario
innanzitutto che si uniscano in coppia coloro che non possono stare l’uno senza
l’altro, quali la femmina e il maschio in vista della riproduzione [ghenéseos]
[…], e chi per natura comanda e chi è comandato per la conservazione. […]
Perciò da queste due comunità [maschio-femmina/padrone-schiavo] scaturisce in
primo luogo la famiglia [oikía] […] Mentre la prima comunità formata da più
famiglie in vista di bisogni non quotidiani è il villaggio [kome]. […] La
comunità che risulta da più villaggi è la città perfetta che, mantenendosi
ormai, per così dire, al limite della completa autosufficienza [autarkeías] ,
si è formata per rendere possibile la vita, ma in realtà esiste per rendere
possibile un buon vivere. Perciò ogni città esiste per natura, se anche per
natura esistono le prime comunità; infatti essa è il loro fine [telos], e la
natura è il fine […]. Inoltre la causa e il fine di una cosa è il meglio; e
l’autosufficienza è il fine e il meglio. Da queste cose risulta evidente che la
polis è per natura e che l’uomo per natura è un animale politico, e chi è
apolide per natura e non per avventura è certamente un inetto o un essere
superiore all’uomo. […] Infatti, come diciamo, la natura non fa niente invano;
e solo l’uomo fra gli animali possiede la parola [logon]; la voce [phonè] certo
è segno di dolore e di piacere, perciò la si trova anche tra gli altri animali
[…], ma la parola [logos] è fatta per esprimere ciò che è utile e ciò che è
dannoso, così anche il giusto e l’ingiusto; questo infatti è proprio dell’uomo
rispetto agli altri animali, di avere solo lui la percezione del buono e del
cattivo, del giusto e dell’ingiusto e del resto; ora, il possesso comune
[koinonía] di queste cose fa la famiglia e la città. E per natura la città è
anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi; perché è necessario che il tutto
sia anteriore alle parti […].
Che la città esiste per natura e prima di ciascuno, è dunque evidente: infatti
se ciascuno isolatamente non è autosufficiente, sarà nella medesima condizione
delle parti rispetto al tutto, quindi chi non può vivere in comunità o non ha
bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte della città, di conseguenza
o è una bestia o un dio. […]
Ora, la giustizia come pratica virtuosa [dikaiosyne] è un elemento politico;
infatti il diritto [dike] è l’ordinamento di una comunità politica: e la giustizia
[dike] è scelta di ciò che è giusto.
[Politica, I, 1252a-1253a]
L’origine etica
della polis viene messa subito in chiaro da Aristotele: il
"bene" è l’essenza intorno a cui si viene a costituire una comunità
di uomini. La città, però, non è una comunità singola che tende a un bene
qualsiasi, poiché tende al bene sommo e comune a più comunità fra loro
collegate sotto la sua guida. La comunità politica perciò è innanzitutto una
connessione etica di comunità, un intero etico ordinato e articolato, è sia parte
(una città) che tutto (ricomprende le altre città); è l’ordinamento
politico in quanto tale, che si costituisce secondo distinzioni gerarchiche fra
le sue diverse componenti.
Come e da chi viene
governata la polis ? E’ una domanda legittima, tuttavia mal posta
se le differenze tra le varie forme di governo venissero indagate a caso, senza
metodo, rispondendo con una spiegazione quantitativa (c’è chi governa su poche
persone, chi invece su molte, etc.), non invece specifica. Le diverse
funzioni di comando e di amministrazione politica hanno una loro ragion
d’essere che risponde a criteri logicamente interni alla conformazione stessa
della polis, all’articolazione dell’intero sistema etico-politico. La forma
specifica con la quale la polis si presenta agli occhi di colui che
filosoficamente ne ricerca un’adeguata definizione, corrisponde esattamente
alla sua forma costitutiva; il principio di determinazione della realtà
indagata è la sua stessa natura essenziale.
Questa
corrispondenza teoretica fra l’indagine e l’oggetto indagato ci è garantita dal
metodo che, secondo Aristotele, accomuna la scienza politica a tutte le
altre.
La polis,
come si è visto, è un "composto", un insieme di comunità, un tutto
che va, secondo il metodo scientifico, analizzato nelle sue singole
parti, senza che di esso vada persa la connessione d’insieme. Si ricerca una
nozione scientifica che distingua la specificità di ciascuna forma di governo,
mantenendola all’interno della definizione generica di polis. La
comunità politica è un’unità, tuttavia, essendo un composto articolato, si
distingue a seconda della diversa forma di connessione che tiene insieme le sue
singole parti; dunque di polis non ce n’è una sola, ma ce ne possono
essere di diverse specie.
Aristotele ricerca
l’origine della polis. La formazione della comunità politica è un
processo che va osservato nel suo completo svolgimento, con un suo punto di
partenza e una sua fine compiuta.
La ragione prima per
la quale si forma una comunità di uomini è quella della riproduzione. La
riproduzione del genere però non è garantita solo dall’accoppiamento
maschio-femmina, ma dalla conservazione della sua possibilità all’interno di un
contesto familiare e domestico in cui sia presente il rapporto
altrettanto naturale fra il padrone e lo schiavo. La riproduzione della
famiglia (comunità di genere) e la sua conservazione (comunità di dominio
domestico), la loro unità indissolubile e naturale, costituiscono l’originaria
configurazione sociale entro cui l’uomo singolo è necessariamente ricompreso.
Il villaggio si presenta piuttosto come derivato familiare: l’unione di più
famiglie.
La città è il
composto ultimo nel quale convergono più unità familiari riunite in villaggi.
Ma la città compiuta (perfetta) è quella che si mostra autosufficiente e
autonoma, che si riproduce da sé e permette alle parti semplici di cui si
compone (le comunità, ossia la famiglia e il villaggio) di vivere in
correlazione l’una con l’altra al suo interno. L’origine della polis
dunque è totalmente naturale, nella misura in cui, dice Aristotele, essa si è
formata per permettere "il vivere" delle sue interne articolazioni;
la sua essenza naturale (che corrisponde cioè al processo vitale in quanto
tale) coincide con l’essenza etica del "bene". Vivere politicamente
vuol dire perciò vivere bene. Il bene a cui tende il "composto" (la polis)
coincide con la piena autosufficienza riproduttiva, che è perciò sia scopo
finale dell’evoluzione (dalla famiglia, al villaggio, alla città), sia naturale
risultato a cui non può non pervenire il processo di formazione politico. La
famiglia di per sé non basta a se stessa, così il singolo villaggio, da cui, in
vista del "meglio", cioè della piena autarchia, si forma
necessariamente la città. Il composto politico, cioè la polis, è natura,
fine e meglio per la famiglia e il villaggio, oltre che la causa essenziale
della loro stessa evoluzione politica.
