La filosofia stoica segue la distinzione, tipica dell'ellenismo, in logica, fisica ed etica, accentuando tuttavia la stretta interdipendenza tra le tre parti. La prima di esse viene per la prima volta concepita come una sezione integrante della filosofia, avente a proprio oggetto gli «esprimibili», cioè i significati delle parole e delle proposizioni che sono intermediari tra la voce e la realtà concreta significata. L'intento degli stoici consiste nel costruire un sistema in cui a partire da alcuni «ragionamenti indimostrabili» vengano ricavati tutti quelli «conclusivi», in cui cioè la verità delle premesse assicuri la verità della conclusione. Tale logica non è pensata per applicarsi a predicati universali (come in Aristotele), ma piuttosto ad eventi singolari: un classico ragionamento stoico è per esempio «Se è giorno allora c'è luce; ma è giorno; dunque c'è luce». Il punto di partenza per i ragionamenti conclusivi è assicurato dalla «rappresentazione comprensiva»: essa è la percezione di un evento singolare così evidente e dettagliata da non lasciare dubbi sulla sua corrispondenza con la realtà.
La fisica prende le mosse dall'individuazione di due princìpi nell'universo: una materia senza qualità e una causa che la pervade dandole forma e vita; questa causa viene identificata con la ragione universale (il «logos») e con il dio supremo. Anche il secondo principio è però corporeo (solo i corpi possono avere effetti su corpi), ed è interpretato come una mescolanza armonica di aria e fuoco, della quale le singole anime dei viventi sono una parte. Lo statuto di «incorporei» viene riservato solo ad alcune realtà che, pur non agendo, sono la condizione per l'esistenza e l'agire dei corpi: si tratta del tempo, dello spazio, del vuoto (concepito, diversamente dall'atomismo, come un infinito spazio vuoto situato solo all'infuori del mondo). La catena delle cause che lega ogni evento sostiene l'idea del fato (o con altro termine provvidenza), che guida l'universo attraverso infiniti cicli di nascita e dissoluzione.
Ogni essere vivente fin dalla nascita tende spontaneamente alla propria conservazione, scegliendo le cose consone alla propria natura: questo è il punto di partenza dell'etica stoica, che riconosce però all'uomo la capacità di approfondire questo livello istintivo grazie all'opera del logos. Questo è in grado di riconoscere l'ordine dell'universo e di perseguire quindi il bene supremo nel volontario adeguamento al fato. Vivere secondo natura significa in conclusione per l'uomo vivere secondo il logos, sopprimendo tutte le passioni (piacere e dolore, desiderio e paura) che turbano l'esercizio della ragione. Tutto ciò che non tocca questa razionalità è «indifferente»: vita e morte, salute e malattia, ricchezza e povertà; laddove possibile tuttavia le cose consone alla propria natura vengono preferite, e sono anzi il presupposto di quelle azioni «convenienti» che costituiscono la normale vita sociale degli uomini.
Agesandro, Atenodoro, Polidoro, Laocoonte e i suoi figli (2º sec. a.C.). Uno dei filoni dell'arte ellenistica persegue la raffigurazione del dolore umano, reso con enfasi e carica drammatica. Il dinamismo del gruppo del Laocoonte, la più celebre statua del periodo, rappresenta al meglio questa tendenza nella raffigurazione del sacerdote troiano morto per volere degli dèi per aver sconsigliato i concittadini dall'introdurre il cavallo nelle mura della città.
Allontanandosi dallo spirito dell'epica e della tragedia classica, in cui gli slanci emotivi erano parte integrante della personalità degli eroi, gli stoici rendono popolare un'immagine della passione come perturbamento della ragione umana. Soltando cancellando ogni moto «eccessivo» la parte direttiva dell'anima umana potrà condurre il comportamento ad un perfetto adeguamento alla razionalità del'universo.
Zenone. Cizio (Cipro) 332 -- Atene 261 a.C. Giovane mercante fenicio, giunse casualmente ad Atene nel 310. Qui conobbe il filosofo cinico Cratete, che gli trasmise costumi austeri e la concezione della razionalità come fondamento dell'etica. Forse già durante i suoi anni di discepolato compose la Repubblica, in cui veniva presentato il quadro ideale di una città di saggi. Dopo aver ascoltato anche filosofi megarici e accademici, intorno al 300 Zenone iniziò ad insegnare presso il «portico dipinto» (stoá poikíle). Da esso prese il nome la nuova scuola «stoica», che venne frequentata da molti giovani e godette di grande stima ad Atene. I titoli delle sue opere (una quindicina), delle quali sono conservate solo poche citazioni, accanto a temi etici testimoniano anche interessi di carattere fisico e letterario.
Cleante. Asso (Troade) 311 -- Atene 231 a.C. Soprattutto grazie alla fedeltà all'insegnamento del maestro Zenone ne fu il successore nella direzione della scuola stoica. Dei suoi numerosi scritti (ci è rimasto un catalogo di una cinquantina di opere) è conservato interamente solo un celebre Inno a Zeus, che testimonia tra l'altro la sua simpatia per la poesia come veicolo della filosofia.
Crisippo. Soli (Cilicia) 277 -- Atene 204 a.C. Distintosi presto per la sua intelligenza e indipendenza di giudizio mentre assisteva alle lezioni di Cleante, alla sua morte assunse la direzione della scuola. Buona parte della sua opera fu dedicata ad approfondire e difendere le dottrine stoiche dalle contestazioni dei filosofi accademici (di orientamento scettico) e ad integrarle con una raffinata logica, ispirata soprattutto dallo studio dei filosofi megarici. Tutto ciò giustifica la fama di secondo fondatore della scuola stoica che egli godette fin dall'antichità. Metodico e laborioso, fu autore di numerosissimi scritti (più di 700, di cui oltre 300 sulla logica), ammirati per la completezza ma criticati dagli avversari per la ripetività e la scarsa eleganza letteraria. Di essi rimangono solo frammenti e testimonianze.
Conformemente ad una tendenza tipica del periodo ellenistico, gli stoici concepirono la filosofia in modo fortemente sistematico, accettando la distinzione, già diffusa nell'Accademia di Platone, tra logica, fisica ed etica. Tale tendenza è tuttavia in loro accentuata dagli stretti legami che le diverse parti della filosofia hanno fra di loro: sono verosimili le testimonianze antiche che ci suggeriscono come le diverse discipline erano insegnate intrecciandone continuamente gli argomenti. Questa concezione sistematica è bene suggerita da alcune metafore:
[Gli stoici] rappresentano la filosofia come un animale, paragonando la parte logica alle ossa e ai nervi, l'etica ai muscoli, la fisica all'anima. O anche come un uovo: la logica è il guscio, dopo viene l'etica, la parte più interna è la fisica. O anche come un campo fertile, del quale la siepe di recinzione è la logica, il frutto è l'etica, il terreno o gli alberi la fisica. O infine ad una città ben costruita e amministrata secondo ragione (SVF II.38).
Meno corretto è invece attribuire allo stoicismo un interesse prevalente per i temi etici. Questo giudizio non è suffragato né dall'entità delle testimonianze, che ci mostrano interessi molto profondi in tutte e tre le parti della filosofia, né dalle affermazioni esplicite, che più di una volta pongono la fisica, intesa come contemplazione del mondo animato dal logos divino, come culmine dell'itinerario filosofico. Vero è piuttosto che, così come in tutta l'antichità, la filosofia stessa veniva intesa inscindibilmente come teoria e come pratica di vita (quest'ultimo aspetto veniva evidenziato anche dal legame con la scuola socratica cinica). Questa coerenza impressionò favorevolmente anche i contemporanei, come ci è attestato dal decreto con il quale gli Ateniesi riconobbero allo straniero Zenone pubblici onori:
Poiché Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, per molti anni è stato nella nostra città per far filosofia e per tutto il resto ha vissuto da uomo buono, e i giovani che andavano da lui, esortandoli alla virtù e alla moderazione, li spingeva alle cose migliori dopo aver offerto a tutti la propria vita come modello; con il favore del Fato ha decretato il popolo di dar lode a colui che era coerente con i discorsi che faceva con gli altri, a Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, e attribuirgli una corona d'oro secondo la legge, in riconoscimento della virtù e della moderazione, e di costruirgli anche un sepolcro a spese pubbliche nel Ceramico (SVF I.7).
Un ruolo importante è giocato anche dalla totale separazione da precisi progetti politici e dalla tendenza ad astrarre dalle condizioni concrete delle persone: ciò rendeva l'ideale del sapiente stoico almeno in linea di principio accessibile non ad una élite ma a tutti (anche a donne e schiavi, ci precisano le fonti antiche [SVF III.253]).
L'inno a Zeus composto da Cleante, che ebbe una grande notorietà nel mondo antico (anche al di fuori dei confini della scuola) è l'unico scritto stoico giuntoci per intero. Esso, benché in un linguaggio attento più all'effetto poetico che all'esattezza, percorre nel loro intreccio tutti i temi fondamentali della fisica e dell'etica stoica, e può dunque essere citato per intero a mo' di introduzione:
O più nobile degli immortali, dai molti nomi, sempre onnipotente,
Zeus, guida della natura, che governi tutte le cose con la legge,
salve! È un dovere per tutti i mortali rivolgersi a te.
Di te infatti siamo stirpe, avendo in sorte un'immagine di dio,
soli tra tutti i mortali che vivono e si muovono sulla terra.
A te dedico il mio inno e canterò sempre la tua forza.
A te tutto questo cosmo, che ruota attorno alla terra,
obbedisce, dovunque lo conduci, e spontaneamente ti si sottomette:
nelle mani invincibili hai uno strumento tale:
il fulmine a doppio taglio, fiammeggiante, sempre vivo,
e sotto il suo colpo tutte le cose della natura si compiono.
Con esso tu regoli il logos comune che per tutte le cose
si aggira, mescolandosi alle luci grandi e alle piccole.
Per esso tu sei diventato un così supremo re di ogni cosa
e nessuna azione avviene sulla terra senza te, o divino,
né nell'etereo cielo divino né sul mare,
tranne ciò che compiono i malvagi con le loro follie.
Ma tu anche gli eccessi sai ridurli a misura
e ordinare le cose disordinate e le non amiche ti sono amiche.
Così hai armonizzato in unità tutte le cose buone alle cattive,
cosicché il logos di tutto, che sempre è, diventasse uno.
Ma i mortali malvagi lo abbandonano fuggendo,
miseri!, e desiderando di acquisire sempre beni
non osservano né ascoltano la legge comune del dio,
obbedendo con intelletto alla quale avrebbero una vita buona.
Ma essi stolti hanno impulso chi verso un male chi verso un altro
gli uni per la fame avendo contrastate preoccupazioni,
gli altri per il guadagno stravolti senza alcun ordine,
altri abbandonandosi alle opere piacevoli del corpo.
Ma si scontrano nei mali, e si trascinano di qua e di là
ottenendo che avvenga l'esatto opposto di queste cose.
