Introduzione al Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein

A cura di Dario Zucchello

Logica e mondo

 

In un certo senso, nella logica noi dobbiamo non poter errare. Ciò è già in parte espresso in: La logica deve avere cura di se stessa. Si tratta di un giudizio di rara profondità e importanza. [L. Wittgenstein, Werkausgabe, Band I, Frankfurt a.M., 1984, p.89]

In questa annotazione del 2 settembre 1914, l’autore, il viennese Ludwig Wittgenstein, da poco meno di un mese volontario nell’esercito del suo paese e all’epoca impegnato sul fronte russo, fissava, citando una propria osservazione appuntata in data 22.8.14, un programma di ricerca ampiamente meditato nei tre anni precedenti, trascorsi a Cambridge. Nella cittadella universitaria inglese il ventiduenne rampollo di una delle famiglie economicamente più cospicue dell’impero asburgico era giunto nel 1911, dopo gli studi di ingegneria intrapresi a Berlino (1906) e proseguiti, con particolare interesse in ambito aeronautico, a Manchester (1908). L’ulteriore trasferimento implicava in realtà un più radicale mutamento di indirizzo di studi, con il definitivo abbandono della formazione tecnica (verso cui Wittgenstein mostrò comunque e sempre grande predisposizione) per quella squisitamente teorica, con una progressione dalla fisica, alla matematica, ai suoi fondamenti, quindi alla logica, che lo avrebbe condotto alla corte della personalità filosofica di maggiore carisma in quel settore di ricerca: Bertrand Russell.

Per rendersi conto delle implicazioni nella interpretazione logica dell’austriaco vale la pena leggere un altro testo risalente allo stesso 1914, al mese di aprile esattamente: si tratta della pagina iniziale del resoconto preparato da G.E. Moore sui colloqui intercorsi con Wittgenstein, allora ritiratosi in solitudine in Norvegia:

Le cosiddette proposizioni logiche mostrano le proprietà logiche del linguaggio e dunque del mondo, ma non dicono nulla.
Ciò significa che è sufficiente prenderle in considerazione per vedere tali proprietà; mentre in una proposizione autentica non si può stabilire sulla base di una semplice considerazione ciò che è vero.
È impossibile dire quali siano queste proprietà; infatti per poter fare ciò si avrebbe bisogno di un linguaggio che non avesse le proprietà in questione, ed è impossibile che esso possa essere un linguaggio nel vero senso della parola. Impossibile costruire un linguaggio impossibile.
[...]
Così un linguaggio che può esprimere tutto rispecchia certe proprietà del mondo attraverso le proprietà che deve possedere; e le cosiddette proposizioni logiche mostrano sistematicamente queste proprietà. [Ibidem, p.209]

L’interesse per la logica si rivela strettamente connesso alla preoccupazione per il linguaggio (per un linguaggio autentico) e all’impegno per garantirne la sensatezza rispetto al mondo. A suo modo, dunque, Wittgenstein riformulava un problema del programma filosofico russelliano (ripreso dal posteriore empirismo logico), quello di saldare i risultati dello sviluppo della logica simbolica o matematica e la lezione dell’empirismo: la logica avrebbe tracciato le relazioni tra i segni linguistici, con cui sono formulate proposizioni intorno alla natura.

Logica e linguaggio sono dunque alle radici, anche cronologiche, del Logisch-Philosophische Abhandlung (ovvero, nella versione suggerita da Moore per l’edizione inglese, Tractatus logico-philosophicus), come la stessa Prefazione dell’autore (1918) chiaramente rimarca, laddove ascrive al fraintendimento della logica del nostro linguaggio la posizione dei problemi filosofici. La Introduction che Russell compose per presentare la fatica dell’amico e discepolo rilevava altrettanto lucidamente lo stesso nodo: il punto di partenza dell’opera erano i principi del Simbolismo, i requisiti che un linguaggio logicamente perfetto dovrebbe soddisfare.