L’uomo è perciò per
natura un animale politico, destinato a vivere nella città, in cui solamente è
dato vivere e vivere bene. L’isolamento innaturale (cioè non accidentale e
contro natura) presenta caratteristiche subumane o divine.
Viceversa l’uomo,
essendo in possesso del logos, cioè della capacità di distinguere il
bene dal male, il giusto dall’ingiusto, il "composto" dalle sue parti
più semplici, sa e vuole che la "comunità politica" sia il suo
contesto naturale e etico. Sa cioè che fuori di essa non avrebbe alcuna
possibilità di vivere, ma ancora di più sa che la polis precede
ontologicamente e logicamente la vita stessa della famiglia e del villaggio.
Questi infatti sono come le singole membra di un organismo, solo nel quale
hanno la vita garantita; qualora una parte si distaccasse dal tutto, non
avrebbe più vita e non sarebbe più quella che è.
Se il bene è il fine
naturale e necessario a cui tende la polis, esso si realizza
praticamente nella virtù della giustizia. Questa non è solo una pratica
virtuosa ma corrisponde all’ordinamento stesso su cui si regge la città.
Come si è potuto
vedere dall’analisi del testo, la deduzione aristotelica di polis ruota
intorno a una serie di parole chiave, che vengono fatte interagire l’una con
l’altra al fine di trovare una definizione scientifica (logica e ontologica)
della forma politica di comunità.
L’incipit è
esplicitamente etico, così come anche la conclusione. La naturale tendenza al
"bene" che spinge gli uomini a fare tutto quello che fanno, si rivela
come spinta naturale al possesso comune del bene e della felicità, che a loro
volta si realizzano in un ambito politico ordinato giuridicamente e vissuto
secondo giustizia dai suoi membri.
L’uomo singolo,
l’individuo, non ricoprono alcun posto essenziale nella formazione della polis
e nella sua esposizione filosofica.
Vediamo allora quali
sono le categorie fondamentali che permettono ad Aristotele di esporre
scientificamente lo sviluppo originario della città-stato.
Innanzitutto la physis,
ossia il "per natura", che è alla base di tutto lo svolgimento. La
natura umana, il genere umano, è tale solo in quanto si riproduce in
comunità e non isolatamente. La consapevolezza di essere questa essenza
naturale (il ghénos) distingue l’uomo dagli altri animali. Il logos
perciò si presenta innanzitutto come capacità umana di conoscere la propria
specifica physis, quella cioè di essere genere umano. Ma il genere
non è tale se non all’interno di rapporti sociali dati: la comunità
maschio-femmina e la comunità padrone-schiavo. L’oikía non è solo la
stirpe-famiglia, dunque la continuità di sangue del genere, ma anche e
soprattutto la sua collocazione sociale all’interno di rapporti di dominio
storicamente dati, i quali inevitabilmente si presentano come una seconda
natura per chi in essi si riproduce. Dunque la comunità domestica è l’origine
da cui prende le mosse, secondo Aristotele, la polis.
A questo punto
interviene la questione di metodo. Potrebbe sembrare una digressione
estrinseca, quella posta da Aristotele per indirizzare tutta l’analisi verso la
concezione dell’unità politica come di un "composto". Ma, come si
vedrà, è indissolubilmente legata alla sua concezione etico-politica del
"vivere bene".
Il composto è
infatti proprio l’organismo da cui non possono distaccarsi le singole membra,
pena l’impossibilità di "vivere" e "vivere bene".
Il metodo è
quello proprio della filosofia e di ogni scienza che si pretende tale:
considerare l’ultimo come il primo e il primo come ultimo. L’esposizione deve
cioè partire certo dagli elementi più astratti e semplici (la famiglia e il
villaggio), giungendo fino a quelli più concreti e comprensivi (la polis),
tuttavia deve mantenere la consapevolezza della priorità logico-ontologica del
composto organico rispetto alle sue componenti. Dunque la città-stato è certo
l’ultimo nell’esposizione, poiché è il fine (telos) e la natura
essenziale dell’unità familiare e del villaggio, ma è il primo in quanto è la
loro unità pienamente realizzata, solo entro la quale quelle possono vivere e
riprodursi. E il fine o la natura di una cosa, dice Aristotele, è anche la causa
sui (to ou éneka), cioè la causa prima del proprio sviluppo. Ma la
causa di uno sviluppo portato al suo pieno compimento è il "meglio",
cioè è un valore etico che, secondo Aristotele, nell’ambito politico non può
che identificarsi con il "vivere bene", cioè secondo giustizia.
La pratica virtuosa
della giustizia e l’ordinamento giusto di una polis, garantiscono la sua
piena autosufficienza riproduttiva; garantiscono la vita del composto, il quale
è organico proprio in quanto si riproduce da sé.
Dunque, come si è
potuto notare, tutta l’argomentazione aristotelica si presenta fortemente
dialettica e sintetica, cioè tesa a individuare all’interno di uno sviluppo
reale, quello della polis, la connessione intrinseca di quegli elementi
che ne segnano le singole tappe evolutive.
D’altra parte, la
concezione politica di Aristotele si presenta legata non solo al piano etico
del comportamento umano, ma anche a quello logico. L’uomo è tale solo in quanto
possiede il logos, grazie al quale distingue e riconosce il vero bene,
cioè quello politico, nel quale, come si è già detto, l’individualità,
la singolarità, non viene tematizzata, proprio in forza di quel metodo
esposto preliminarmente all’analisi.
3. Agostino
La patristica
occidentale e latina, fino ad Agostino e a parte Tertulliano, non presenta
personalità di vigore speculativo come quella orientale (Clemente Alessandrino
150-213d.C., e Origene185(6)-254d.C.). Nasce però anche questa in forte
contrapposizione, oltre che al paganesimo, a quelle eresie che si erano diffuse
contemporaneamente alla religione cristiana, la quale era penetrata in tutto
l’Impero romano già durante l’età di Commodo (morto nel 193 d.C.). Sotto
Diocleziano, alla persecuzione dei cristiani (303-304 d.C.) si contrappose il
poderoso sforzo del Cristianesimo di precisare e fissare il contenuto ortodosso
della propria fede. Il III secolo d.C. vede infatti un rapido riprodursi di
differenti eresie, alle quali tutta una serie di Concili, tra il IV e V secolo,
risposero con la condanna. La patristica dunque, a differenza della letteratura
apologetica, si caratterizza sostanzialmente per questo suo intento difensivo
dell’autentica dottrina cristiana, in contrapposizione ai movimenti ereticali.