Ma tu, Zeus datore dei doni, padrone delle nubi e del fulmine splendente,
strappa gli uomini dalla ignoranza trovinosa,
padre, cacciala dall'anima e fa' che si ottenga
la conoscenza, fidando della quale tu governi tutto con giustizia,
affinché, essendo onorati, con onore ti ricambiamo,
inneggiando continuamente alle tue opere, come è giusto
per chi è mortale, perché non vi è merito maggiore né fra i mortali
né fra gli déi che inneggiare con giustizia alla legge comune ed eterna (SVF I.537).
Integrazione: Nella storia dello stoicismo si distinguono comunemente tre periodi: oltre allo stoicismo antico, legato ai nomi del fondatore della scuola e dei suoi due primi successori (Zenone di Cizio, Cleante di Asso, Crisippo di Soli), lo stoicismo medio, che ebbe come maggiori rappresentanti Panezio di Rodi (185-109 a.C.) e Posidonio di Apamea (135-51 a.C.), e infine lo stoicismo nuovo (per lo più concentrato sui temi etici), impersonato da Seneca (4 a.C-65 d.C.), Musonio Rufo (circa 30-95), Epitteto (55-135), Marco Aurelio (121-180).
Malgrado il grande successo goduto dal pensiero stoico nell'antichità, la sua esatta ricostruzione presenta notevoli problemi. Bene attestato, con le opere pressoché complete, è lo stoicismo nuovo, ma per quello anteriore, più ricco e articolato, possediamo solo testimonianze: numerose sì, ma spesso poco esatte, ripetitive e provenienti da fonti avverse. Esse inoltre spesso non distinguono gli apporti dei diversi stoici e permettono quindi solo congetturalmente di ricostruirne le singole personalità. In tale situazione, tracciare un quadro generale dello stoicismo antico equivale a privilegiare il pensiero di Crisippo, al quale spesso ci si riferiva quando si citava un'idea genericamente «stoica». Fine dell'integrazione
La logica stoica comprende sia una riflessione molto dettagliata sulla forma dei ragionamenti, sia una teoria generale della conoscenza, legata strettamente alla concezione dell'anima. Il primo aspetto venne sviluppato soltanto a partire da Crisippo, il quale riprese e rielaborò temi originariamente studiati dalla scuola megarica (in particolare Eubulide di Mileto, Diodoro Crono e Filone di Megara). Senza dubbio essi mostrano un'analogia con le ricerche dell'Organon di Aristotele: in entrambi i casi si tratta infatti di una logica «formale», che prende a proprio oggetto la sola forma del pensiero a prescindere dai suoi contenuti. Ciononostante la dottrina stoica, per quanto la possiamo ricostruire a partire dalle testimonianze frammentarie, costituisce una forma nuova e originale, il cui valore solo negli ultimi decenni è stato riscoperto dopo secoli di disinteresse o fraintendimento.
La prima innovazione degli stoici consiste anzitutto nel considerare la logica una vera e propria parte integrante della filosofia, anziché semplicemente un suo «strumento» (órganon), come voleva Aristotele (o perlomeno i suoi discepoli). La filosofia infatti si serve sì della logica, ma questa a sua volta non fa parte di nessuna altra scienza: dunque è una parte della filosofia. Tale concezione viene sostenuta però soprattutto dall'individuazione di una peculiare materia della logica, che è costituita dai «ragionamenti»:
La ricerca logica non ha né la stessa materia né lo stesso fine [delle altre parti della filosofia]: la sua materia sono i ragionamenti (lógoi), il fine è la conoscenza dei metodi dimostrativi, e tutte le altre indagini concorrono a sviluppare una dimostrazione scientifica. Dunque non può essere messa sotto nessuna delle due altre parti della filosofia. Infatti, se anche la logica indaga sulle cose umane e divine (ce ne serviamo infatti quando discutiamo di cose umane o divine), non si occupa esclusivamente di quelle umane (come le sezioni della filosofia pratica [etica]), né esclusivamente di quelle divine (come le sezioni di quella teoretica [fisica]). Dunque non è una semplice sezione della filosofia, ma la sua terza parte (SVF II.49 = FDS 28).
Questo giustifica anche il termine di «logica» (logiké), che venne messo in uso proprio dagli stoici e significa evidentemente «scienza del logos». Questa concezione viene precisato tramite una importante distinzione che ad Aristotele era in parte ignota:
Gli stoici dicono che questi tre elementi sono connessi fra di loro: il significato (semainómenon), il significante (semáinon) e l'evento (tynchánon). Il significante è il suono stesso, ad esempio «Dione»; il significato è l'entità manifestata e che apprendiamo in quanto coesiste con il nostro pensiero, e che gli stranieri non capiscono, sebbene odano il suono; l'evento è ciò che esiste all'esterno, ad esempio Dione stesso. Di questi, due sono corporei, e cioè il suono e l'evento, e una è incorporea, e cioè l'entità significata, l'esprimibile (lektón), che [solo] è vero o falso (SVF II.166 = FDS 67).
L'oggetto peculiare della logica è costituito per gli stoici solo dagli esprimibili (lektá). La distinzione stabilita tra «eventi» ed «esprimibili» corrisponde sostanzialmente a quella moderna tra «estensione» e «intensione». Per mostrarne la differenza, prendiamo come esempio la proposizione «Gli uomini sono mortali». Da un punto di vista estensionale, essa viene interpretata così: «L'insieme degli uomini è incluso nell'insieme dei mortali». Da un punto di vista intensionale viene invece spiegata così: «Il concetto di uomo comprende il concetto di mortale». Gli stoici, ritenendo che la proposizione in sé non abbia alcun corrispondente «reale» (al contrario dei suoi termini), ma sia solo un lektón, scelsero senza incertezze per la loro logica un'interpretazione intensionale.
Integrazione: Nella testimonianza appena citata va osservato il termine «evento» (tynchánon): esso rappresenta il primo caso della tendenza tipica dello stoicismo (e spesso fatta oggetto di ironia da parte dei contemporanei) a coniare nuovi termini. Il motivo di questo conio (come degli altri) è però significativo: «chiamano le cose «eventi», perché il loro fine è quello di avvenire» (SVF II.236 = FDS 681). Il senso esatto di questa definizione si vedrà all'interno della fisica, e costituisce uno dei numerosi casi di stretto legame tra le varie parti della filosofia stoica. Fine dell'integrazione
Dove la logica stoica supera nettamente l'analitica aristotelica, creando praticamente un campo nuovo, è nello studio della proposizione (chiamata axíoma). La sua caratteristica fondamentale è quella di poter essere vera o falsa, ovvero di poter «essere valutata» (axióusthai). Tale definizione non soltanto costituisce una premessa indispensabile per la logica, ma non manca (come vedremo) di ripercussioni sulla concezione della realtà. Esse diventano importanti soprattutto in riferimento al problema dei «futuri contingenti», riguardo ai quali gli stoici sostengono un'opinione difforme da quella di Aristotele:
Le proposizioni contraddittorie relative al futuro gli stoici le valutano esattamente come le altre. Come infatti sono quelle relative ad eventi presenti e passati, così affermano che sono anche le future, esse stesse e le loro parti. O è vero il «sarà», o il «non sarà», se è necessario che sia o vera o falsa: le cose future sono determinate infatti nello stesso modo. E se domani ci sarà una battaglia navale, è vero dire che ci sarà; se non ci sarà, è falso dire che ci sarà. O ci sarà o non ci sarà, dunque una delle due affermazioni o è vera o è falsa (SVF II.198 = FDS 881).
Tra le proposizioni, una prima distinzione fondamentale è tra semplici e complesse. Semplice è la proposizione che contiene solo un predicato (per esempio «è giorno»), complessa è quella costituita dal collegamento di più proposizioni tramite connettivi logici (per esempio «è giorno e piove»). Ovviamente, i connettivi possono unire proposizioni a loro volta complesse. Si osservi che la negazione di una proposizione semplice (per esempio «non è giorno»), che oggi viene classificata tra le proposizioni complesse, era invece considerata semplice dagli stoici.
Ora, la loro intuizione fondamentale è che i connettivi logici (non, e, o, se ... allora, ecc.) vanno considerati operatori, simili, per esempio, ai comuni operatori aritmetici (+, -, ×, /). Mentre però questi ultimi operano su valori numerici, i connettivi logici operano sui valori di verità che le proposizioni possiedono in quanto lektá. Il caso più semplice è quello della negazione logica: quando essa è applicata ad una proposizione vera genera una proposizione falsa, e viceversa. Riguardo ai connettivi che collegano due proposizioni bisognerà considerare quattro casi: due proposizioni entrambe vere, due entrambe false, la prima vera e la seconda falsa, e viceversa. Definire una connessione logica equivale così a scrivere la sua «tavola di verità», cioè precisare quale sia il valore di verità della proposizione complessa in corrispondenza dei quattro casi ora detti. Per esempio, una proposizione congiuntiva («è giorno e piove») sarà complessivamente vera solo quando entrambe le proposizioni congiunte sono vere. In questo modo gli stoici vennero definite diverse connessioni. Eccone le più importanti, delle quali diamo a sinistra il nome e a destra, sulla stessa riga, la tavola di verità:
1º caso | 2º caso | 3º caso | 4º caso | |
---|---|---|---|---|
p | vera | vera | falsa | falsa |
q | vera | falsa | vera | falsa |
congiuntiva (p e q) | vera | falsa | falsa | falsa |
disgiuntiva inclusiva (p o q) | vera | vera | vera | falsa |
disgiuntiva esclusiva (o solo p o solo q) | falsa | vera | vera | falsa |
condizionale (se p allora q) | vera | falsa | vera | vera |
condizionale doppia (solo se p allora q) | vera | falsa | falsa | vera |
Integrazione: Un paio di osservazioni. La prima riguarda le due differenti disgiunzioni, che né in greco né in italiano sono chiaramente distinte nel linguaggio naturale. Quella esclusiva esclude, appunto, la verità di entrambe le proposizioni disgiunte (per esempio: «partirò lunedì o martedì», ma non i due giorni contemporaneamente); quella inclusiva invece no (per esempio: «se c'è pioggia o neve bisogna guidare con prudenza», e anche se ci sono le due cose contemporaneamente). La distinzione tra le due è facile in latino, dove l'esclusiva s'indica con aut e l'inclusiva con vel. Come si vedrà, gli stoici, contrariamente all'uso moderno, usavano per lo più la disgiunzione esclusiva.