In questo senso la logica deve avere cura di sé: nella asciutta prospettiva degli appunti di lavoro di Wittgenstein, ma anche nella struttura filiforme del Tractatus, essa emerge nel ruolo essenziale di vera e propria condizione trascendentale, condizione di senso per un verso ineludibile, per altro indiscutibile. La filosofia doveva allora limitarsi a riflettere tale condizione per garantire la trasparenza di pensiero e linguaggio: consentire, in altre parole, una presa d’atto del manifestarsi delle proprietà logiche, immediatamente all’interno delle proposizioni logiche, e indirettamente al fondo di ogni proposizione significante.

In questa accezione essa diventava critica (in senso kantiano) del linguaggio, riecheggiando i coevi tentativi, per esempio, di Fritz Mauthner (da cui Wittgenstein però prende esplicitamente le distanze proprio nel Tractatus), in cui pure era assente la attenzione per la dimensione rigorosamente formale del simbolismo, ma che risultavano segnati dal trascendentalismo schopenhaueriano ben presente a Wittgenstein e da una forte esigenza antimetafisica, che, come spesso accadeva nella cultura austriaca contemporanea, era a sua volta espressione di una profonda istanza etica [A. Janik - S. Toulmin, La grande Vienna, Milano, 1975, cap. 5]. D’altra parte il saggio di Janik e Toulmin di cui proponiamo un estratto significativo tra le letture critiche ha avuto il merito di ribadire, nel contesto storico-culturale entro cui, almeno in parte, maturò l’opera di Wittgenstein, la centralità del tema della comunicazione proprio come problema etico, di autenticità, che si impone non solo in un minore come Mauthner, ma anche in personalità di assoluto primo piano della civiltà asburgica come Karl Kraus e Hugo von Hofmannstahl.

Ma nella affermazione wittgensteiniana La logica deve aver cura di se stessa c’è comunque qualcosa di peculiare: la convinzione di aver colto il nucleo traslucido e autosufficiente capace di riorientare ogni uso linguistico entro i limiti del senso. Nello stesso tempo, come può evincersi facilmente dalle precedenti citazioni, a tale nucleo logico veniva riconosciuta una portata ben al di là della astratta dimensione formale: le proposizioni della logica mostrano le proprietà logiche del linguaggio e dunque del mondo. La logica, per il filosofo del Tractatus, era dunque radicata nella realtà:

Tutto il mio compito consiste nel chiarire l’essenza della proposizione.
Cioè, nel rendere l’essenza di tutti i fatti la cui immagine è la proposizione.
Rendere l’essenza di ogni essere. [Wittgenstein, op. cit., p.129]

Questo appunto del 22.1.15 può leggersi accanto a un’altra famosa affermazione, contenuta in una annotazione più tarda, del 2.8.16:

Sì, il mio lavoro si è sviluppato dai fondamenti della logica alla essenza del mondo. [Ibidem, p.174]

Il filo che lega queste asserzioni è la certezza, in qualche misura (al di là degli esiti critici del Tractatus) metafisica, di avere con la propria ricerca svelato o, meglio, esibito il Wesen (essenza) della realtà, passando per la fondazione della logica: ciò che le proposizioni logiche manifestano sono proprietà formali non solo del linguaggio ma anche di ciò di cui esso può essere immagine: i fatti, la cui totalità, come recitano le prime proposizioni dell’opera, è il mondo.

Certamente la sostanza della tesi wittgensteiniana poggiava sull’assunto, indiscutibilmente ribadito nel Tractatus, del pensiero come proposizione e della proposizione come immagine proiettiva, e quindi della centralità della forma logica interna alla proiezione. È comunque indicativa, nuovamente anche per la genesi dell’opera, la direzione dell’indagine: dalla logica al mondo, a dispetto della organizzazione che alle sue proposizioni l’autore impose per la redazione finale. Partito dai principi del simbolismo, Wittgenstein aveva finito per concentrarsi sul problema di come le proposizioni possano significare, rappresentare il mondo.