L’età di Costantino,
con l’editto di Milano (313 d.C.) che dichiarava cessata la persecuzione contro
i cristiani, vede la nascita dell’Impero romano-cristiano. Nel 325 con il
concilio di Nicea viene condannata ufficialmente l’eresia ariana e
Sebbene Teodosio
(378-395) avesse riunificato l’Impero - la cui capitale era stata trasferita
nel
Nel 410 l’Impero
d’Occidente subisce una dura e simbolica sconfitta da parte dei barbari: i
Visigoti di Alarico invadono e saccheggiano Roma. Nel 455 Roma soggiacque a una
nuova invasione ad opera dei Vandali. Il papa Leone I si mostrò l’unica
autorità presente e operante sul posto nel corso del secondo saccheggio. poi la
fine dell’Impero Romano d’Occidente viene segnata dalla deposizione di Romolo
Augustolo, nel 476, da parte di Odoacre (re degli Eruli e comandante dell’esercito
imperiale, vassallo dell’imperatore di Costantinopoli). Ha così inizio l’età
dei regni romano-germanici.
Il periodo della
decadenza dell’Impero romano è vissuta appieno da Agostino (354-430d.C.). Nasce
nell’Africa romana, e dopo un periodo di vita dissipata, la lettura dell’Hortensius
di Cicerone lo avvicina alla filosofia. Aderisce successivamente al
manicheismo, ma venendo nel
Dal
Il De Civitate
Dei, scritto fra il 413 e il 426, è la sua maggiore opera
politico-religiosa poiché risponde innanzitutto all’accusa mossa ai cristiani,
successivamente al sacco di Roma, di essere la causa scatenante del declino
politico imperiale. In realtà, il pensiero politico agostiniano è più complesso
e non riducibile a una semplice difesa del Cristianesimo contro Roma.
L’origine
dell’ordine politico esistente (della città terrena) si intreccia con
l’ordine divino (la città celeste), secondo un dualismo che trova in
terra dei punti di contatto e di mescolanza, ma che è destinato a separarsi
nettamente alla fine dei tempi e all’avvento del regno di Dio. Tutta l’opera
(divisa in 22 capitoli) si presenta come un commento e un’interpretazione
particolarmente approfondita delle Sacre Scritture.
3.1. Agostino:
l’origine delle due città nella Città di Dio
"Due amori
diversi hanno edificato le due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio,
la città terrena; l’amore di Dio fino al disprezzo di sé, la città celeste.
Così l’una si gloria in sé stessa, l’altra nel Signore. Poiché la prima chiede
la sua gloria agli uomini, mentre per la seconda la gloria maggiore è Dio, testimone
della sua coscienza. La prima innalza il suo capo nella sua propria gloria, la
seconda dice al suo Dio: " Tu sei la mia gloria, tu innalzi il mio
capo". Nell’una tanto i principi quanto le nazioni sottomesse sono
dominati dalla brama del dominio, nell’altra tutti si servono a vicenda con
carità scambievole, i governanti col prendersi cura dei sudditi, i sudditi
coll’ubbidire ai governanti. L’una nei suoi capi ama la sua propria forza,
l’altra dice al suo Dio: "Amerò te, o Signore, che sei la mia forza".
E perciò i sapienti della città terrena, vivendo secondo l’uomo, hanno cercato
il bene del corpo o dell’anima o di tutti e due; e quelli che han potuto
conoscere Dio "non l’hanno onorato come Dio né gli hanno reso grazie, ma
si sono persi nel niente delle loro argomentazioni ed il loro sciocco cuore si
è riempito di tenebre, proclamandosi sapienti" e cioè esaltandosi,
dominati dall’orgoglio, nella loro sapienza "sono diventati stolti ed
hanno scambiato la gloria di Dio incorruttibile per un’immagine fatta a
somiglianza dell’uomo corruttibile, degli uccelli, dei quadrupedi, dei
serpenti", poiché nell’adorare simulacri di questo genere si sono fatti
guida o seguaci dei loro popoli, "hanno offerto il culto e l’omaggio di
servitù alla creatura piuttosto che al Creatore, che è benedetto nei
secoli". Nella città celeste invece non vi è nessuna sapienza umana, se
non la pietà con cui secondo rettitudine si offre il culto al vero Dio,
aspettando il premio nella santa società, non soltanto degli uomini, ma anche
degli angeli "affinché Dio sia tutto in tutto".
[Agostino, La città di Dio, a cura di D. Pesce,
La città terrena (ossia
l’Impero romano e più in generale la storia degli uomini sulla terra) è tenuta
separata da Agostino dalla città celeste (il regno di Dio, l’aldilà). La
realizzazione dell’una però non esclude quella dell’altra; viceversa, sebbene
la loro ragion d’essere sia distinta come sono distinti i "due amori"
(l’uno rivolto solo verso l’uomo e le cose di questo mondo, l’altro verso il
Creatore e l’aldilà), la città celeste è presente nella storia e si manifesta
come storia della Chiesa e della cristianità nel mondo.
L’origine teologica
delle due città è comune, risale cioè alla genesi stessa, ossia all’origine
stessa del genere umano, così come testimoniano le Sacre Scritture.
"Quel che non
si può negare è che Caino sia stato il primo di tutti a nascere dall’unione
dell’uomo con la donna. […] A Caino seguì Abele, che fu ucciso dal fratello
maggiore e mostrò per primo in una sorta di prefigurazione quante inique
persecuzioni la pellegrina città di Dio avrebbe dovuto sopportare da parte
degli empi, degli uomini radicati alla terra, cioè di quelli che amano la loro
origine terrena […]. Da allora si divisero le generazioni, da una parte quelle
discendenti da Caino, dall’altra quelle discendenti da colui che Adamo generò
perché prendesse la successione di Abele […]. Queste due serie di generazioni,
l’una discendente da Seth, l’altra da Caino, rappresentano le due città, di cui
trattiamo, nei loro ordini distinti, l’una celeste e pellegrina sulla terra,
l’altra terrena che aspira alle gioie terrene e ad esse si attacca come se
fossero le sole gioie."
[Agostino, La città di Dio, cit., pp. 72 e segg.]