Una seconda osservazione riguarda la proposizione condizionale (o implicazione). La tavola definisce la cosiddetta «implicazione materiale» o «filoniana», dal nome del logico megarico Filone. Essa risulta falsa solo nel caso che ad un antecedente vero segua un conseguente falso, e ciò indipendentemente dal contenuto delle proposizioni connesse. Per esempio, tutte e tre queste proposizioni risultano vere: «se 2 è pari, allora è un numero primo», «se la luna è verde, allora il cielo è azzurro», «se Aristotele è cinese, allora Platone è turco». Tale uso è molto più ampio di quello del linguaggio naturale, in cui invece una proposizione condizionale viene considerata vera solo quando in più c'è un nesso reale tra le due proposizioni (come per esempio nei sillogismi aristotelici). Questa è detta «implicazione formale», e di essa due varianti furono definite da Diodoro Crono e da Crisippo. Il problema era molto dibattuto, al punto che Sesto Empirico (2º sec. d.C.) riporta la voce secondo cui «anche i corvi gracchiano sui tetti su quali implicazioni siano corrette» (Adv. Math., I.309). La discussione continuerà nel Medioevo, quando Paolo Veneto (1368-1429) elencherà ben dieci significati differenti dell'implicazione, e arriverà fino ai giorni nostri. Fine dell'integrazione
Con la definizione dei connettivi logici viene così iniziata quella che oggi è chiamata logica proposizionale e che in età moderna venne rifondata da diversi logici, tra i quali spicca Gottlob Frege. In essa viene considerato solo il valore di verità delle proposizioni, e non la loro struttura interna (come avviene nella logica dei predicati, di cui la sillogistica aristotelica costituisce una parte). Tramite le tavole è possibile «calcolare» una proposizione comunque complessa, ovviamente una volta che sia noto il valore di verità delle proposizioni semplici.
Questa chiara nozione permise di formulare una distinzione che ad Aristotele era sfuggita: quella tra ragionamenti conclusivi e proposizioni vere (in linguaggio moderno: tra deduzioni corrette e leggi logiche):
Un ragionamento (lógos) è un sistema costituito da premesse (lémmata) e da una conclusione (epiphorá). Le premesse sono le proposizioni accettate per la dimostrazione della conclusione, la conclusione è la proposizione dimostrata a partire dalle premesse. Prendiamo ad esempio il seguente ragionamento:
Se è giorno allora c'è luce;
ma è giorno;
dunque c'è luce.
In esso c'è luce è la conclusione, le altre proposizioni sono le premesse (FDS 1038).
Alcuni ragionamenti sono conclusivi (synaktikói), altri non conclusivi. Sono conclusivi quando la proposizione condizionale che inizia con la congiunzione delle premesse del discorso e finisce con la sua conclusione è vera. Ad esempio, il ragionamento citato è conclusivo, perché alla congiunzione delle premesse (è giorno e se è giorno allora c'è luce) segue c'è luce, in questa proposizione condizionale: se è giorno e se è giorno allora c'è luce, allora c'è luce. Non conclusivi sono i ragionamenti che non sono fatti così (FDS 1058).
Più esplicitamente, un ragionamento conclusivo corrisponde ad una proposizione condizionale sempre vera, qualunque sia il valore di verità delle proposizioni semplici che la compongono. In generale, oggi viene chiamata legge logica una proposizione complessa (anche non condizionale) che è vera indipendentemente dai valori di verità delle proposizioni semplici. Per esempio, «p o non p» è una legge logica. Più chiara che in Aristotele è anche la distinzione tra ragionamenti conclusivi e conclusioni vere:
Fra i ragionamenti conclusivi alcuni sono veri [nella conclusione], altri falsi. Sono veri quando non solo la proposizione condizionale costituita dalla congiunzione delle premesse e dalla conclusione è vera (come già detto), ma è vera anche la congiunzione delle premesse, cioè l'antecedente della proposizione condizionale. E la congiunzione vera è quella che ha tutti gli elementi veri (FDS 1064).
Come Aristotele aveva costruito la sua sillogistica a partire dai modi della prima figura, ritenuti evidenti, così anche gli stoici stabilirono cinque ragionamenti «indimostrabili». Li enumeriamo, indicando con p e q due generiche proposizioni, mentre tra parentesi riportiamo i nomi che saranno assegnati nel Medioevo e che sono ancor oggi talvolta usati:
- Se p allora q; ma p; dunque q (modus ponendo ponens).
- Se p allora q; ma non q; dunque non p (modus tollendo tollens).
- Non (p e q); ma p; dunque non q (modus ponendo tollens).
- O solo p o solo q; ma p; dunque non q (modus ponendo tollens).
- O solo p o solo q; ma non p; dunque q (modus tollendo ponens) (SVF II.241 = FDS 1036).
Le idee sul ruolo di questi princìpi erano molto chiare:
Gli indimostrabili sono quelli di cui dicono che non hanno bisogno di dimostrazione per essere sostenuti, ma piuttosto servono a dimostrare che gli altri ragionamenti sono conclusivi. ... Essi ne immaginano molti, ma ne pongono particolarmente cinque, a cui pare che si possano ricondurre tutti gli altri (FDS 1096).
Integrazione: Non sapendo quali regole venissero ammesse per dedurre nuovi «ragionamenti» (a causa della frammentarietà delle fonti), non possiamo giudicare se venne effettivamente costruita una logica proposizionale completa, in cui cioè tutte le proposizioni vere siano dimostrabili. Pare certo però che venne almeno chiaramente intuìto il concetto di completezza di un sistema logico. Esso svolgerà un ruolo fondamentale nella logica contemporanea, quando Kurt Gödel (1906-1978) riuscirà sorprendentemente a dimostrare che nessun sistema logico che raggiunga una certa potenza espressiva può essere completo.
Ci si potrebbe domandare quale sia l'utilità di stabilire indimostrabili e regole di deduzione se -- come già detto -- l'uso delle tavole è sufficiente per accertare la verità o falsità di qualsiasi proposizione. In realtà, le tavole di verità diventano inutilizzabili appena si esce dal dominio della logica proposizionale e si entra in quello della logica dei termini. Per esempio, i sillogismi di Aristotele non potrebbero essere dimostrati così. Ciò significa che a partire da un certo livello di complessità non esiste più nessun modo puramente meccanico per dimostrare teoremi. Fine dell'integrazione
Così come nell'analitica di Aristotele, anche nella logica stoica si presenta il problema del criterio di verità da cui poter prendere le mosse: un ragionamento corretto mi assicura infatti solo che a premesse vere seguiranno conclusioni vere. La risposta stoica a questo problema in realtà risale a Zenone e dunque precede l'elaborazione formale della logica da parte di Crisippo. In essa viene anzitutto respinta la possibilità di individuare il criterio della verità in un «universale», cosa che, seppure in forme molto diverse, era stata fatta sia da Platone sia da Aristotele:
I concetti non sono né qualcosa né qualità, ma immagini (phantásmata) dell'anima che sono quasi-qualcosa e quasi-qualità: queste dagli antichi venivano chiamate «idee». Infatti le idee sono da annoverare tra i concetti, per esempio di uomini, cavalli, e più in generale di di tutti gli animali e le altre cose delle quali diciamo che ci sono idee. I filosofi stoici affermano che sono prive di esistenza: dei concetti partecipiamo, i termini (i cosiddetti «appellativi») li troviamo (SVF I.65 = FDS 316).
Tale concezione è coerente sia con lo spirito fondamentale della logica stoica che, come abbiamo visto, ha ad oggetto gli eventi (singolari) espressi dalle proposizioni, sia con la concezione fisica che, come vedremo, riconosce realtà in senso pieno solo alle cose corporee. Il criterio di verità non andrà dunque cercato in qualche caratteristica dei concetti, ma piuttosto delle percezioni che ci fanno conoscere eventi singolari. Indicando con «rappresentazione» (phantasía) l'impronta esercitata nell'anima tramite i sensi da un evento esterno, gli stoici denominarono «comprensiva» (kataleptiké) quella rappresentazione che porta così evidenti i segni della corrispondenza con la realtà da rendere impossibile rifiutarle l'«assenso» (synkatáthesis), cioè non riconoscerla come vera:
Delle rappresentazioni vere alcune sono comprensive, altre no. Non comprensive sono quelle che sopraggiungono ad alcuni a seconda della passione che subiscono. Ad esempio molti, delirando o in preda alla malinconia, hanno una rappresentazione vera che però non è comprensiva: essa proviene dall'esterno e così casualmente, di modo che essi spesso non riescono a convalidarla né a darle il loro assenso. La rappresentazione comprensiva, invece, è quella che si ricalca e si imprime a partire da qualcosa di esistente e in conformità con l'esistente, e non sarebbe com'è se provenisse da qualcosa che non esiste.
Affermando che tale rappresentazione è sommamente capace di riprodurre gli oggetti e che ne ricalca perfettamente tutte le proprietà, affermano che possiede ciascuna di queste caratteristiche. La prima è di derivare da qualcosa di esistente ... , la seconda di non solo derivare, ma anche corrispondere all'esistente stesso ... e inoltre di ricalcare e di imprimere, affinché restituisca perfettamente le proprietà degli oggetti rappresentati (SVF II.65 = FDS 273, 333).
Integrazione: Il criterio introdotto degli stoici facilmente poteva essere accusato di essere circolare e inutile: se la rappresentazione comprensiva si distingue dalle altre perché corrisponde con la realtà, come usarla come criterio per riconoscere appunto la realtà? Il senso di questo criterio si capisce però meglio quando viene visto sullo sfondo della polemica contro Platone e Aristotele: in essi la questione acuta della teoria della conoscenza consiste in come raggiungere l'universale a partire da un'esperienza che è sempre particolare. Affermare come punto di partenza la rappresentazione comprensiva significa eliminare questo problema sostenendo il primato del singolare. Fine dell'integrazione
La fisica degli stoici, pur riprendendo numerosi elementi dalle filosofie precedenti, li riformula in un insieme notevolmente originale e coerente. Caratteristico è il loro richiamo privilegiato ad Eraclito (nei cataloghi delle opere risultano titoli dedicati esclusivamente alla sua interpretazione); ma è difficile, data la conoscenza molto lacunosa che ne abbiamo, stabilire quando si tratti di effettive riprese e quando invece le sue parole siano state forzate ad esprimere idee che gli erano di fatto estranee. La struttura complessiva della realtà viene argomentata in questo modo:
Essendo la sostanza (ousía) delle cose che sono, affermano, incapace di darsi da sé movimento e figura, ha bisogno di essere mossa e configurata da una qualche causa. E per questo, come avendo osservato una stupenda statua di bronzo desideriamo saperne l'artefice perché la materia di per sé è incapace a muoversi, così anche guardando la materia dell'universo che si muove e si trova ad essere in forma e in ordine, è ragionevole che indaghiamo la causa che la muove e la conformi in molte specie. E questa è plausibile che non sia nient'altro che una potenza che si diffonde per essa, come l'anima si diffonde in noi. [...] Questa potenza o moverà dall'eternità o da un certo tempo: ma da un certo tempo non potrà muovere: infatti non ci sarà una qualche causa del fatto che essa muova da un certo tempo. Dunque la potenza che muove la materia è eterna e la conduce ordinatamente alle nascite e alle trasformazioni: cosicché sarebbe dio (SVF II.311).
