Di Lucio Garofalo
“La durata delle cose, misurata a periodi, specialmente secondo il corso apparente del sole”: questa è la definizione generica del concetto di “tempo” fornita da un comune dizionario della lingua italiana.
Eppure, proprio attorno a tale categoria ed a ai suoi molteplici significati (di ordine storico, filosofico, o di natura astronomica), si è come addensata una coltre di fumo accecante, densa di luoghi comuni e rozze ovvietà, che sono persuasioni assai diffuse nella vita quotidiana di noi tutti. Gli stereotipi sul “tempo” paiono proliferare senza soluzione di continuità, e quasi tutti, eccezion fatta per quei fenomenali campioni della lingua e del sapere umano, se ne servono abitualmente, forse inavvertitamente, magari per riempire il vuoto raccapricciante di certe conversazioni, in altre parole per coprire i “tempi morti” della nostra esistenza.
Sovente infatti, ci capita di ascoltare asserzioni totalmente insensate, che farebbero inorridire le nostre menti qualora fossimo soltanto un po’ più attenti e riflessivi, meno pigri o distratti.
“Ammazzare il tempo”, tanto per citare uno dei casi più dozzinali, è un modo di dire quantomeno sciocco perché non significa nulla se non che si uccide la propria esistenza.
La persona che “ammazza il tempo”, cioè che impiega malamente il proprio tempo vitale, non sapendo cosa fare, non avendo interessi gratificanti, né occupazioni di tipo mentale (come leggere e scrivere) o di carattere fisico (come gli sport), tali da motivare il vivere quotidiano, non coltivando passioni che potrebbero impreziosire la qualità del proprio tempo esistenziale, finisce per annichilire sé stessa, divenendo un essere ansioso, depresso, accidioso, ma non ozioso.
Invero, l’otium dei latini (che per il cristianesimo più bigotto, influenzato da filosofie mistiche orientali e da una forma volgarizzata dello stoicismo, rappresenta il vizio supremo: infatti, l’accidia è compresa tra i “vizi capitali” osteggiati dalla tradizione giudaico-cristiana), che era l’ideale di vita proprio della cultura classica greco-romana (ispirata, invece, da una concezione epicurea, nutrita da orientamenti filosofico-esistenziali che privilegiavano la ricerca della felicità e del piacere di vivere quali finalità somme da perseguire in quanto capaci di liberare l’intrinseca natura della persona umana ), era ed è la condizione dell’individuo privilegiato, del ricco padrone di schiavi, padrone della propria e dell’altrui vita, della persona che non è costretta a lavorare per sopravvivere, che non deve travagliare e può dunque sottrarsi alle fatiche materiali necessarie al procacciamento del vitto e dell’alloggio, non ha bisogno di stancarsi fisicamente perché c’è chi si affanna per lui, e può dunque godersi le bellezze, il lusso e quanto di piacevole la vita può offrire.
L’ otium, in altre parole, è il modus vivendi del padrone aristocratico, del patrizio romano, del parassita sfruttatore del lavoro servile, che non fa nulla ed ha a sua disposizione tutto il tempo per poterlo occupare nella “bella vita”, ovvero in un’esistenza amabile e gaudente per sé, quanto detestabile e dolorosa per i miseri che nulla posseggono, neanche il proprio tempo, sprecato ed annullato per ingrassare e servire i propri simili!
Tutto ciò è vero, purtroppo. È vero, infatti, che non tutti detengono il privilegio o la fortuna (che dir si voglia) di avere molto tempo libero disponibile, da poter spendere in diverse e divertenti attività (la radice etimologica dei vocaboli “diverso” e “divertente”, è la medesima: entrambi derivano dal latino “di-vertere” che sta per “deviare”, ovvero “variare” ).
Anzi, la grande maggioranza degli individui sulla Terra, ancora oggi è costretta suo malgrado a travagliare, a patire, insomma a lavorare per sopravvivere, chi cacciando e vivendo primitivamente, chi coltivando la terra, chi sprecando otto, nove ore a sgobbare in fabbrica, o ad annoiarsi in ufficio, chi occupandosi inutilmente di “affari”, ossia di faccende non gratificanti ma stressanti e frustranti, al solo scopo di lucrare e speculare!