Dunque le due città
non sono altro che la stessa generazione dualistica dell’uomo da parte di Dio:
i discendenti di Abele (e di Seth) da una parte e i discendenti di Caino
dall’altra. Nel corso della storia c’è una effettiva e insuperabile mescolanza
dei due "ordini"; la città celeste (la stirpe di Abele) vive come
"pellegrina" in questo mondo, aspirando a separarsene definitivamente
solo alla fine dei tempi e di tutte le generazioni. La storia sacra è dunque la
storia del popolo d’Israele e della cristianità, la quale riceve dalla
Rivelazione la certezza assoluta del proprio riscatto finale.
La pace
terrena (cioè politica) è augurabile proprio in quanto prepara la pace celeste;
dunque il cristiano si adatterà a vivere proprio in quelle istituzioni mondane
che garantiscono la pacifica convivenza tra gli uomini.
"Così anche la
città terrena, che non vive di fede, desidera la pace terrena ed indirizza la
concordia dei cittadini, nel comandare e nell’ubbidire, al fine vi sia, quanto
agli interessi propri della vita mortale, una certa composizione delle volontà
umane. Mentre
[Agostino, La città di Dio, cit., pp. 72 e segg.]
Siamo ancora lontani
da una vera e propria concezione teocratica del potere politico, sebbene un
imperatore come Teodosio venga portato come esempio di realizzazione della pace
in terra. D’altra parte, dice Agostino, i soldati cristiani seppero stare al
fianco di Giuliano l’Apostata, perché sapevano distinguere l’obbedienza a Dio
dall’obbedienza alle autorità terrene.
C’è dunque nella
storia una mescolanza inestricabile fra elementi celesti ed elementi terreni,
fra Babilonia e Gerusalemme; una mescolanza di uomini e di valori, che il
cristiano, grazie alla Rivelazione, sa distinguere e anche rispettare, pur
vivendo come pellegrino in questo mondo.
Il dualismo fra le
due città sembra dunque riguardare più la loro fine che la loro origine; il
loro differente destino è la conseguenza di un libero distacco dell’uomo da
Dio, così come la caducità della città terrena sarà la conseguenza del mancato
riconoscimento della verità rivelata da parte dell’uomo.
Il cristiano invece,
riconoscendo l’eterno nel tempo, la parola divina e l’insegnamento di Cristo
anche in questo mondo - anche e proprio nel corso della decadenza dell’Impero
romano - può assolvere i compiti politici con un’attitudine volta al
conseguimento della pace e della felicità universale. Dunque un imperatore
cristiano potrebbe meglio di chiunque altro risollevare le sorti
dell’Occidente, in quanto avrebbe a cuore la salvezza dell’uomo già in questa
terra.
"Ed infatti non
per questo noi diciamo felici alcuni imperatori cristiani, perché tennero molto
al lungo il potere, […] perché dominarono i nemici dello stato […]. Questi
imperatori cristiani noi diciamo che sono felici ora nella speranza e poi in
realtà, quando sarà venuto il giorno che attendiamo."
[Agostino, La città di Dio, cit., pp. 72 e segg.]
L’universalità della
parola divina, il valore dell’uomo in quanto tale, la liberazione da ogni
schiavitù terrena, la realizzazione della felicità spirituale, l’assolutezza
della fede in un aldilà rivelato, e tuttavia la sua convergenza con il mondo,
sono i capisaldi della patristica agostiniana, la quale fa i conti certamente
con l’ordine politico imperiale di Roma, con la sua decadenza, ma anche con il
suo possibile riscatto, proprio grazie all’opera dei cristiani nel mondo.
Agostino perciò pur
criticando e condannando duramente il paganesimo, anche da un punto di vista
morale, non di meno si distacca decisamente dalla tradizione ebraica,
considerando il popolo eletto (discendente da Abele e Seth) mischiato e
indistinto materialmente con il popolo miscredente (discendente da Caino). Così
come la città celeste non è precisamente Gerusalemme, o meglio, non si
identifica con nessun ordine politico materiale terreno, ma è piuttosto un
ordine spirituale che
"Il genere
umano l’abbiamo distribuito in due ordini, l’uno di quelli che vivono secondo
l’uomo, l’altro di quelli che vivono secondo Dio. Queste due società noi le
chiamiamo anche col nome mistico di città, delle quali l’una è predestinata a
regnare in eterno con Dio, l’altra a subire l’eterno supplizio col diavolo. Ma
questa è la loro fine di cui parleremo dopo. Ora, invece, poiché s’è già detto
abbastanza della loro origine sia fra gli angeli, il cui numero ci è ignoto,
sia nei due primi uomini, mi pare che si debba venire a parlare del loro
sviluppo dal momento in cui quei due primi progenitori incominciarono a
generare fino a quando gli uomini cesseranno di generare. Poiché lo sviluppo
delle due città si distende per tutto questo spazio di tempo o secolo in cui le
generazioni degli uomini si succedono secondo l’alterna vicenda della natura e
della morte."
[Agostino, La città di Dio, cit., pp. 72 e segg.]
Il rapporto terreno
fra questi due "ordini", la loro origine comune, ma la loro
differente predestinazione, sono i nodi centrali della teologia della storia
agostiniana e della conseguente sacralizzazione della politica, vista anch’essa
come la faticosa costruzione dell’eterno nel temporale, ovvero come
raggiungimento in terra di quella pace che sarà assoluta e universale solo alla
fine della storia.
4. Machiavelli
Il Rinascimento in
Italia si caratterizza politicamente per la formazione dei principati e delle
Signorie, nell’Europa delle grandi monarchie. Il pensiero politico e giuridico
del XV e del XVI secolo rifiorisce proprio in seguito e contemporaneamente alle
vicende che coinvolgono la storia dei singoli Stati, in forte contrapposizione
teorica alla tradizione aristotelica e alla trattatistica medievale.
In Italia poi, la
mancata formazione dello Stato nazionale – mentre
Il periodo iniziale
del Rinascimento è stato chiamato Umanesimo a causa della riscoperta e del vero
e proprio culto delle humanae litterae, che caratterizza soprattutto la
cultura italiana già dalla fine del XIV secolo fino alla prima metà del XV.