L'argomentazione ha uno schema di tipo aristotelico (si nota l'uso della coppia di concetti «materia» e «forma»), ma essa viene posta a servizio di una concezione molto diversa dell'universo: ciò che appariva ovvio ad Aristotele, e cioè che la realtà fosse composta di esistenze distinte ognuna con la sua particolare essenza, viene negato in favore di una concezione in cui le singole cose non sono altro che trasformazioni di un'unica materia, «animata» dalla presenza di una potenza identificata con il dio. Ciò è connesso anche all'attenzione accordata in logica agli «eventi»: la singola cosa è qualcosa che «accade» all'universo.
Integrazione: La particolare concezione del divino pone gli stoici in una linea tendenzialmente monoteistica, e l'unico dio che permea l'universo viene identificato con lo Zeus della tradizione greca. Le interpretazioni degli altri dèi sono oscillanti: a volte vengono ritenuti semplicemente nomi diversi per indicare l'unico dio nei suoi diversi aspetti, a volte esseri spirituali di rango inferiore e non dissimili dalle anime degli uomini sapienti. Il carattere cosmico del dio sommo non significa comunque una sua impersonalità: a lui, come vedremo ora, viene attribuito pensiero e coscienza esattamente come agli uomini. Fine dell'integrazione
La funzione del principio motore dell'universo permette agli stoici di introdurre, per la prima volta con un ruolo così centrale malgrado il richiamo ad Eraclito, la nozione di logos nel senso di «ragione universale»:
Essi ritengono che i princìpi di tutte le cose siano due: quello attivo e quello passivo. Quello passivo è la sostanza senza qualità (ápoios ousía), la materia; quello attivo è il logos che è in essa, il dio. Questo infatti essendo eterno produce le cose singole diffondendosi in tutta la materia (SVF II.300).
Il parallelo tra logos dell'universo e anima umana è ben più di una semplice analogia. Riecheggiando le considerazioni di Platone sull'«anima del mondo», gli stoici affermano che l'intero universo nel suo complesso dev'essere considerato un essere vivente, la cui anima si identifica con il dio:
Crisippo nel primo libro Sulla provvidenza ... afferma che il cosmo è un animale dotato di logos, anima e intelletto: essendo un animale, è una sostanza dotata di anima e della capacità di sentire. Infatti: l'animale è migliore del non animale; ma nulla è migliore del cosmo; dunque il cosmo è un animale. E ha un'anima, come è evidente dalla nostra anima che è una particella che proviene da esso (SVF II.633).
La distinzione tra «corpo» e «anima» dell'universo non coincide però con quella platonica tra «materiale» e «immateriale». Prendendo spunto proprio da un passo platonico in cui «ciò che è» viene definito come ciò che è capace di agire o di patire, cioè di esercitare o di ricevere un effetto (Sofista, 247 d8-e4 [greco]), gli stoici conclusero che solo ciò che è corporeo gode di queste qualità: l'anima è quindi «corporea» tanto quanto il corpo. Un ulteriore argomento veniva tratto dalla definizione della morte: «La morte è separazione dell'anima dal corpo; ma nulla di incorporeo si separa da un corpo, perché l'incorporeo neppure tocca il corpo; ma l'anima sia tocca sia si separa dal corpo; dunque l'anima è corpo» (SVF II.790). Dopo aver negato in logica l'esistenza delle idee, in fisica viene così confutato anche il secondo tratto più caratteristico del pensiero di Platone, l'incorporeità dell'anima.
Una importante conseguenza di questa concezione consiste nella necessità di ammettere la compenetrazione dei corpi (míxis o krásis): in nessun altro modo infatti il logos (ovvero il dio) potrebbe diffondersi nella materia passiva e darle movimento e forma. Mentre affermavano la materialità del logos, gli stoici tentarono anche di tradurre tale affermazione nella tradizionale dottrina di Empedocle dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), da loro accettata. Le testimonianze in proposito mostrano un'evoluzione: alcune, che si riferiscono per lo più a Cleante ed evidentemente sviluppano alcuni suggerimenti di Eraclito, identificano il logos senz'altro con il fuoco, concepito come una sorta di «seme» di tutta la realtà; quelle riferentesi a Crisippo individuano invece il logos nella mescolanza di fuoco e aria (detta «spirito», pnéuma, e pensata come il respiro vitale dell'universo); questi ultimi sarebbero dunque i due elementi «attivi»:
Affermano che la terra e l'acqua non tengono insieme né sé stesse né gli altri elementi, ma si mantengono unite per il fatto che partecipano della potenza dello spirito infuocato. L'aria e il fuoco invece sono coesi grazie alla loro tensione, e mescolandosi a quegli altri due dànno loro tensione, permanenza e sostanzialità (SVF II.444).
Integrazione: In tale testimonianza compare anche l'importante concetto di «tensione» (tónos). Essa è qui presentata come la caratteristica intrinseca dello spirito, che comunicandosi alle cose dell'universo permette loro di non sfaldarsi e distruggersi. Ma, in linea con l'interpretazione corporea di tutta la realtà, la «tensione» verrà usata anche per interpretare caratteristiche di tipo intellettuale e morale. Fine dell'integrazione
Dopo aver identificato «ciò che è» con il corporeo (per sottolineare tale forma primaria di essere veniva usato il termine «esistenza» [hýparxis]), gli stoici riconobbero tuttavia una forma di realtà anche a cose incorporee. Per raccogliere sotto un'unica determinazione cose che «sono» in senso stretto ed incorporei introdussero come genere sommo il «qualcosa» (tí): tutto è «qualcosa», anche se non tutto «è». Una realtà incorporea è stata già incontrata nella logica: si tratta dell'«esprimibile», cioè del senso di un termine o di una proposizione. Altri tre incorporei hanno invece un legame più diretto con la realtà fisica:
[Gli stoici] affermano che dei «qualcosa» gli uni sono corporei, gli altri incorporei, e degli incorporei si contano quattro specie: l'esprimibile, il vuoto, il luogo e il tempo. Da ciò è evidente che suppongono il tempo incorporeo, e ciononostante lo ritengono qualcosa che può essere concepito per sé stesso (SVF II.331).
Tempo, luogo e vuoto sono evidentemente tre realtà che non possono né agire né patire, quindi non hanno «esistenza»; tuttavia sono condizioni necessarie per l'esistenza e per l'azione dei corpi: dunque si può dire che esse hanno «sussistenza» (hypóstasis). Più in particolare, il tempo è definito come «intervallo del movimento del cosmo» (SVF II.509), il luogo come «ciò che è occupato completamente da una cosa che è e la eguaglia in grandezza», il vuoto come «ciò che può essere occupato da una cosa che è, ma non è occupato» (SVF II.505).
Le considerazioni più interessanti riguardano il vuoto: esso va concepito come una infinita estensione che si trova all'esterno del cosmo. La sua sussistenza veniva argomentata in questo modo: «Ammettiamo che un uomo che si trova al confine del cielo tenda una mano in alto: se la tende, c'è qualcosa fuori del cielo verso cui tenderla, se non può tenderla, anche in questo caso ci sarà fuori qualcosa che ne impedisce la distensione» (SVF II.535). La realtà del vuoto è insomma necessaria per concepire la possibilità di espansione o contrazione del cosmo, che (come si vedrà) svolge un ruolo importante nella fisica stoica. Per quanto riguarda invece l'interno del cosmo, gli stoici, contrariamente ad Epicuro (e d'accordo con Aristotele), negano la possibilità del vuoto:
Per le sue caratteristiche, il vuoto non può assolutamente essere nel cosmo, e ciò è evidente dai fenomeni. Se infatti la sostanza di tutte le cose non fosse nell'universo omogenea, neppure potrebbe ad opera della natura tenere assieme e governare il cosmo, né ci sarebbe una simpatia reciproca delle parti. E se non fosse tenuto assieme da una sola tensione e lo spirito non fosse omogeneo nell'universo, neppure ci sarebbe possibile vedere o ascoltare: infatti se ci fossero dei vuoti frapposti sarebbero impedite le sensazioni da parte nostra (SVF II.546).
Il concetto di «simpatia» (sympátheia) qui introdotto è una delle conseguenze della concezione unitaria dell'universo: se esso è un unico essere vivente, ogni parte deve essere in connessione con le altre e ogni minimo cambiamento deve avere ripercussioni sul tutto (in questo modo risulta anche respinta la tesi di Epicuro sulla pluralità dei mondi). Negare la presenza del vuoto nel cosmo, intenderlo quindi come una massa di materia fluida senza interstizi, significa evidentemente respingere anche l'atomismo; ma questo viene rifiutato, con argomentazioni simili a quelle di Aristotele, pure nella sua pretesa di individuare «parti ultime» della realtà:
Coloro che ci chiedono se abbiamo parti, e quante, e di quali e quante parti esse siano composte, userebbero una distinzione, da una parte ponendo l'organizzazione complessiva, giacché siamo composti di testa e tronco e arti: questo infatti sarebbe tutto ciò che viene cercato e chiesto. Ma se conducessero la domanda fino alle «parti ultime», nulla di siffatto deve essere supposto, ma bisogna dire che non siano composti di qualcosa, e similmente, non da un certo numero, sia esso infinito o finito (SVF II.483).
La concezione del logos come anima del mondo da una parte e l'idea di un'assoluta unità dell'universo dall'altra, sono a fondamento della concezione del fato (heimarméne) tipica dello stoicismo. Secondo essa tutto ciò che accade è indissolubilmente determinato dalla «catena delle cause» (SVF II.945): contro l'idea epicurea della «deviazione» degli atomi, nulla avviene a caso e senza una causa determinante. Tale idea del fato ha tuttavia anche una stretta connessione con la concezione logica della «proposizione»:
Se c'è un movimento senza causa, non ogni proposizione (che i dialettici chiamano axíoma) sarà o vera o falsa (infatti ciò che non avrà cause efficienti non sarà né vero né falso). Ma ogni proposizione è o vera o falsa. Dunque nessun movimento è senza causa. E se le cose stanno così, tutte le cose che avvengono, avvengono per cause antecedenti. E se le cose stanno così, tutte le cose avvengono per il fato. Dunque qualsiasi cosa avviene, avviene per il fato (SVF II.952).
Insomma: il fatto che il mondo sia descrivibile per mezzo di proposizioni, la cui caratteristica essenziale risiede nell'essere o vere o false, implica che ogni evento sia determinato. Tale ragionamento ricava evidentemente la sua forza in particolare dalla soluzione stoica al problema del valore di verità delle proposizioni al futuro. Legare il concetto del fato all'opera del logos cosmico significa però anche liberarlo dal carattere cieco e irrazionale che gli veniva spesso associato nella cultura greca: il fato di cui parlano gli stoici è piuttosto una legge intelligente, che orienta nel modo migliore possibile le vicende del mondo. Esso dunque si identifica con la «provvidenza» (prónoia) e lascia anche lo spazio per quelle pratiche religiose di divinazione tramite le quali il dio aiuta gli uomini rendendoli edotti degli eventi futuri.