La costruzione proposizionale del mondo

Solo la realtà interessa la logica. Dunque, le proposizioni solo nella misura in cui sono immagini della realtà. [Ibidem, p.97]

La logica si prendeva cura di sé poggiando solo sulla natura essenziale delle proposizioni, la quale si esprimeva nelle tautologie, proprie della logica, palesando le proprietà formali che il linguaggio deve condividere con la realtà per poterla raffigurare. La logica, in altre parole, presupponeva non fatti o oggetti logici, ma semplicemente che le proposizioni avessero senso e i nomi significato [H-J. Glock, A Wittgenstein Dictionary, Oxford, 1996, p.202]: in questo essa finiva per toccare il mondo.

Il movimento che le pagine dei Quaderni 1914-1916 consentono di rintracciare va dal linguaggio, dalla sua logica, verso il mondo. Ma il mondo con cui si aprirà il Tractatus non è immediatamente quello quotidiano, piuttosto, indirettamente, un costrutto funzionale alle esigenze linguistiche. Un mondo, in altre parole, in cui devono darsi elementi semplici che possano essere designati da termini linguistici (nomi) e complessi strutturati significati dalle proposizioni, che a loro volta organizzano nomi o altre proposizioni.

Il concetto generale della proposizione porta con sé anche un concetto generalissimo della coordinazione di proposizione e stato di cose: la soluzione di tutti i miei interrogativi deve essere massimamente semplice!
Nella proposizione un mondo è composto sperimentalmente. (Come quando nel tribunale di Parigi un incidente automobilistico è rappresentato con pupazzi ecc.).
Da ciò deve (se non sono cieco) subito rivelarsi l’essenza della verità. [Wittgenstein, op. cit., pp.94-5]

Come abbiamo in precedenza già rilevato, al fondo della ricerca di Wittgenstein può ritrovarsi la convinzione, semplicemente asserita, che le proposizioni siano immagini, raffigurazioni. Questa nota del 29.9.14 ci garantisce una utile prospezione in merito.

La proposizione raffigura uno stato di cose (Sachverhalt - relazione di cose) coordinandosi a esso, correlando i propri elementi semplici con quelli della situazione che intende descrivere-rappresentare. In questo senso essa la ricostruisce, con materiale arbitrariamente scelto (ma non arbitrariamente disposto), o piuttosto ne compone un modello:

La proposizione deve produrre un modello logico di uno stato di cose. Ciò è possibile solo perché ai suoi elementi furono arbitrariamente coordinati oggetti. [...] [Ibidem, p.101]

Il riferimento all’episodio dell’aula di tribunale (che pare aver costituito veramente lo spunto per la teoria wittgensteiniana della proposizione-immagine) è sufficientemente esplicito sulla posizione del filosofo: il rapporto tra mondo e linguaggio è di tipo proiettivo e presuppone correlazione e isomorfismo, cioè una identità di articolazione quantitativa e, pur nell’ambito di sistemi di elementi qualitativamente diversi, una identità di forma tra fatto e proiezione. In virtù di tale continuità strutturale, in cui ritroviamo quanto in precedenza abbozzato parlando della logica, è possibile la comunicazione sensata.

Dalla proposizione si deve vedere la costruzione logica dello stato di che la rende vera o falsa. [...]
La forma di una immagine si potrebbe definire ciò in cui l’immagine deve concordare con la realtà (per poterla raffigurare).
[...]
La proposizione costruisce un mondo con l’aiuto della propria impalcatura logica [...]. [Ibidem, pp.103-4]

Queste annotazioni del 20.10.14 consentono di estrarre la condizione logica che è il vero e proprio ponte tra mondo e linguaggio (di qualsiasi tipo): nella alterità tra immagine e ciò di cui essa è immagine si inserisce il vincolo di identità garantito dalla forma logica.

La proposizione è una configurazione con i tratti logici del rappresentato e altri tratti ancora, ma questi saranno arbitrari e diversi nei diversi linguaggi segnici. [Ibidem, p.105]

Un mondo a uso del linguaggio

La esigenza delle cose semplici è la esigenza della determinatezza del senso. [Ibidem, p.157]

Del mondo nei Quaderni si parla poco e relativamente tardi (dalla metà del 1915), ma, come si intravede nell’appunto del 18.6.15, è chiara la sua funzionalità linguistica: garantire un senso alle proposizioni e un contenuto alle denominazioni. In particolare, affinché il linguaggio non si risolva in una nebulosa regressione da proposizione a proposizione e possa invece determinarsi, è necessario che le proposizioni rinviino in ultimo a proposizioni elementari edificate con elementi semplici come i nomi significanti cose.

