CHARLES LESLIE STEVENSON
A cura di Diego Fusaro
Charles Leslie Stevenson (1908-1979), statunitense, occupa un posto particolare all’interno della “filosofia del linguaggio”: autore di uno scritto intitolato Etica e linguaggio (1944), per molti aspetti vicino alla corrente pragmatista e alla semiotica di Charles Morris, Stevenson intende gli enunciati etici (ossia quelli in cui si dice che qualcosa è buono o cattivo) come espressioni di approvazione o di disapprovazione verso qualcosa o verso qualcuno; e, nella misura in cui l’approvazione e la disapprovazione sono atteggiamenti emotivi, la teoria di Stevenson è stata battezzata emotivismo etico.
Del resto, la tradizione neopositivistica precedente alla Seconda Guerra mondiale aveva liquidato le proposizioni etiche come prive di significato, in quanto non riconducibili né a tautologie né a enunciati empirici: l’emblema di questa condanna è lo scritto Linguaggio, verità e logica di Ayer; e la conseguenza di tale condanna è che le proposizioni etiche non sono altro che espressioni di sentimenti o emozioni. Ed è da questi presupposti che prende le mosse l’emotivismo etico di Stevenson: egli in prima battuta distingue tra proposizioni empiriche e tautologie, da una parte, e proposizioni etiche, dall’altro; mentre le prime hanno un senso compiuto e hanno un significato descrittivo, che suscita atti cognitivi in chi le ascolta, le seconde (quelle etiche) hanno anch’esse un significato, e più precisamente un significato emotivo: esse cioè suscitano emozioni e sentimenti in chi le ascolta. Sicché le proposizioni etiche, pur mancando di descrittività, hanno, nella loro prescrittività, un ben preciso significato, che è un significato emotivo. Per chiarire questa distinzione, Stevenson ricorre ad un esempio piuttosto efficace: se dico “quest’uomo è un nero”, formulo una proposizione avente valore descrittivo e, di conseguenza, cognitivo (infatti tale proposizione mi dà informazioni sulla realtà che ho di fronte). Se invece dico “questo è un negro”, formulo una proposizione emotiva che, più che descrivere la realtà, suscita un sentimento negativo nell’ascoltatore. Quando poi formulo una proposizione del tipo “fai così, perché è un’azione buona”, sto in qualche modo fornendo elementi descrittivi, che però finiscono per essere riassorbiti nell’emotività: infatti, quando dico “fai così, perché è un’azione buona”, più che descriverti la realtà, voglio persuaderti ad agire in un modo che reputo positivo. Stevenson insiste molto sull’impossibilità di cogenza descrittiva degli asserti morali: rispetto ad Ayer, egli accentua il soggettivismo di tali asserti, aprendo le porte ad una possibile deriva relativistica (derivante dalla mancanza di un’oggettività degli asserti morali che mi permetta di definire universalmente che cosa è bene).
Connettendo tra loro etica ed emozioni, si ha poi l’impressione che Stevenson neghi qualsiasi componente razionale all’agire dell’uomo. Il fatto che egli riconosca un senso alle proposizioni etiche segna già un indubitabile distacco rispetto ad Ayer che, come s’è detto, nega ogni senso agli asserti morali per via della loro mancanza di descrittività.