L'identificazione del fato con l'opera di governo divino fa tuttavia affacciare per la prima volta con tanta forza il problema del male: come spiegarne la presenza? Le risposte date dagli stoici sono varie, e ne anticipano innumerevoli simili. Una di esse consiste nel notare l'inseparabile connessione tra bene e male:
Certamente niente è più stolto di chi pensa che possano esistere i beni se non ci fossero anche i mali. Ora, siccome i beni sono contrari ai mali, necessariamente devono esserci sia gli uni sia gli altri in reciproca opposizione, e possano sussitere solo grazie ad uno sforzo, oserei dire ad un tempo vicendevole e contrario. In che modo potrebbe esserci senso della giustizia, se non ci fossero le offese? o che cos'altro è la giustizia se non la privazione di ingiustizia? Allo stesso modo, come potrebbe intendersi la fortezza se non per opposizione alla viltà? come la temperanza, se non dall'intemperanza? ... Contemporaneamente ci sono beni e mali, felicità e disgrazia, dolore e piacere. Infatti l'uno è legato all'altro, come dice Platone, per i vertici opposti: se togli l'uno, togli anche l'altro (SVF II.1169).
Un mondo con beni ma senza mali sarebbe insomma inconcepibile. Altre risposte al medesimo problema entrano in dettagli e notano come quelli che vengono percepiti come mali sono in realtà l'inevitabile prezzo da pagare per ottenere un bene maggiore, o anche per stimolare a quel bene sommo che è la virtù. Il problema della giustificazione del male (che da Leibniz verrà chiamato «teodicea») rimanda così naturalmente al problema etico come al suo necessario completamento.
Uno degli aspetti più caratteristici della fisica stoica, in cui si fondono la concezione del mondo come essere vivente e l'idea del fato, consiste nel concetto di «conflagrazione» (ekpýrosis), che viene desunto da Eraclito ma riceve uno sviluppo originale. Il punto di partenza consiste nel negare l'eternità del mondo, così come la concepiva per esempio Aristotele. Esistono secondo gli stoici quattro segni che la smentiscono: «l'irregolarità della terra, il riflusso del mare, il consumarsi di ciascuna parte del tutto, la corruzione degli animali terrestri secondo la specie [cioè l'estinzione di alcune di queste]» (SVF I.106). Si tratta di osservazioni naturalistiche notevoli per il loro acume, che dimostrano nel cosmo un processo non soltanto di nascita, ma anche di corruzione.
Utilizzando un'idea già proposta da Empedocle, tali processi vengono tuttavia considerati come facenti parte di un ciclo eterno: il cosmo infinite volte si distrugge e infinite volte si riforma. La «distruzione» va intesa in un senso relativo: essa consiste nel ritorno periodico degli elementi al fuoco originario che li riassorbe tutti (da qui il termine «conflagrazione»), in uno stato in cui il logos divino ricomprende in sé ogni cosa. Non può dunque essere considerata una «morte» del cosmo, ma al contrario come il suo momento di maggiore vitalità (SVF II.604). Questa idea di ritorno ciclico viene sostenuta anche con argomenti di tipo astronomico (ricavati dal Timeo di Platone), che dànno alla conflagrazione un peculiare sviluppo:
Gli stoici affermano che i pianeti, ristabilendosi nello stesso punto sia nelle dimensioni sia nelle estensioni, dove ciascuno era al principio quando per la prima volta il cosmo si costituì, nei detti periodi di tempo determinano la conflagrazione e la distruzione delle cose che sono. Poi di nuovo il cosmo si ricostituirà così com'era all'origine: dato che gli astri si moveranno di nuovo allo stesso modo, ciascuno si condurrà allo stesso modo che nel precedente periodo. Infatti ci saranno di nuovo Socrate e Platone e ciascun uomo coi suoi stessi amici e concittadini; le medesime cose ci convinceranno e delle medesime cose ci serviremo e ogni città e villaggio e campo si ricostituirà allo stesso modo.
Ma la ricostituzione del tutto non avverrà una sola volta, ma molte, o meglio, le stesse cose si ricostituiranno all'infinito e senza limite. E gli dèi non soggetti alla distruzione, in tal modo avendo seguito in un ciclo, grazie a questo conoscono tutto quello che sarà nei cicli successivi, perché non vi sarà nulla di diverso rispetto alle cose avvenute prima, ma tutto sarà uguale, pure fino ai minimi particolari (SVF II.625).
Integrazione: Benché l'idea dell'eterno ritorno abbia presto destato perplessità e venne da alcuni attenuata o abbandonata, essa manifesta molto bene l'esigenza di razionalità che permea lo stoicismo. Una volta che il mondo delle idee platonico o il primo movente immateriale di Aristotele sono stati abbandonati, la razionalità si esprime nell'infallibilità (e dunque nell'eterno ripetersi) dei processi di causa ed effetto del mondo sensibile. (È interessante notare che una funzione simile viene svolta dall'idea dell'eterno ritorno nell'unico filosofo contemporaneo che la riprese, Friedrich Nietzsche.) Tale idea non ebbe però ripercussioni positive nel rapporto con le scienze specialistiche, che rimasero piuttosto estranee agli interessi della prima generazione dello stoicismo, in parte perché urtavano con la pretesa di una conoscenza globale e totale del cosmo da parte del sapiente: una pretesa comprensibile in linea di principio, ma ovviamente sproporzionata rispetto ai mezzi di indagine disponibili. Fine dell'integrazione
Lo studio delle diverse realtà dell'universo consiste per gli stoici nell'esame del modo in cui i princìpi e la vita dell'universo si esprimono in ciascuna specie di essere. Il ruolo più importante è ovviamente svolto dallo spirito, che può assumere diverse modulazioni:
La coesione è comune anche alle cose inanimate, alle pietre e agli alberi, e di essa partecipano le ossa che in noi sono simili alle pietre. La natura si estende anche alle piante, ma anche in noi ci sono cose simili a piante: unghie e capelli: la natura è coesione in movimento. L'anima è natura alla quale si è aggiunta rappresentazione e impulso; questa è comune anche agli esseri irrazionali. E anche il nostro intelletto ha qualcosa di analogo all'anima irrazionale. ... La potenza razionale è comune forse anche alle nature più divine, ma tra i mortali è propria dell'uomo (SVF II.458).
Coesione (héxis), natura (phýsis: il termine è scelto per il legame etimologico con phytón, «pianta»), anima (psyché), anima razionale (psyché logiké) sono quindi in progressione le quattro forme che assume lo spirito divino. Un'attenzione particolare va data ai termini «rappresentazione» (phantasía, lat. visus) e «impulso» (hormé, lat. adpetitio) che indicano le operazioni specifiche degli animali dotati di anima: il primo indica una «impronta nell'anima» introdotta tramite i sensi, il secondo la «disposizione a sentire proprie o estranee» le cose oggetto di rappresentazione. Mentre la rappresentazione si è già incontrata come criterio di verità in logica, l'impulso, il «primo movimento dell'anima» (SVF II.458) sarà alla base della riflessione etica.
Tra le quattro forme di spirito, l'attenzione maggiore viene evidentemente dedicata dagli stoici all'anima razionale. Se l'affermazione della sua corporeità suonava polemica nei confronti della concezione platonica e aristotelica, l'analisi che viene condotta tradisce la suggestione esercitata dalla tradizione medica, in cui la salute veniva individuata nell'armonia della mescolanza dei diversi princìpi:
Gli stoici vogliono che l'anima sia spirito (come anche la natura), ma più umido e più freddo quello della natura, più secco e più caldo quello dell'anima. Dunque questo spirito è la materia propria dell'anima, mentre la specie della natura consiste in una mescolanza armonica della sostanza dell'aria e di quella del fuoco. Infatti non è possibile affermare né che l'anima sia solo aria né che sia solo fuoco, perché il corpo dell'animale non appare essere né del tutto freddo né del tutto caldo, ma neppure dominato da uno dei due in misura eccessiva, e dove anche per poco diventa più della misura equilibrata, da una parte l'animale ha la febbre negli eccessi sproporzionati di fuoco, dall'altra si raffredda e diventa livido e torpido o completamente insensibile secondo le mescolanze dell'aria: infatti questa per quanto è in sé è fredda e diventa temperata per la mescolanza con l'elemento del fuoco. Ora è dunque chiaro che la sostanza dell'anima deriva da una certa mescolanza di aria e di fuoco secondo gli stoici, e lo stesso intelligente Crisippo dalla loro temperata mescolanza (SVF II.787).
A fronte di questa dettagliata analisi di tipo naturalistico, scarsa attenzione era dedicata al problema dell'immortalità dell'anima: la teoria della conflagrazione prevedeva infatti in ogni caso un ciclico riassorbimento nell'anima divina del mondo, che rendeva secondario il problema di una sopravvivenza personale (la quale comunque veniva sostenuta da Crisippo per le sole anime dei sapienti). L'orientamento della dottrina stoica dell'anima si rivela invece bene nella discussione sulle «parti» dell'anima. Esse non vengono individuate, come in Platone, sulla base delle differenti tendenze dell'azione umana, ma piuttosto a partire dalle funzioni corporee che vengono esercitate finché c'è vita, cioè finché lo spirito permea il corpo. È così che, sullo sfondo di una concezione sostanzialmente unitaria dell'anima, si giunge tuttavia ad individuarne otto «parti» diverse:
L'anima è lo spirito, connaturale a noi, che giunge in maniera continua in tutto il corpo, finché la respirazione vitale è presente nel corpo. Poiché le parti dell'anima sono distribuite in ciascun membro, quella sua parte che giunge nell'arteria tracheale diciamo che è la voce, quella che giunge negli occhi vista, quella che giunge negli orecchi udito, quella che giunge nel naso olfatto, quella che giunge nella lingua gusto, quella che giunge in tutta la carne tatto, quella che giunge nei genitali avendo un certo altro logos capacità generativa, quella che giunge laddove accadono tutte queste cose, nel cuore, la sua parte direttiva. Stando così le cose, sul resto si è d'accordo, mentre sulla parte direttiva dell'anima si è in disaccordo, perché alcuni dicono che sia in un luogo, altri in un altro: infatti alcuni dicono che sia nel petto, altri nella testa (SVF II.885).
Il termine hegemonikón («parte direttiva») resterà tipico dello stoicismo per indicare la parte propriamente razionale dell'anima umana. Ad essa sono affidate le funzioni conoscitive e morali, e, più in generale, la coordinazione di ogni movimento del corpo. L'aspetto più caratteristico della concezione stoica dell'anima non risiede però nell'analitica distinzione della varie parti, ma piuttosto nel rifiuto di individuare una o più parti responsabili esclusivamente delle tendenze passionali. Anche queste ultime vengono infatti assegnate alla «parte direttiva», con la conseguenza un po' paradossale che solo l'uomo è capace di passioni:
Ritengono che la parte passionale e irrazionale dell'anima non sia distinta da quella razionale per una qualche differenza e natura, ma che sia quella stessa parte dell'anima che chiamano «mente» o «parte direttiva», completamente deviato e trasformato nelle passioni e nelle trasformazioni dipendenti da abitudini o disposizioni ... . Esso è detto irrazionale quando per l'eccedere dell'impulso, diventato forte e prevalente, è spinto verso ciò che è assurdo e contro le scelte che fa il logos. Infatti la passione è il logos cattivo e corrotto, proveniente da un giudizio falso ed erroneo che ha raggiunto vigore e forza (SVF III.459).