Firenze è la città umanista per eccellenza, i cui intellettuali sono dediti
alla lettura e allo studio dei classici latini e greci, dei quali si intende
cogliere l’originalità e specificità rispetto alla "barbarie
medievale". Il recupero del passato non è però semplice ripetizione e
imitazione, ma fonte di progresso culturale e scientifico. La riconquista della
storicità dell’uomo (figlio di tempi passati la cui verità si proietta nel
presente) non caratterizza solo la filologia umanista, ma investe anche
l’insieme dei rapporti politici e culturali italiani, sottoponendo a revisione
in particolar modo
Certamente la
laicizzazione della cultura è il discrimine che segna le differenze fra le
Università tradizionali dell’età medievale e i nuovi "studi" e le
Accademie che fioriscono sotto il patrocinio di principi e signori (Medici a
Firenze, Sforza a Milano, Montefeltro a Urbino, etc.). D’altra parte il
Medioevo non è un’età completamente superata, nemmeno dal punto di vista
culturale, visto che, per esempio, nei primi decenni del XV secolo le
università europee sono ancora dominate dal contrasto tra realismo e
nominalismo, cioè tra la tradizione platonico-aristotelica e quella ockamistica,
così come anche è vivo il contrasto fra tesi conciliariste (sempre più diffuse)
e tesi a favore della superiorità del Pontefice sul Concilio.
Al
"letterato" umanista (non solo filologo ma anche scrittore di
politica e morale, legato sempre più ai favori di principi e mecenati, avverso
ai sistemi teorici della scienza scolastica) si affianca anche una nuova
concezione più propriamente filosofica, che vede in sostanziale omogeneità la
natura e l’uomo. Questa convinzione teorica costituirà la base della ricerca
scientifica rinascimentale, volta soprattutto a sottomettere, conoscere e
cogliere i segreti più nascosti del mondo naturale. La fisica, la chimica e
l’astronomia (accanto anche alla magia, alchimia e astrologia) saranno
approfondite e coltivate con una tradizione di studi che non presenta soluzioni
di continuità a partire dalla fisica ockhamistica dei secoli XIV e XV a
Leonardo, Copernico e Keplero.
L’aristotelismo e
platonismo si caratterizzano l’uno come recupero antiscolastico degli scritti di
Aristotele sulla politica, la poetica e la retorica, l’altro come riscoperta in
toto del pensiero e dell’opera di Platone, di cui nel Medioevo poco si
sapeva. La riscoperta del mondo antico porta anche a considerare sotto una
nuova luce lo stoicismo e l’epicureismo, in funzione soprattutto antiplatonica
e antiaristotelica. I temi filosofici che vengono trattati sono soprattutto di
carattere etico-morale e anche politico.
Possono essere
distinte due fasi nella storia umanistico-rinascimentale del pensiero politico
italiano: la prima vede scontrarsi due opposti ideali di Stato, quello
"repubblicano" e "civile" che presentava Firenze come
l’erede della "libertà" dell’antica Roma repubblicana, in
contrapposizione a quello della "tirannide" viscontea a Milano, dalla
quale sorse poi un ideale politico ispirato alla Repubblica platonica.
L’ideale del "perfetto principe", educato negli studia humanitatis
e capace di circondarsi di un’élite di collaboratori altrettanto
valenti.
La seconda fase del
pensiero politico italiano corrisponde alla crisi degli stati regionali e
dell’equilibrio mediceo rotto dalle guerre tra Francia e Spagna, che si
conclusero solo nel 1559 con l’asservimento dell’Italia alla Spagna.
Le idealizzazioni
del primo periodo vengono evidentemente sostituite da una considerazione
"realistica" della figura del principe e dell’uomo politico, che
riusciva a creare una realtà politica nuova, con spregiudicato uso di tutti i
mezzi possibili a sua disposizione e con una "sapiente" conoscenza
della natura umana. La situazione stessa suggeriva un atteggiamento volto alla
realizzazione effettiva degli affari politici e della storia in quanto tale.
In questo complesso
quadro storico e culturale si colloca la figura di Machiavelli (1469-1527), il
massimo pensatore politico della prima metà del Cinquecento. La sua riflessione
si concentra sulla ricerca di una logica interna che regoli le dinamiche
politiche, liberandola da richiami e dipendenze di carattere morale e
religioso.
Tutte le sue opere
(il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, le Istorie
fiorentine) ci mostrano una concezione "storicistica" e insieme
"naturalistica" che dei processi politici aveva Machiavelli. Da una
parte è necessario rintracciare nella storia passata quei principi che preservano
dalla decadenza una comunità politica, dall’altra proprio questa osservazione
rivolta al passato fa luce sulla natura umana in quanto tale.
Il ritorno alla
repubblica romana, come principio e costume politico garante di stabilità, non
costituisce per l’autore il vagheggiamento di uno "stato ideale",
essendo la sua analisi volta tutta verso la realtà quale essa "è" e
non quale essa "dovrebbe essere".
La figura del
"principe", come costruttore e conservatore dello Stato, si rende
realisticamente necessaria in un contesto storico-politico, quale era quello
dell’Italia cinquecentesca che si manteneva in condizioni di anarchia e
servitù, a fronte sia della formazione delle grandi monarchie europee e in
considerazione del fatto che un regime repubblicano può essere utile a uno
Stato già consolidato. Viceversa, per la fondazione di esso è necessario un
forte principato, nel quale il principe costringa la malvagia e riottosa natura
umana a rispettare le leggi, scegliendo di volta in volta se comportarsi da
"volpe" o da "leone", usando spregiudicatamente i mezzi
necessari a conseguire i suoi fini. Il giudizio morale e religioso sui
"mezzi" e sulla politica in genere va sospeso, essa piuttosto va
giudicata iuxta propria principia, cioè secondo l’utile e secondo
l’interesse e non secondo il bene o il male.
Il principe dunque
può e deve essere anche "non buono" e limitarsi nella sua crudeltà
solo quando può ritorcersi contro di lui e il suo Stato. La violenza fonda uno
Stato, ma, per conservarlo, essa non deve essere perpetuata; il principe deve
anzi arginare la casualità degli avvenimenti ed esercitare quella
"virtù" che si rifà piuttosto alla virtus pagana del buon
cittadino che a quella salvifica cristiana, la quale anzi avrebbe degenerato e
indebolito l’uomo attuale rispetto agli antichi.
Machiavelli corregge
in senso pessimistico quel naturalismo tipico del Rinascimento quando propone
una concezione della "natura" dell’uomo come sostanzialmente immobile
e non migliorabile. Ciò che spinge gli uomini all’azione è l’avidità di
guadagno e di potere. In campo morale e politico poi non vi sono dei valori
stabili e determinabili in assoluto, già per il fatto che le vicende umane sono
segnate da quel ritorno ciclico che trasforma la virtù in quiete, la quiete in
ozio, l’ozio in disordine, il disordine in rovina e questa di nuovo in ordine e
poi in virtù, e così via.