È indicativa delle difficoltà che Wittgenstein incontrava nella gestione dei risvolti ontologici del problema questa annotazione del 17.6.15:

E sempre di nuovo ci assale l’idea che c’è qualcosa di semplice, di indivisibile, un elemento dell’essere, in breve una cosa.
[...] noi sentiamo che il mondo deve consistere di elementi. E ciò sembra essere identico alla proposizione che il mondo debba essere proprio ciò che è, debba essere determinato. [...]
Il mondo ha una struttura fissa. [Ibidem, p.155-6]

L’approccio ontologico che ritroveremo commentando le prime proposizioni del Tractatus si delinea dapprima, in termini molto sfumati, come sentire (fühlen): il mondo nella sua Struktur di cose, elementi irriducibili che assicurano puntualità e definitezza alle proposizioni, si rivela all’intuizione, è avvertito appunto come istanza che non si lascia fondare razionalmente. Si tratta, insomma, di una cornice pregiudicata, destinata a soddisfare le esigenze di senso del nostro linguaggio.

Così il mondo è da un lato, metafisicamente, prospettato come mondo, come entità a sé, dall’altro se ne sottolinea la consistenza in elementi: entro questi estremi, di totalità strutturata e semplicità, si dispongono le combinazioni più o meno complesse cui corrisponderanno, sul piano linguistico le proposizioni (atomiche e molecolari).

Ma come devo spiegare ora l’essenza generale della proposizione? Possiamo ben dire: tutto ciò che accade (o non accade), può essere raffigurato con una proposizione. Ma qui abbiamo l’espressione accadere! Essa è altrettanto problematica.
Gli oggetti costituiscono il riscontro alla proposizione.
Gli oggetti posso solo nominarli. Dei segni li rappresentano. [Ibidem, p.143]

Al linguaggio spetterà dunque di fissare nella propria sintassi, con la configurazione dei propri segni e simboli, l’accadere in cui gli oggetti si combinano senza necessità. La dimensione dominante sul piano del contenuto linguistico, sensato nella misura in cui sia capace di raffigurare, sarà dunque quella della accidentalità, della possibilità dell’accadere o non accadere.

Tuttavia, accanto a un piano fisso che deve prevedere oggetti, semplici, Wittgenstein identifica sempre una costruzione, una impalcatura logica del mondo, assolutamente trascendentale:

Un enunciato non può riguardare la struttura logica del mondo, infatti, affinché un enunciato sia in generale possibile, affinché una proposizione possa avere senso, il mondo deve già possedere la struttura logica che essa appunto possiede. La logica del mondo viene prima di ogni verità o falsità. [Ibidem, p.103]

Un mondo incapsulato nel linguaggio

I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.
C’è realmente soltanto una anima del mondo, che io di preferenza chiamo la mia anima, e in base alla quale solamente concepisco le anime degli altri.
La precedente osservazione dà la chiave per decidere in che misura il solipsismo sia una verità. [Ibidem, p.141]

A partire dalla metà del 1915, ma poi, più abbondantemente, dall’estate 1916, cominciano a comparire nei Quaderni annotazioni riguardanti un tema cui il Tractatus, come vedremo, dedicherà alcuni densi passaggi, quello del solipsismo. Un tema che Wittgenstein assumeva direttamente dalla lezione dell’idealismo moderno, attraverso Schopenhauer, ma anche da quella di Russell (che lo aveva discusso in The Problems of Philosophy, 1912), e che si collocava, nella maturazione della sua opera, in una posizione delicatissima, a cavaliere tra il trascendentale, ciò di cui non si può sensatamente parlare in quanto condizione stessa della espressione sensata, e il trascendente, ciò di cui non si può parlare in quanto propriamente al di là dell’orizzonte dell’accadere.