Integrazione: Riguardo al «disaccordo» cui si accenna nel testo prima citato, Crisippo localizzava l'hegemonikón nel cuore, basandosi principalmente sulla circostanza che le passioni si sentono provenire «dal petto», come testimoniano anche espressioni del linguaggio corrente. Le contemporanee osservazioni mediche che avevano già individuato nel cervello il punto di raccordo del sistema nervoso non vengono invece prese in considerazione: si tratta di uno dei casi in cui è evidente un atteggiamento di fondamentale sfiducia nei confronti delle scienze specialistiche, che vengono accusate di formulare ipotesi incerte anziché attenersi ai fenomeni come appaiono. Fine dell'integrazione
L'etica stoica condivide con molte tendenze dell'etica antica sia uno stretto legame con il problema della felicità, sia una fondazione (per lo meno nella formulazione datale da Crisippo) nell'osservazione della realtà naturale. Il punto di partenza consiste infatti nell'osservare quale sia il «primo impulso» (próte hormé) nella natura dell'uomo e dei viventi in generale. Già le testimonianze evidenziano come questo punto di partenza sia determinato in polemica con Epicuro:
Affermano che il primo impulso per l'animale è tendere a conservare sé stesso, perché la natura fa sì che l'animale si appropri di sé fin dal principio (oikeióuses autó tes phýseos ap'archés), come dice Crisippo nel primo libro Sui fini, dove dice che il «primo proprio» (próton oikéion) per ogni animale è la sua costituzione e la coscienza di essa. Infatti non sarebbe verosimile né che la natura facesse alienare un animale da sé, né che dopo averlo fatto non lo facesse né alienare né appropriare. Resta dunque da dire che dopo averlo costituito lo faccia appropriare a sé stesso: così infatti respinge le cose dannose e cerca quelle appropriate.
Ciò che alcuni [gli Epicurei] dicono, che il primo impulso degli animali vada verso il piacere, mostrano che è falso. Affermano infatti che il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono.
In nulla, affermano, la natura differisce riguardo alle piante e riguardo agli animali, perché pur senza impulso e sensazione amministra anche le prime, e d'altra parte in noi alcune cose avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali in più si aggiunge l'impulso, servendosi di esso vanno verso le cose proprie. Dunque per questi vivere secondo natura corrisponde a farsi guidare dall'impulso, mentre, dato che il logos è dato agli esseri razionali per una più perfetta costituzione, vivere secondo natura diventa per essi esattamente vivere secondo logos. Infatti questo si aggiunge come artefice dell'impulso (SVF III.178).
Il passo è della massima importanza, perché tratteggia in breve i passaggi fondativi essenziali dell'etica stoica. Il punto di partenza è costituito dall'osservazione che ogni animale prova anzitutto, fin dalla nascita, un istinto di «appropriazione» (oikéiosis, lat. conciliatio). Il significato di questo termine (come si è visto nella definizione generale dell'impulso) implica un movimento di accettazione e di desiderio nei confronti di qualcosa che si sente consono a sé. Ma che cos'è che viene anzitutto «appropriato»? Gli stoici affermano che l'oggetto dell'appropriazione è anzitutto il proprio stesso essere, a partire dal corpo: un animale anzitutto si rende conto della struttura del proprio organismo e impara a cercare ciò che gli giova e a fuggire ciò che lo danneggia. In una parola, si tratta dell'istinto di sopravvivenza.
Tale dato però non viene semplicemente osservato, ma anche dimostrato. Esistono solo tre possibilità: che un vivente si appropri di sé, che si alieni da sé, che né si appropri né si alieni. Le ultime due possibilità sono da escludere perché non si può pensare che la natura (si intenda: una natura intelligente, la provvidenza divina), dopo aver portato alla luce un proprio prodotto sia indifferente od ostile alla sua sorte: in entrambi i casi infatti non avrebbe neppure prodotto quell'essere. Insomma, già la nascita di un vivente mostra che da parte della natura c'è una preoccupazione positiva nei suoi confronti, che si esprime appunto attraverso quell'istintivo amore di sé e della propria vita che lo accompagna fin dalla nascita come prima tendenza. Ciò detto, è anche dimostrato che il piacere di Epicuro non può svolgere questa funzione: esso non è mai un obiettivo primario, ma piuttosto qualcosa che si aggiunge quando la sopravvivenza è assicurata.
Il passo ulteriore consiste nel notare che la preoccupazione della natura è la stessa ai vari livelli, per esempio anche nei confronti delle piante: la presenza dell'impulso negli animali aggiunge un ulteriore tramite della cura della natura, che si esprime appunto attraverso la ricerca delle cose «appropriate». Ma allora, come nell'animale «vivere secondo natura» significa «vivere secondo l'impulso», nell'uomo significherà «vivere secondo il logos». È solo questo livello successivo che specifica l'istinto di appropriazione dell'uomo. Un'ulteriore testimonianza offre qualche precisazione sul significato di tale livello:
Prima di tutto c'è l'appropriazione dell'uomo verso quelle cose che sono secondo natura. Ma appena l'uomo acquisisce l'intelligenza o piuttosto la nozione (che quelli chiamano énnoia) e vede l'ordine e per così dire la concordia delle cose da fare, la stima molto più di tutte quelle cose che per prime amava, e con la conoscenza e la ragione giunge a concludere che qui è collocato quel sommo bene dell'uomo che va lodato e cercato per sé stesso. E questo è posto in ciò che gli stoici chiamano homología [coerenza] (SVF III.188).
Due elementi vanno notati: anzitutto, l'uso della ragione non è nell'uomo dato fin dal primo momento dell'esistenza. È dunque naturale che la sua esperienza concreta prenda le mosse dallo stesso identico istinto di appropriazione che contraddistingue tutti gli animali. L'uso del logos gli permette però di compiere un passo impossibile agli animali: scoprire l'ordine che anima l'universo intero, e passare dall'impulso di conservazione di sé alla «coerenza», cioè alla volontà di conformarsi al logos universale di cui si è parte. In altre parole, si potrebbe dire che l'istinto di autoconservazione viene reso universale: non è più solo la propria vita che va conservata, ma l'armonia e la razionalità del cosmo. La formula in cui gli stoici riassumevano il fine della vita morale, «vivere coerentemente con la natura» (homologouménos te phýsei zén), o anche solo «vivere coerentemente», implica dunque una spiccata dimensione intellettuale che ne rivela il legame di filiazione con l'etica socratica.
Alcuni esempi possono chiarire come in concreto si realizzi questo passaggio all'universale. Il primo riguarda il caso, molto importante per il pensiero stoico, dei rapporti tra gli uomini. Essi possono essere agevolmente spiegati quando si prendano le mosse dal sentimento di affetto dei genitori verso i figli, che non è altro che una specificazione dell'originario istinto di autoconservazione:
Credono che sia importante comprendere che avviene per natura che i figli siano amati dai genitori; da questo inizio cerchiamo l'inizio della comune società del genere umano. Ciò che per primo va compreso è la figura e le membra del corpo, che da sé dichiarano che la natura ha avuto una ragione di crearle. Ma queste non potrebbero neppure andar d'accordo con se stesse se la natura non volesse che fossero create e non si curasse di amare gli esseri creati. E anche negli animali si può osservare la forza della natura: quando osserviamo la sofferenza nel procreare e nell'allevare i piccoli, ci sembra di udire la voce della natura stessa. Dunque, come è evidente che noi per natura fuggiamo il dolore, così appare che siamo spinti dalla natura stessa ad amare quelli che abbiamo generato.
Da ciò nasce che anche la comune preoccupazione degli uomini per gli uomini sia naturale, cosicché è necessario che un uomo non sembri estraneo ad un altro uomo per il fatto stesso che è un uomo (SVF III.340).
Come è evidente, è soltanto l'opera del logos che può trasformare ed estendere un impulso originariamente diretto solo verso la prole in una comune solidarietà verso tutti i propri simili (ciò che secondo gli stoici era impossibile partendo dalla ricerca del piacere). Qui si connette anche l'idea di un «diritto naturale», che gli stoici sostengono con forza propugnando anche, seppure in maniera un po' astratta, un ideale di cosmopolitismo: i sapienti sono coloro che riconoscono di essere cittadini dell'unica «città di Zeus», che è governata da un'unica legge che si identifica con il logos universale.
Un secondo esempio mostra come l'opera del logos sul «primo impulso» può condurre anche a risultati apparentemente contrari al dato di partenza. Si tratta in particolare del caso del suicidio, che viene denominato «uscita razionale dalla vita» (éulogos exagogé) e diventa caratteristico del sapiente stoico, nella teoria e anche nella prassi. Per esso venivano individuati diversi motivi che lo rendevano degno di essere scelto: «Affermano che il sapiente ragionevolmente uscirà dalla vita sia per la patria, sia per gli amici, e anche se cade in dolori troppo acuti o in menomazioni [mentali] o in malattie incurabili» (SVF III.757). Insomma, in tutti i casi in cui sia impossibile esercitare la propria esistenza razionale, o quando essa dev'essere sacrificata per un bene maggiore della propria vita, il suicidio è coerente. In questo caso l'istinto di sopravvivenza passa in secondo piano di fronte ad esigenze maggiori o più profonde che solo il logos può scoprire (donde l'affermazione paradossale che solo per il sapiente, ma non per lo stolto, può essere conforme a natura togliersi la vita).
Il fatto che la vita «coerente con la natura» sia per l'uomo quella «secondo il logos» giustifica il forte accento che viene posto sulla conoscenza nella definizione della virtù. Se essa in generale viene concepita come una «disposizione coerente» dell'uomo, le singole virtù (delle quali le «principali» sono desunte dalla Repubblica di Platone) vengono intese, in maniera non dissimile dal Socrate presentato da Platone, come «scienze» rivolte ai singoli ambiti: «la saggezza (phrónesis) è la scienza delle cose da fare, da non fare, e né da fare né da non fare ... ; la moderazione (sophrosýne) è la scienza delle cose da scegliere, da fuggire, e né da scegliere né da fuggire; la giustizia (dikaiosýne) è la scienza in grado di attribuire a ciascuno secondo il valore; il coraggio (andréia) è la scienza delle cose temibili, non temibili, e né temibili né non temibili» (SVF III.262). Non meraviglia dunque che, benché avversata dall'ortodossia stoica rappresentata da Crisippo, sia nata in seno alla scuola stoica la teoria secondo cui la virtù fosse unica, solo con differenti campi di applicazione.