4.1. Machiavelli: Il
Principe e la fondazione dei principati
"Tutti gli
stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono
stati e sono o republiche o principati. E’ principati sono, o ereditarii, de’
quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e’ sono
nuovi. E’ nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono
come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è
el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi così acquistati, o consueti a
vivere sotto uno principe, o usi ad essere liberi; e acquistonsi o con le armi
d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù".
[Machiavelli, Il Principe, in Il principe e altri scritti,
introduzione e commento di G. Sasso,
Nel 1513 Machiavelli
compone il suo opuscolo de principatibus, mentre a Firenze stanno
tornando i Medici, dopo diciotto anni di esilio.
L’allontanamento
forzato dal suo ufficio e dalla sua vita abituale, immersa negli affari
politici della città, lo porta però a mettere in ordine quella
"scienza" politica che proprio con lui si appresta a nascere. Il Principe
perciò non può semplicemente essere considerato come il frutto di una
riflessione personale, su vicende certo politiche, ma che coinvolgono
radicalmente la vita privata dell’autore; piuttosto si presenta come un vero e
proprio trattatello politico, denso di teoria, di studi e letture intraprese
non certo a caso, sebbene scritto probabilmente di getto.
"La cognizione
delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle
cose moderne e una continua lezione delle antique; le quali avendo io con gran
diligenzia lungamente escogitate ed esaminate, e ora in uno piccolo volume
ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra." [Machiavelli, Il
Principe, cit., pp.4-5]
Il Principe
si compone di ventisei capitoli, ciascuno concentrato su di un tema particolare,
tutti però tesi a riscattare la decadenza politica fiorentina e italiana,
ricercandone le ragioni e soprattutto i rimedi pratici ed efficaci.
"Ma sendo
l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente
andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa.
[…] Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere
essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo necessità." [Machiavelli, Il
Principe, cit., pp.136-137]
Il tema centrale
proposto dall’autore - se cioè sia possibile razionalizzare il molteplice delle
vicende umane e politiche dominandolo con la virtù - si intreccia con la
funzione perturbatrice e irriducibile assegnata alla fortuna proprio in campo
politico; l’antinomia che si viene a creare fra fortuna e virtù non viene
risolta compiutamente dal Machiavelli, tuttavia trova nella figura storica del
principe una possibile sintesi.
"Coloro e’
quali solamente per fortuna diventano, di privati, principi, con poca fatica
diventano, ma con assai si mantengono; […]. Io voglio all’uno e all’altro di
questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre
dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e
Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di
privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva
acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato
dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con
quella lo perdé […] e se gli ordini suoi non li profittorono, non fu sua colpa,
perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna."
[Machiavelli, Il Principe, cit., pp.63-66]
Tra la fortuna e la
virtù si inserisce anche la forza, o meglio il raggiungimento a tutti i costi
di un risultato utile politicamente, portato a termine da una personalità
consapevole delle proprie capacità e della condizione oggettiva in cui opera.
In questo senso, la vicenda di Cesare Borgia è paradigmatica poiché racchiude
in sé tutti e tre i termini dell’agire politico: virtù (come capacità di
intervenire adeguatamente sulle cose politiche), fortuna (come ineliminabile
casualità propria della natura umana), forza (come capacità di usare senza
incertezze il proprio potere).
Dunque l’origine
dello Stato, secondo il Machiavelli, si presenta piuttosto come fondazione di
un principato per opera di una forte e virtuosa personalità politica, la quale
sappia conciliare la realtà effettuale con l’accidentalità delle vicende umane;
e quindi sappia scegliere oculatamente i mezzi con i quali formare il
principato.
Inoltre, nei Discorsi
Machiavelli sembra preferire il regime repubblicano-democratico, in quanto la
collegialità e l’alternanza al potere possono meglio garantire quella
flessibilità e adattabilità alle circostanze che al singolo è negata.
"Quinci nasce
che una repubblica ha maggiore vita ed ha più lungamente buona fortuna che uno
principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ temporali, per
la diversità de’ cittadini che sono in quella, che non può uno principe."
[Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, III, 9]
Il primo capitolo
del Principe ha un intento dichiarativo ed enunciativo della materia; il
suo stile è in funzione proprio di questo intento. Machiavelli ha in effetti
presente tutti i fondamentali motivi dell’opera che sta scrivendo.
Qui vengono distinti
i vari tipi di principato, ereditario o nuovo, e quest’ultimo a sua volta o
tutto nuovo o misto (cioè come membro in aggiunta a uno Stato ereditato dal
principe che lo acquista). Del principato ereditario, la cui fondazione
presenta minori difficoltà teoriche e pratiche, Machiavelli parlerà nel II
capitolo, mentre dei principati nuovi, in cui "consistono le
difficultà", parlerà a partire dal III capitolo dedicato ai principati
misti. I principati nuovi pongono dunque i seguenti problemi: c’è il caso di un
"privato" che diventa padrone di un "dominio" (è il caso di
Cesare Borgia e di Francesco Sforza), il caso di un "principe" o
"re" il quale aggiunge un nuovo dominio al suo precedente regno o
principato (è il caso di Ferdinando il Cattolico e il Regno di Napoli). La
conquista di un dominio da parte di un privato oppure da parte di un principe o
re, implica dei problemi se quel dominio non era originariamente "uso a
vivere" sotto un principe ma in libertà. I mezzi per conquistare e
mantenere una terra "usa" alla libertà sono differenti da quelli
impiegati nei confronti di una terra abituata ad essere governata da un
principe.
La conquista pone
immediatamente il problema dei "mezzi politici", delle "armi
proprie" o "altrui", della "virtù" e della
"fortuna". Gli esempi precedentemente citati di Francesco Sforza e di
Cesare Borgia, distinguono innanzitutto le capacità virtuose del principe - le
quali, alla lunga, possono prevalere sulla sorte avversa e sulle oggettive
difficoltà incontrate nel corso della conquista - dalle capacità meno virtuose
ma favorite dalla fortuna, che, al dunque, si rivelano estremamente fragili e
negative. Il tono di Machiavelli è evidentemente di consiglio nei confronti del
principe, affinché mantenga nella stabilità il suo dominio; un consiglio però
che si presenta ‘altalenante’ e non risolutivo, nella misura in cui non risolve
fino in fondo l’antinomia posta fra virtù e fortuna, sebbene
proponga una lettura politico-utilitaristica della fondazione e della
conservazione dello Stato basato sulla forza, ovvero sul rapporto
politico fra sudditi e principe personificato e controllato innanzitutto da
quest’ultimo, dalla sua capacità virtuosa di dominio, costi quel che costi.