La nota del 23.5.15 è in tale prospettiva molto esplicita: la identificazione dei limiti tra linguaggio (proposizioni, che descrivono gli stati di cose, ma anche il pensiero, che con esse e in esse si esprime [<<Il pensare infatti è una specie di linguaggio. Giacché il pensiero è naturalmente anche una immagine logica della proposizione e dunque una specie di proposizione>> 12.9.16. Ibidem, pp.177-8]) e mondo fa emergere sullo sfondo l’io, dalle cui decisioni linguistiche dipende la manifestazione della realtà. Tuttavia quel soggetto, quell’anima, quella coscienza (si tratta delle diverse modulazioni dello stesso concetto nella tradizione) non sono parte del mondo, non sono elementi-oggetti che si possano significare con termini capaci di combinarsi sensatamente con altri:

La strada che ho percorso è questa: L’idealismo separa dal mondo gli uomini come unici, il solipsismo separa soltanto me, e infine vedo che anch’io appartengo al resto del mondo; da un lato non resta nulla, dall’altro, unico, il mondo. Così l’idealismo sviluppato rigorosamente conduce al realismo. [Ibidem, p.180]

Nella tradizione idealistica, a partire da Descartes, il mondo era stato posto all’interno dell’orizzonte della coscienza, chiudendo il soggetto in una solitudine metafisica da cui era stato poi difficile uscire. Wittgenstein si ritrae dalle implicazioni sostanzialistiche della certezza del cogito e azzera la consistenza di tale metafisica, pur muovendosi lungo la stessa direzione. Dal momento che il soggetto è condizione trascendentale insuperabile, esso non sarà mai oggetto, cioè non rientrerà mai nel mondo della propria esperienza:

È comunque vero che io non vedo il soggetto.
È vero che il soggetto conoscente non è nel mondo, che non c’è alcun soggetto conoscente. [Ibidem, p. 181]

Così, dal lato del soggetto, che non c’è perché non si vede, rimane il nulla e la scena è conquistata completamente dal mondo. In tal senso, coerentemente condotto alle estreme conseguenze, l’idealismo sfuma nel realismo.

Il soggetto rimane contratto come in un punto inesteso, mentre resta la realtà coordinata a esso(2.9.16):

L’Io filosofico non è l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana con le proprietà psicologiche, ma il soggetto metafisico, il limite (non una parte) del mondo. [Ibidem, p.177]

È evidente allora che Wittgenstein conserva un ufficio rigidamente trascendentale all’io, posizionandolo come limite del mondo, in altre parole come ciò che contribuisce a definirlo (nel senso che il linguaggio è sempre linguaggio di un io, che le asserzioni sul mondo rimandano a un io che giudica, ecc.) pur non essendone parte.

La vita della conoscenza

Rispetto al testo del Tractatus che commenteremo, i Quaderni preparatori denunciano una riflessione ampia e tormentata sui temi conclusivi dell’opera: etica, religione e senso della vita. Per quegli aspetti, insomma, che segneranno a fondo anche la storia delle interpretazioni del Tractatus e che Russell stigmatizzava brevemente chiudendo la propria introduzione.

Il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo in questo modo.
In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro sono riuscito a metterlo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne. [Citato in B. McGuinness, Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), Milano, 1990, p.430]

Queste famose affermazioni di Wittgenstein (contenute in una lettera all’editore Ludwig von Ficker, dell’autunno 1919), che anticipano la altrettanto famosa proposizione 7 del Tractatus (Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere), si possono interpretare proprio tenendo conto dell’impegno di scavo documentato nelle annotazioni del 1916, che rappresentano davvero il "non scritto" cui si accenna nella comunicazione. Vale la pena citare integralmente l’appunto dell’11.6.16, in cui affiorano, concentrate, le grandi domande:

Che cosa so di Dio e del fine della vita?
So che questo mondo è.
Che io sto in esso come l’occhio nel suo campo visivo.
Che qualcosa in esso è problematico, ciò che noi chiamiamo il suo senso.
Che questo senso non risiede in esso, ma al di fuori di esso.
Che la vita è il mondo.
Che la mia volontà compenetra il mondo.
Che la mia volontà è buona o cattiva.
Che dunque bene e male sono in qualche modo congiunti al senso del mondo.
Il senso della vita, cioè il senso del mondo possiamo chiamarlo Dio.
E collegare a ciò la similitudine di Dio come padre.
La preghiera è il pensiero sul senso del mondo.
Non posso volgere gli avvenimenti del mondo secondo la mia volontà; piuttosto sono completamente impotente.
Solo così posso rendermi indipendente dal mondo - e in un certo senso quindi dominarlo - rinunciando a un influsso sugli avvenimenti. [Wittgenstein, op. cit., p.167]

Precipitano in queste righe asciutte preoccupazioni di senso, dettate forse dalla lettura degli esistenzialisti russi, Dostoevskij (citato nei Quaderni) e Tolstoj (una delle letture fondamentali nel periodo bellico), dalle pagine di Kierkegaard ovvero dal misticismo di Angelo Silesius. Si dischiudono la via all’espressione inquietudini che, come implicitamente ammesso dallo stesso Wittgenstein a von Ficker, hanno sullo sfondo emotivamente sostenuto l’indagine sulla essenza della proposizione.

D’altra parte la loro emersione si innesta all’interno della meditazione sul trascendentale limite del dicibile e sul soggetto: ciò si rivela sia nel richiamo al nesso tra occhio e campo visivo, sia nella (associata) introduzione del tema della volontà. Infatti, il dato di partenza è quello che abbiamo sopra ritrovato come esito dell’idealismo rigorosamente condotto: la pura effettività del mondo. Esso è: questo è ciò che sappiamo. Non possiamo sensatamente aggiungere alla constatazione né un perché, né un autentico che cosa, pena il superamento dell’orizzonte della fattualità che rende significante il nostro linguaggio.

Dalla emarginazione del soggetto metafisico al limite del mondo deriva anche la marginalizzazione del soggetto del volere, che svolge comunque la propria funzione trascendentale. Il mondo e la vita, infatti, coincidono: i fatti, cioè, sono sempre tali per un io che si rapporta loro innervandoli con le proprie aspettative. Esse non modificano i fatti, in questo senso assolutamente accidentali rispetto alla volontà, non hanno dunque effettività nel mondo. Tuttavia dispongono il soggetto nei confronti del mondo: in tale prospettiva trascendentale si potrà ancora parlare di valori, di bene e male:

L’etica non tratta del mondo. L’etica deve essere una condizione del mondo, come la logica. [Ibidem, p.172]

Ciò che negli appunti sembra premere maggiormente all’autore è comunque il nesso bene-felicità e male-infelicità, in altre parole la coincidenza spinoziana di virtù e premio, nonché la loro immanenza al soggetto del volere:

Come il soggetto non è parte del mondo bensì presupposto della sua esistenza, così buono e cattivo sono predicati del soggetto, non proprietà del mondo. [Ibidem, p.175]

Ma in che cosa consiste la felicità e dunque il bene? Wittgenstein offre degli spunti, in parte ripresi, come verificheremo, anche nel testo pubblicato:

Dostoevskij ha quindi ragione quando afferma che colui che è felice compie il fine della esistenza.
Ovvero si potrebbe anche dire così, che compie il fine della esistenza colui che non ha bisogno di alcun fine fuori della vita. Cioè propriamente chi è soddisfatto. [Ibidem, p.168]

La felicità sembra implicare un atteggiamento di distacco rispetto al mondo, la consapevolezza della sua inalterabilità da parte del soggetto, che si traduce in una rinuncia. Si tratta apparentemente di echi classici, stoici e epicurei, che Wittgenstein, in una lunga nota dell’8.7.16, innesta nel quadro della propria riflessione. La fattualità del mondo, il fatto che esso ci è dato, fanno sì che la nostra volontà si volga a esso come a un fatto compiuto, esterno, indipendente da essa. Questa percezione del mondo è quanto la tradizione ha chiamato fato, ma anche Dio. Wittgenstein, anzi, precisa che come tutte le cose stanno è Dio (2.8.16). Dal fato ci si può rendere indipendenti nella misura in cui si assuma un punto di vista contemplativo, si riesca a cogliere il mondo come un tutto:

L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte e etica. [Ibidem, p.178]

La felicità coincide allora con la accettazione della accidentalità del mondo rispetto al nostro volere e con la capacità di vivere nel presente, non nel tempo: questo significa, appunto, afferrare il mondo come un tutto compiuto. E questa è quella vita della conoscenza che Wittgenstein associa alla felicità:

Come può in genere essere felice l’uomo quando non riesca a evitare la miseria di questo mondo?
Attraverso la vita della conoscenza.
La buona coscienza è la felicità assicurata dalla vita della conoscenza. [Ibidem, p.176]

Il mondo di cui si parla in questi passaggi è ormai chiaramente un mondo totalità estranea all’io (indipendente e contemplato quasi da fuori), il cui valore l’autore fa coincidere con il divino, con quanto, in altre parole, si posiziona oltre l’accadere garantendogli un senso:

Credere in un dio significa comprendere il problema del senso della vita.
Credere in un dio significa vedere che con i fatti del mondo non tutto è esaurito.
Credere in Dio significa vedere che la vita ha un senso. [Ibidem, p.168]

Bibliografia

Edizioni:

Werkausgabe, Bd 1, Frankfurt a.M., herausgegeben von J. Schulte,

Tractatus logico-philosophicus, German text with an English translation en regard by C.K. Ogden. Introduction by B. Russell, London, 1992.

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, Torino, 1983.

Per quanto riguarda la vita di Wittgenstein sono consigliabili:

N. Malcolm, Ludwig Wittgenstein, Milano 1988

B. Mc Guinness, Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), Milano, 1990

R. Monk, Wittgenstein. Il dovere del genio, Milano, 1991.

Per quanto riguarda l’ambiente culturale e la formazione:

A. Janik - S. Toulmin, La grande Vienna, Milano, 1975

G.H. Von Wright, Wittgenstein, Bologna, 1983.

Per una presentazione di insieme:

A.J. Ayer, Wittgenstein, Roma-Bari, 1986

A.G. Gargani, Introduzione a Wittgenstein, Roma-Bari, 1985

A.C. Grayling, Wittgenstein, Oxford, 1988

A. Grieco, Wittgenstein, Milano, 1998

A. Kenny, Wittgenstein, Torino, 1984

D. Pears, Wittgenstein, London, 1997

H. Sluga - D.G. Stern (ed.), The Cambridge Companion to Wittgenstein, Cambridge, 1996.

M. Sbisà, Wittgenstein, Roma, 1975

I. Valent, Invito al pensiero di Wittgenstein, Milano, 1989.

Studi di dettaglio:

G.E.M. Anscombe, Introduzione al Tractatus di Wittgenstein, Roma, 1966

F. Barone, Il neopositivismo logico, Bari-Roma, 1986

M. Black, Manuale per il "Tractatus" di Wittgenstein, Roma, 1967

A.G. Gargani, Linguaggio ed esperienza in Ludwig Wittgenstein, Firenze, 1966

H.-J. Glock, A Wittgenstein Dictionary, Oxford, 1996

J. Griffin, Wittgenstein’s Logical Atomism, Bristol, 1997

G. Hunnings, The World and Language in Wittgenstein’s Philosophy, Albany, 1988

E.-M. Lange, Ludwig Wittgenstein: <Logisch-philosophische Abhandlung>. Ein einführender Kommentar in den <Tractatus>, Paderborn, 1996

D. Marconi, Il mito del linguaggio scientifico. Studio su Wittgenstein, Milano, 1971

A. Maslow, A Study in Wittgenstein’sTractatus, Bristol, 1997

H.O. Mounce, Wittgenstein’s Tractatus. An introduction, Chicago, 1981

D. Pears, The false prison. A study of the development of Wittgenstein’s philosophy, vol. I, Oxford, 1987

G. Piana, Interpretazione del "Tractatus" di Wittgenstein, Milano, 1973

E. Stenius, Wittgenstein’s Tractatus. A critical exposition of the main lines of thought, Bristol, 1996


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