Integrazione: Il primato assegnato alla dimensione intellettuale è solo in parte paragonabile con l'analoga tendenza di Platone o di Aristotele. Esso infatti non individua una particolare forma di vita accessibile solo a pochi, ma piuttosto un criterio di vita aperto a tutti e capace di porre nella giusta luce qualsiasi aspetto della vita umana. Gli stoici rifiutavano quindi l'alternativa tra «vita attiva» e «vita contemplativa», sostenendo il primato della «vita razionale», cioè la vita secondo il logos, che le comprende entrambe (SVF III.687). A questa luce si comprende il quadro idealizzato del sapiente: solo egli agisce sempre bene ed è quindi l'autentico esperto di politica, economia, religione, arte e così via. Il problema della partecipazione alla vita politica veniva in particolare risolto affermando che il sapiente «è possibile che partecipi alla vita politica seguendo il logos» (SVF III.690).
Una concezione così unitaria e rigorosa della virtù conduceva però a concepire il sapiente come una sorta di caso limite, forse mai esistente in realtà. La situazione veniva ulteriormente aggravata dall'idea secondo cui tutte le azioni cattive, così come quelle buone, si equivalgono fra loro, e chi è poco distante dalla virtù non è meno stolto di chi lo è molto («chi è sotto la superficie del mare di un cubito non affoga meno di chi è sommerso di cinquecento braccia», SVF III.539). Per tentare di bilanciare queste conseguenze, che rischiavano di far diventare «per nessuno» un ideale originariamente «per tutti», Crisippo introdusse l'idea del «progresso» (prokopé): colui che nota progressi nella sua esperienza (maggiore razionalità, vittoria sulle passioni) in realtà ha già varcato i confini della virtù, pur non avendone ancora consapevolezza (SVF III.541). Una vera revisione della posizione tradizionale si ebbe però solo più tardi con Panezio, che abbandonò le speculazioni sul sapiente ideale per concentrarsi sulle azioni «convenienti» effettivamente accessibili ad ogni uomo. Fine dell'integrazione
L'impianto intellettualistico dell'etica stoica conduce ad una importante conseguenza, che soprattutto nell'immagine più diffusa del sapiente stoico rimase la più evidente: l'uomo virtuoso è colui che ha soppresso ogni passione. Evidentemente tale conseguenza viene resa necessaria anche dalla concezione dell'anima, nella quale come abbiamo visto non viene individuata nessuna parte specificamente responsabile dei moti passionali: essi hanno luogo nell'hegemonikón. Ma quando esso è guidato dalla ragione non vi rimane evidentemente più spazio per le passioni:
Bisogna anzitutto osservare che l'animale razionale per natura è capace di seguire il logos e di agire obbedendo al logos come ad un comandante. Spesso però viene portato anche altrove, attratto o respinto da qualcosa, spinto per lo più a disobbedire al logos. E secondo questo movimento ci sono entrambe le definizioni [della passione]: «movimento contro natura che avviene irrazionalmente» ed «eccesso negli impulsi». Infatti questo «irrazionale» va inteso come «disobbediente al logos» e «allontananto dal logos», e secondo questo movimento ed abitualmente diciamo che qualcuno è spinto e si muove irrazionalmente senza un giudizio del logos. Non diamo queste connotazioni se uno si muove erroneamente trascurando qualcosa secondo il logos, ma soprattutto secondo il movimento che traccia, non essendo nella natura dell'animale razionale muoversi così secondo l'anima, ma secondo il logos (SVF II.462).
Proprio la necessità dell'annullamento delle passioni diede tuttavia origine ad una loro analisi psicologica molto dettagliata. Di esse quattro specie primarie venivano individuate: «desiderio (epithymía) e paura (phóbos) anticipano, l'uno ciò che appare buono, l'altra ciò che appare cattivo; ad esse si aggiungono piacere (hedoné) e dolore (lýpe), il piacere quando otteniamo ciò che desideriamo o sfuggiamo a ciò che temiamo, il dolore quando manchiamo ciò che desideriamo o incappiamo in ciò che temiamo» (SVF III.378). Tutte queste forme vengono ricondotte a giudizi precipitosi riguardo a ciò che è buono e cattivo, e sono quindi destinate a scomparire nel sapiente.
Integrazione: Ciò però ovviamente non significa che nel sapiente scompaia anche l'impulso. In riconoscimento di ciò, si trova in Panezio la tesi che in connessione con giudizi equilibrati nel saggio sono presenti «buoni sentimenti» (eupátheiai, lat. constantiae), che sono la controparte positiva delle passioni: al desiderio corrisponde la volontà (bóulesis), alla paura la cautela (eulábeia), al piacere la gioia (chará). Solo al dolore non corrisponde evidentemente nulla, perché il sapiente è colui che si adegua al logos universale e dunque non può fallire nella sua volontà (SVF III.438). In questo modo si comprende anche che le passioni, eccezion fatta per il dolore, non necessariamente sono fondate su giudizi oggettivamente errati (si può per esempio provare piacere di una cosa buona): è solo la loro intensità che è sempre da respingere, proprio perché impedisce di distinguere il vero dal falso (e infatti è possibile provare piacere anche di una cosa cattiva, mentre di essa è impossibile provare gioia). Tale riflessione, pure se coerente con le premesse dello stoicismo antico, facilmente poteva essere accusata di ricadere, dopo averla formalmente respinta, nella prescrizione aristotelica di moderare piuttosto che sopprimere le passioni. Fine dell'integrazione
Il fatto che nell'uomo la vita secondo natura si identifichi con una vita secondo il logos permette di riformulare il fine della vita umana anche come una «obbedienza» al fato. Si tratta ovviamente di una obbedienza di tipo formale, perché l'uomo, anche se non virtuoso, è comunque soggetto alla legge del cosmo. La virtù consiste tuttavia nell'adeguarvisi spontaneamente e volentieri, così da raggiungere il «buon scorrimento della vita» (éuroia bíou) identificato con la felicità. Questo aspetto dell'etica stoica, che mette in primo piano le intenzioni piuttosto che l'effettivo contenuto delle proprie azioni, viene bene espresso da alcuni celebri versi di Cleante:
Conducimi, o Zeus e tu, destino,
là dove da voi è stabilito,
perché vi seguirò senza esitazione; e se non volessi,
diventato malvagio, nondimeno vi seguirò.
I fati conducono chi vuole, trascinano chi non vuole.
[Ducunt volentem fata, nolentem trahunt] (SVF I.527).
Questa riformulazione dell'essenza della moralità solleva un gravissimo problema: se ogni cosa è predeterminata dal fato, c'è ancora uno spazio per il libero arbitrio? e senza quest'ultimo, che senso ha condurre un discorso etico, in cui certe azioni vengono lodate o biasimate? La risposta degli stoici non può che essere complessa. Da una parte, il libero arbitrio nel senso in cui lo intendeva Aristotele, cioè capacità di scegliere tra due opzioni opposte, viene negato: esso introdurrebbe infatti nel cosmo un principio di indeterminazione che si opporrebbe alla sua struttura razionale. Ciò però non significa negare che esistono azioni che dipendono dall'uomo, e che quindi possono essere oggetto di lode e di biasimo (SVF II.1002). Ecco una testimonianza che analizza abbastanza dettagliatamente la questione:
Tolto all'uomo il potere di scegliere e di agire fra due opposti, ammettono comunque che dipende da noi ciò che avviene secondo il nostro impulso. Poiché, affermano, le nature delle cose che sono e divengono sono varie e differenti ..., da ciascuna di esse seguono eventi secondo la propria natura: dalla pietra effetti secondo la natura della pietra, dal fuoco secondo quella del fuoco, dall'animale secondo quella dell'animale, e nessun effetto che segue dalla natura propria di ciascun ente può, affermano, essere diverso, bensì ciascuno avviene obbligatoriamente, secondo una necessità non coercitiva, ma dipendente dal fatto che ciò che ha una certa natura non può, date delle circostanze che è impossibile che non gli accadano, avere altro movimento da quello che ha. E infatti la pietra, se viene gettata da una rupe, non può non cadere in basso, se nulla glielo impedisca. ... Affermano poi che quello che vale per gli esseri inanimati vale anche per gli animali. In effetti, per gli animali c'è un certo movimento secondo natura, ed è quello secondo l'impulso: infatti ogni animale, in quanto animale dotato di movimento, attua il movimento secondo l'impulso, il quale dunque avviene ad opera del fato tramite l'animale (SVF II.979).
L'idea fondamentale consiste quindi nel precisare che il fato non è una forza che costringe il comportamento umano dall'esterno, ma piuttosto una legge universale che si esprime anche attraverso la natura propria dell'uomo, che è fatta di impulsi e razionalità. Il fatto che l'uomo possieda il logos (così come l'animale in genere possiede l'impulso) non toglie poi che questo logos sia parte della legge universale del cosmo che è appunto il fato. Ciò chiarisce meglio perché è veramente libero solo l'uomo virtuoso: solo lui è in sintonia con quella stessa legge che infallibilmente avviene, e dunque non si sente mai costretto da essa (diversamente da ciò che avviene ad un animale o ad uno stolto, il cui impulso può andare frustrato).
Due celebri obiezioni stimolarono ulteriormente lo stoicismo ad affrontare il problema della compatibilità tra fato e impegno etico. La prima obiezione va sotto il nome di «ragionamento pigro» (lógos argós, lat. ratio ignava) e suona così:
Se è deciso dal fato che tu guarisca dalla malattia, sia che tu vada dal medico, sia che tu non vada, guarirai. Ma anche se è deciso dal fato che tu non guarisca dalla malattia, sia che tu vada dal medico, sia che non vada, non guarirai. Ma o è deciso dal fato che tu guarisca dalla malattia o è deciso dal fato che tu non guarisca. Dunque è inutile che tu vada dal medico (SVF II.957).
Insomma, ogni azione sarebbe inutile visto che l'esito è in ogni caso predeterminato dal fato. Alcune altre formulazioni del «ragionamento pigro» si ispirano alla mitologia greca, dove in effetti il fato compare come una forza che porta a compimento il suo intento benché l'uomo tenti di sfuggirle (si pensi ad Edipo che uccide involontariamente il padre malgrado si sia fatto di tutto per evitare tale destino che era stato rivelato.) A questa obiezione Crisippo rispose con la teoria dei «confatali» (synheimarména, lat. confatalia):
Che il mio mantello non vada distrutto non è deciso dal fato in assoluto, ma insieme con il fatto che sia conservato, e che quel tale si salvi dai nemici insieme con il fatto che egli fugga i nemici, e il generare figli insieme con il fatto che si voglia andare con una donna. ... Molte cose infatti non possono avvenire senza che anche noi vogliamo ed esercitiamo in esse impegno e cura, poiché insieme con questo è deciso dal fato che avvengano (SVF II.998).
Insomma, il «ragionamento pigro» dimentica che il fato non è una forza che determina in assoluto gli esiti delle azioni, ma che determina tramite l'uomo agente l'esito dell'azione. Ogni atto è quindi «confatale» al suo risultato.