5. Hobbes, Rousseau,
Locke: l’origine contrattualistica dello Stato
Scegliamo questi tre
autori per esporre antologicamente la teoria politica del contrattualismo
moderno, che ha in realtà origini precedenti a Hobbes, in ambiente calvinista e
particolarmente in Germania con il giurista Altusio (1557-1638). La moderna e
borghese concezione dello Stato come di un corpo politico fondato su di un
contratto fra popolo e re, da cui deve dipendere l’autorità del sovrano,
garantisce al suddito l’esercizio dei suoi diritti naturali di ‘uomo’, dai
quali il diritto positivo, e cioè statuale, non può discostarsi opprimendoli o
cancellandoli.
Il diritto naturale
costituisce l’oggetto proprio della teoria giuridica del giusnaturalismo (4),
al quale diedero veste sistematica l’olandese Grozio (1583-1645) e il tedesco
Pufendorf (1632-1694). Nello stesso periodo in Francia si distinse la teoria
politica di Jean Bodin (1529-1596) volta a sganciare lo Stato dai conflitti fra
le diverse confessioni religiose e a dichiararne la sovranità assoluta sulla
società civile.
In questo quadro si
inserisce il pensiero e l’opera di Hobbes (1588-1679). Il suo intervento in
ambito di teoria politica viene seguito da quello propriamente illuminista di
Locke (1632-1704), anch’egli filosofo inglese, le cui opere principali furono
pubblicate tutte dopo
La figura di
Rousseau (1712-1778) si inserisce invece nella Francia dei philosophes,
ma il suo intervento si distaccherà polemicamente dalla concezione ottimistica
di progresso sociale sostenuta dalla maggior parte degli illuministi francesi a
lui contemporanei.
Sebbene i tre autori
citati non siano gli unici a parlare di ‘patto’ o di ‘contratto (5) ’ come
origine dello Stato, li abbiamo scelti in quanto espongono in forma sistematica
e complessa questa moderna concezione politica.
5.1. Hobbes: come e
perché nasce lo Stato
La filosofia
politica di Hobbes vuole avere carattere scientifico. La sua concezione
filosofica della realtà può essere definita come un meccanicismo di stampo
materialistico, che si basa sulla convinzione metodologica secondo la quale la
scienza deve avere per oggetto ‘corpi’ generati dall’uomo, i quali possono
perciò essere indagati e conosciuti. Il ‘calcolo’ filosofico è il lavoro
proprio della ragione che fornendo nomi adeguati alle cose ne conosce la causa
e gli effetti reali. Gli oggetti propri della filosofia sono perciò costruzioni
umane di cui va riconosciuto e ricostruito il processo genetico. Di Dio, che
non è un nostro prodotto, non possiamo conoscere le cause, dunque non ne
possiamo dare una corretta definizione.
La politica fa
pienamente parte della filosofia. Lo Stato, il ‘corpo politico’ è appieno una
nostra costruzione, dunque possiamo indagarlo e definirlo scientificamente. E’
possibile perciò, per quanto riguarda l’indagine sociale, antropologica e
politica l’applicazione del metodo costruttivistico proposto da Hobbes.
Lo Stato non è, come
voleva Aristotele, un ente naturale, ma decisamente artificiale (come una
macchina), costruito volutamente dagli uomini sulla base di una convenzione da
essi liberamente stipulata, per ragioni che riguardano innanzitutto la
necessità di autoconservarsi e mantenersi in vita.
Anche la politica,
come le altre scienze, deve seguire un metodo rigidamente deduttivo e procedere
secondo il principio di causa-effetto.
Nel 1651 esce a
Londra il Leviatano, l’opera politica maggiore di Hobbes.
L’unità dello Stato
e l’obbligo politico di obbedire alle leggi emanate dal sovrano sono i principi
fondamentali su cui si costruisce il corpo politico.
L’assolutismo dello
Stato hobbesiano si presenta come moderna tendenza all’unificazione e
all’accentramento del potere politico di contro a quello feudale in cui
convivevano numerosi organismi (corporazioni, ordini, assemblee degli ordini,
etc.), che pretendevano di controllare e partecipare a pieno titolo alla
sovranità.
Secondo Hobbes
invece il potere sovrano e l’obbligo politico di obbedienza devono direttamente
scaturire dalla volontà stessa degli individui, dal consenso che viene da loro
espresso idealmente in un ‘patto’ che istituisce la forma politica di Stato.
Non vi può essere "nessuna obbligazione per un uomo, la quale non derivi
da un atto personale poiché tutti gli uomini sono egualmente liberi per
natura" (Leviatano, XXI). Sebbene Hobbes sia consapevole che
l’origine di uno Stato è determinata da violenza e conquista (Leviatano
XX), l’obbligo politico si instaura solo se tra sovrano conquistatore e popolo
sopravviene un patto : "non è dunque la vittoria a conferire il
diritto di dominio sul vinto, ma il patto da costui concluso." Bisogna
postulare dunque un patto, qualunque sia la reale origine di uno Stato. I
rapporti tra potere sovrano e popolo devono essere regolati ‘come se’ il primo
sia nato dal consenso dei secondi.
Lo Stato hobbesiano
si presenta come un’istituzione fondata essenzialmente sul consenso dei sudditi
e perciò moderna, in quanto lascia cadere ogni giustificazione divina o
naturale della propria origine.
Il potere sovrano
affidato consensualmente dai sudditi a un terzo (un individuo o un’assemblea)
deve essere assoluto, cioè accentratore e irresistibile a qualsiasi
opposizione o intervento esterno, poiché deve mantenere la pace fra gli uomini,
i quali per natura sono tendenzialmente egoisti e incapaci di autoconservarsi
in una condizione di pace stabile e duratura.
Il mondo naturale
degli uomini è disgregato e in preda a costante competizione fra i singoli, i
quali nel perseguimento del loro utile vengono in contrasto con quello degli
altri, creando uno stato di guerra che impedisce una pacifica convivenza
necessaria all’autoconservazione. La filosofia morale, e cioè la capacità umana
di distinguere il bene dal male, e la capacità di accordarsi su ciò che è bene,
può venire in aiuto di questa condizione fortemente instabile, ma non può
risolvere definitivamente la naturale disposizione dell’uomo alla guerra
competitiva e all’egoismo. Solo una costruzione artificiale, quale è lo
Stato, può regolare i naturali rapporti umani. Se non ci fosse il ‘corpo
politico’ l’uomo vivrebbe in uno stato di natura in tutto simile a uno stato di
continuata guerra civile, nell’impossibilità di mantenersi in vita,
sebbene per natura gli uomini abbiano diritto all’autoconservazione e alla
realizzazione del proprio utile, e dunque siano naturalmente liberi e uguali.
Queste leggi di natura, definite dalla filosofia morale, possono
spingere l’uomo ad uscire da questa condizione naturale di guerra, ma non
possono regolare i rapporti umani, poiché mancano di un consenso universalmente
espresso e pattuito, solo dal quale può scaturire l’autorità del comando e
l’obbligatorietà dell’ubbidienza alle leggi.
L’origine artificiale
dello Stato attraverso il ‘patto’ ha ragioni antropologiche, che si fondano
essenzialmente sulla modalità di vita dell’uomo in una condizione di
naturalità, la quale però ha già caratteristiche civili e politiche, nella
misura in cui produce da sé il suo stesso superamento. Lo stato di natura si
presenta come una contraddizione irrisolta, nella misura in cui costringe
l’uomo a una guerra che gli impedisce materialmente di perseguire lo scopo
stesso del suo vivere naturale: il diritto ad autoconservarsi.
La nascita dello
Stato viene così descritta da Hobbes nel suo Leviatano:
"La sola via
per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini
dall’aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di
assicurarli in modo tale che con la propria industria e con i frutti della
terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro
poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa
ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una
volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di uomini a
sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere se
stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro
persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e
la sicurezza comuni, e sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di
lui, ed ogni loro giudizio al giudizio di lui. Questo è più del consenso o
della concordia; è un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona
fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni
uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me
stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che
tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile.
Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno STATO,
in latino CIVITAS. Questa è la generazione di quel grande LEVIATANO, o
piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi
dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti,
per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello stato, è tanta
la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che
con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace
interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste
l’essenza dello stato che (se si vuole definirlo) è una persona dei cui atti
ogni membro di una grande moltitudine, con patti reciproci, l’uno nei confronti
dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché essa possa usare la forza e
i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune
difesa.
Chi regge la parte di questa persona viene chiamato SOVRANO e si dice che ha il
potere sovrano; ogni altro è suo SUDDITO.
Si consegue questo potere sovrano in due modi. Il primo è dato dalla forza
naturale, come quando un uomo fa sì che i suoi figli si sottomettano insieme
con i loro figli al suo governo, in quanto è in grado di distruggerli se si
rifiutano o come quando sottomette con la guerra i suoi nemici alla sua
volontà, dando loro la vita a quella condizione. Si ha l’altro, quando gli
uomini si accordano fra di loro per sottomettersi a qualche uomo o a qualche
assemblea di uomini, volontariamente, confidando di essere così protetti contro
tutti gli altri. Quest’ultimo può essere chiamato uno stato politico o stato
per istituzione e il precedente uno stato per acquisizione."
[Hobbes,
Leviatano, a cura di G. Micheli,
"Si dice che
uno stato è istituito, quando una moltitudine di uomini si accorda e pattuisce,
ognuno con ogni altro, che qualunque sia l’uomo o l’assemblea di uomini cui
sarà dato, dalla maggior parte, il diritto a rappresentare la persona di loro
tutti (vale a dire, ad essere il loro rappresentante), ognuno, tanto chi ha
votato a favore quanto chi ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e i
giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini, alla stessa maniera che
se fossero propri, al fine di vivere in pace tra di loro e di esser protetti
contro gli altri uomini.
Da questa istituzione dello stato sono derivati tutti i diritti e le facoltà di
colui o di coloro ai quali è conferito il potere sovrano dal consenso del
popolo riunito in assemblea."
[Hobbes,
Leviatano, cit., p.169]
La persona
dello Stato è rappresentata dal sovrano (ossia dall’esercizio del potere
sovrano) che può anche non essere un monarca, ma un’assemblea di tutti nella
democrazia e di pochi nell’aristocrazia. La sovranità detiene in modo unitario
e indivisibile tutti i diritti e i poteri dello Stato: diritto di fare le leggi
e le norme obbligatorie per i singoli individui. Anche il diritto alla
proprietà privata per il singolo, che secondo Hobbes nasce con lo Stato non
essendo un diritto di natura, non esclude il potere sovrano, in quanto è la
fonte primaria del suo mantenimento. La giustizia, la guerra, l’amministrazione,
la decisione in campo religioso, etc., sono tutti ambiti in cui deve
intervenire l’autorità del sovrano, al fine di evitare un ritorno allo stato
di natura, ovvero una ricaduta del ‘corpo politico’ nella dannosa e
lacerante guerra civile. Sebbene l’individuo sia libero privatamente di
coltivare le sue convinzioni, anche la sua coscienza religiosa, lo Stato decide
in materia di fede e in tutto il resto per quel che concerne la vita pubblica.
L’obbligo di
obbedire al sovrano è incondizionato e semplice. Semplice perché l’obbedienza
al potere è richiesta al momento stesso del patto, prima che la sovranità si
dispieghi in leggi, norme particolari, etc. Incondizionato perché il sovrano
non partecipa al patto, non è un’istituzione condizionata a sua volta dal
patto, non c’è reciprocità di obblighi fra sudditi e sovrano. La sovranità sta
solo dalla parte della persona dello Stato, questo è ciò che il patto
stabilisce e che i sudditi esprimono volontariamente.
Dunque il patto di
unione fra sudditi si determina piuttosto come patto di dominazione o patto a
favore del sovrano. D’altra parte, l’obbligo unilaterale a cui i sudditi
sottostanno, è autorizzato dalla loro espressa volontà. Il potere assoluto
del sovrano non è perciò ‘arbitrario’, nella misura in cui è il risultato di un
atto politico (il patto) universalmente consaputo e liberamente voluto.
5.2. Locke: lo Stato
‘antiassolutista’ o ‘liberale’, ovvero la comunità politica
Nel Secondo Trattato sul Governo (1690), non diversamente da Hobbes, Locke traccia la sua teoria contrattualistica del potere politico e dello Stato. Ciò che separa Locke dall’assolutismo hobbesiano è l’introduzione esplicita e argomentata, nella ricostruzione della formazione moderna dello Stato, della categoria di individuo libero e uguale sia nello stato di natura che in quello di diritto. Il rapporto Stato/individuo viene modificato da Locke in senso ‘liberale’: la sovranità non appartiene unilateralmente alla persona dello Stato, ma