Una seconda obiezione è molto più complessa. Essa riguarda la fondazione logica dell'idea di fato e venne espressa da un logico della scuola megarica, Diodoro Crono, sotto forma del cosiddetto «ragionamento dominatore» (kyriéuon lógos), così chiamato evidentemente perché ritenuto inoppugnabile. In esso si parte dalla costatazione che tre proposizioni sono incompatibili:
Il «ragionamento dominatore» sembra che sia stato investigato partendo da alcuni presupposti. C'è infatti conflitto reciproco tra queste tre proposizioni: (a) «tutto ciò che è veramente avvenuto è necessario», (b) «al possibile non segue l'impossibile», (c) «c'è del possibile che né è vero né lo sarà». Osservando questo conflitto, Diodoro si servì della credibilità delle prime due per stabilire che «non c'è nulla di possibile che né è vero né lo sarà» (SVF II.283).
L'esatto motivo della incompatibilità delle tre proposizioni non viene esplicitamente indicato, ma può essere ricostruito così: immaginiamo che lunedì è possibile che il giorno dopo piova, e martedì di fatto non piova (proposizione c); mercoledì si potrà affermare che martedì ha necessariamente piovuto, in quanto il passato non può essere cambiato (proposizione a); ma allora lunedì era possibile che martedì accadesse una cosa impossibile: e questa conclusione è contro la proposizione b. Come riferisce la testimonianza, Diodoro risolse la contraddizione negando la proposizione c, affermando cioè che solo ciò che poi effettivamente avviene è «possibile». Ma in questo modo il concetto di possibilità viene di fatto vanificato, negando contemporaneamente uno dei presupposti dell'etica: il fatto che l'uomo abbia la capacità, tramite il logos, di non assentire ad impulsi che giudica irrazionali, ma ai quali potrebbe assentire.
La medesima testimonianza che riferisce il «discorso dominatore» ci informa anche sul modo in cui gli stoici lo respinsero. In perfetto accordo con le premesse di Diodoro, per reintrodurre l'idea di possibilità era sufficiente negare l'una o l'altra delle due premesse:
Del resto uno potrebbe conservare le due affermazioni: «c'è del possibile che né è vero né lo sarà», «al possibile non segue l'impossibile», ma: «non tutto ciò che è veramente avvenuto è necessario», così come sembrano aver ritenuto Cleante e i suoi discepoli, coi quali per lo più concordò Antipatro. Ma altri [Crisippo e i suoi discepoli] conserveranno le altre due: «c'è del possibile che né è vero né lo sarà», «tutto ciò che è veramente avvenuto è necessario», ma: «al possibile segue l'impossibile». Ma non c'è modo di conservare tutte e tre le proposizioni, perché prese assieme si contraddicono (SVF II.283).
Integrazione: La soluzione di Cleante è più facile da intendere: essa sostiene che il fatto che qualcosa sia avvenuto non la rende affatto più necessaria di quanto fosse prima: viene così resa su un piano propriamente logico la risposta che Aristotele aveva formulato sul piano metafisico (curiosamente, si tratta di un argomento sviluppato in questi identici termini da Kierkegaard (1813-1855) nelle sue Briciole di filosofia). La soluzione di Crisippo suppone osservazioni più complesse: essa può probabilmente essere interpretata nel senso che la catena delle cause effettua trasformazioni tali da rendere effettivamente non possibile qualcosa che prima non lo era. L'esempio di Crisippo era l'implicazione «Se Dione è morto, egli è morto»: essa è evidentemente corretta, ma mentre la premessa è possibile, la conseguenza non lo è perché in caso di morte non ci sarà più un «egli» di cui dire che è morto (SVF II.202). Fine dell'integrazione
Dopo che il logos è intervenuto ad universalizzare l'originario istinto di conservazione, continua quest'ultimo a svolgere un qualche ruolo nella moralità? Si tratta di una questione molto delicata nel sistema stoico, soprattutto perché essa viene a toccare aspetti molto rilevanti della vita quotidiana, che sono per lo più determinati non da esplicite scelte razionali, ma piuttosto da tendenze innate. La soluzione stoica consiste da una parte nel considerare moralmente «indifferenti» (adiáphora) tutte le cose che sono oggetto di impulso naturale, dall'altra nel riconoscere che di esse alcune sono «preferibili» (proegména):
Dicono indifferente ciò che non incide né sulla felicità né sull'infelicità. Secondo questo significato dicono indifferenti salute e malattia e tutte le cose corporee e la maggior parte delle cose esterne, perché non contribuiscono né alla felicità né all'infelicità. Ciò di cui è possibile servirsi sia bene sia male sarebbe infatti indifferente: e della virtù ci si serve sempre bene, del vizio male, ma della salute e delle cose che riguardano il corpo è possibile servirsi ora bene ora male, e per questo sarebbero indifferenti.
Degli indifferenti dicono poi che alcuni sono preferiti, altri respinti, altri ancora né preferiti né respinti: e preferiti sono quelli che hanno sufficiente valore (axía), respinti quelli che hanno un sufficiente disvalore, mentre né da preferire né da respingere cose come lo stendere o piegare un dito e tutto ciò che vi somiglia. E vengono classificati tra i preferiti la salute, la forza, la bellezza, la ricchezza, la fama e simili, tra i respinti malattia, povertà, sofferenza e cose analoghe (SVF III.122).
Il «valore» dei preferiti consiste, come precisano altri testi, nell'essere conformi alla propria natura, come è rivelata nel primo impulso. Ciò non toglie che di essi è possibile un uso anche cattivo e che quindi non sono mai «beni». In caso di contrasto quindi tra un bene e un preferito, il sapiente non esiterà a scegliere il primo. Che cosa accade tuttavia quando si deve scegliere tra cose indifferenti senza sapere quale di essa in futuro si riveli «buona», ovvero conforme al logos e al fato? Per risolvere tale problema, gli stoici introdussero l'idea di una «scelta con riserva»:
Finché le cose avvenire mi sono ignote, di volta in volta sceglierò i mezzi più adatti per ottenere le cose conformi a natura: infatti lo stesso dio mi ha fatto capace di scegliere tali cose. Ma se ora sapessi che è stabilito dal fato che io mi ammali, dirigerei pure il mio impulso su ciò. E infatti il piede, se avesse la mente, avrebbe l'impulso ad infangarsi (SVF III.191).
Il senso dell'ultima osservazione è: se il piede potesse riflettere alla sua funzione all'interno del corpo, capirebbe che può adempierla solo accettando di sporcarsi di fango; allo stesso modo, se ogni uomo conoscesse perfettamente la sua funzione all'interno dell'universo, vorrebbe quelle cose, anche contrarie alla sua natura individuale (come la malattia), che tuttavia svolgono una funzione complessivamente positiva nell'universo. In mancanza di una conoscenza perfetta del fato, l'uomo dunque non può fare altro che scegliere provvisoriamente le cose che la natura gli suggerisce, essendo però pronto ad accogliere come «bene» ciò che la provvidenza gli assegna. Da qui si comprende anche il ruolo che (specialmente nello stoicismo più tardo) svolgerà la riflessione sulla morte, l'unico evento futuro del quale si possa essere certi e quindi infallibilmente voluto dal fato.
In corrispondenza della divisione degli oggetti in «preferibili» e «buoni», un'analoga distinzione può essere tracciata tra le azioni:
Il tema del conveniente (kathékon) è conseguente al discorso sui preferiti. Il conveniente è definito «ciò che è conseguente alla vita e che una volta compiuto ha una giustificazione logica», il non conveniente in maniera opposta. Questo si estende anche agli animali privi di ragione, perché anch'essi compiono qualcosa conseguente alla propria natura; ma negli animali razionali così si specifica: «ciò che è conseguente alla condotta di vita». Dei convenienti alcuni li dicono «perfetti», e sono chiamati anche «azioni rette» (katorthómata). Azioni rette sono gli atti conformi a virtù, come essere saggi e agire giustamente. Ma non sono azioni rette quelle che non sono tali, che dunque non vengono chiamate neppure convenienti perfetti, ma «medi», come sposarsi, fare ambasciate, dialogare e cose simili (SVF III.494).
Le parole per indicare le diverse azioni furono entrambe coniate dagli stoici. Il termine «conveniente» (kathékon) significa letteralmente «ciò che tocca» e venne usato per primo da Zenone; la traduzione latina officium, più vicina all'italiano «dovere», evidenzia il fatto che in questa categoria rientrano tutti i comportamenti che sono appropriati al proprio stato (di persona, di padre, di marito, di cittadino ecc.), e che quindi è giusto compiere finché non confliggano con un bene. Il termine «azione retta» (katórthoma, lat. actio recta) venne creato da Crisippo e significa «ciò che è perfettamente riuscito»: solo i sapienti possono dunque compierla, perché consapevoli del bene. La distinzione tra azioni convenienti e rette non risiede quindi necessariamente nel loro contenuto esterno, perché la rettitudine può essere conferita o tolta anche solo da una considerazione razionale:
Spesso il dovere non viene compiuto conformemente al dovere e ciò che non è conveniente talvolta viene operato convenientemente. Per esempio, la restituzione di un deposito, quando non avviene in base ad un sano giudizio, ma per danneggiare chi riceve o per evitare il rifiuto di un credito maggiore, è un'azione conveniente che non viene compiuta in modo conforme al dovere. Ma che il medico non dica la verità al malato, quando abbia deciso di salassare o amputare o cauterizzare per il vantaggio del malato, affinché prevedendo il dolore non fugga la cura o per la debolezza non vi rinunci; oppure che il sapiente menta ai nemici per la salvezza della patria, nel timore che la verità rafforzi le posizioni nemiche, è un'azione non conveniente che viene compiuta in modo doveroso (SVF III.513).
Integrazione: Tali considerazioni, se da una parte aprono la strada al concetto di «intenzione» che tanta parte avrà nelle storia dell'etica, dall'altra dànno anche ragione dello spirito con il quale lo stoicismo antico riprese alcuni aspetti del cinismo che tanto scandalo dovevano suscitare presso i contemporanei e i posteri. I più citati e contestati sono l'«approvazione» dell'incesto e dell'antropofagia: gli stoici intendevano dire che in un contesto di assoluta sapienza (dunque in un'ipotetica «città dei saggi») anche atti naturalmente ripugnanti possono, almeno in alcune circostanze, avere la loro giustificazione razionale.
D'altra parte, non meraviglia che più tardi, soprattutto ad opera di Panezio, l'attenzione si concentrò proprio sulla dottrina dei convenienti, che è in grado di dare realistiche indicazioni di comportamento lasciando sullo sfondo l'ideale della perfetta e forse irraggiungibile razionalità. Fu questo stoicismo mitigato, coniugato con le esigenze della humanitas, che ebbe la maggiore influenza nella storia della cultura europea grazie alla diffusione operata da Cicerone e da Seneca. Fine dell'integrazione