È d’uopo invece, comprendere che il tempo (quello vitale) degli individui, dell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi, rappresenta una risorsa di valore inestimabile, non sul piano economico-materiale, ovvero nel senso venale e più triviale (un altro luogo comune, vergognoso e detestabile, recita: “il tempo è denaro”, ed è abitualmente pronunciato dai cosiddetti “uomini di affari”, i signori del denaro e della finanza, i paperon de’ paperoni, ovvero i parassiti e i nullafacenti della società odierna, gli arrivisti e i carrieristi, gli approfittatori dell’altrui tempo, dell’altrui denaro e dell’altrui ingenuità, gli sfruttatori del lavoro sociale e dell’esistenza dei più miserabili e sventurati), bensì da un punto di vista più propriamente estetico-spirituale, che comprende la sfera del piacere, della bellezza, del godimento, dell’intelligenza, della cultura, dell’arte, dell’amore, della fantasia, dell’immaginazione, della felicità, cioè la dimensione creativa, ludica, libidinosa, della vita.
Il tempo, nella maggioranza delle esistenze individuali, viene sprecato e speso male, se non malissimo, ovvero viene “ammazzato”, svuotato di ogni senso proprio, sicché è la propria vita ad essere abbruttita ed impoverita, e la persona umana si sente avvilita, inutile, quasi disperata, priva di stimoli, di interessi, di entusiasmo, di voglia di vivere.
Il “tempo”, nella fattispecie quello climatico, è frequentemente citato quale insulso e comodo oggetto di conversazione, nel desolante vuoto dell’incomunicabilità e dell’alienazione moderna, quando con sgomento si scopre di non sapere cosa dire, di quali argomenti chiacchierare, con un interlocutore qualsiasi o con un compagno d’occasione, o magari con una personalità oltremodo imbarazzante, la cui ingombrante presenza ci infonde soggezione, oppure quando ci si sente mentalmente affaticati e non si è in grado di elaborare idee originali o di sostenere valide argomentazioni, ovvero perché non si è molto abili o educati all’arte della conversazione e della comunicazione.
Il “tempo atmosferico”, come tema di dialogo e di confronto interpersonale, risulta perciò una sorta di via di scampo o di “uscita di sicurezza” dall’imbarazzo, dalla stanchezza e dal vuoto dell’incomunicabilità, dalla povertà intellettuale, ma in realtà conduce all’abisso dell’ovvietà e della noia, allo squallore dell’ipocrisia, precipitando infine nel baratro dell’angoscia e dell’ignoranza più becera. Frasi trite e ritrite del tipo “che tempo fa oggi?” o “il tempo minaccia...” ecc., talvolta sono spie inequivocabili, che tradiscono la soggezione emotiva, la goffaggine e l’imbarazzo personale, l’incapacità e l’ingombrante difficoltà di comunicare, il conformismo esistenziale e culturale, oppure indicano un atteggiamento di astuzia, di falsità, di “temporeggiamento” (paradossalmente, il “tempo”, come categoria atmosferica, è in taluni casi adoperato quale espediente per “temporeggiare”, vale a dire “prendere tempo”, così da poter pensare ad altro, in attesa che qualcosa accada!), ovvero esprimono il desiderio di indugiare oltre, l’ansia di “guadagnar tempo” (appunto!), magari perché si tenta di approfittare di qualcosa o di qualcuno. Da questo punto di vista, i luoghi comuni e le convenzioni sul “tempo”, inteso nella più comune accezione meteorologica, si sprecano a dismisura, e quel concetto , sì tanto nobile e complesso, finisce per essere assurdamente involgarito e banalizzato come in nessun altro caso, al solo fine di camuffare un pauroso vuoto di idee, per dissimulare propositi malvagi, per mascherare, in modo maldestro, emozioni, intenzioni, stati d’animo o quanto possa apparire indice di vulnerabilità.
Intorno al senso meteorologico-atmosferico del concetto di “tempo”, si “addensano” (tanto per usare una metafora in tema) “nuvole” di inanità linguistiche, vere e proprie “tempeste” di frasi convenzionali, “uragani” di luoghi comuni. Dietro il facile espediente del “tempo” quale argomento di conversazione fin troppo scontato ed ordinario (esiste una sfilza di sinonimi altrettanto prevedibili, da sputare sulla carta, a riguardo), sovente si annidano secondi fini o cattive intenzioni, oppure motivi di timidezza, ingenuità, goffaggine, se non proprio un’ignoranza abissale, magari anche un’indolenza mentale, un’abitudine al conformismo ed alla miseria intellettuale, una carenza di idee proprie ed originali, uno stato di profonda immaturità culturale. Si potrebbe ironicamente (o cinicamente) osservare che, in questi casi, il “tempo” (vale a dire il “clima”, quale banalissimo oggetto di conversazione) può “annebbiare” la mente e “ottenebrare” lo spirito, nella misura in cui ci si abitua (sciaguratamente) alla più deteriore condizione esistenziale, ossia alla pigrizia intellettuale, che è l’esatto contrario dell’”otium” di cui si è già spiegato il senso più vero e più nobile, che non è “sfaccendare” o “non fare nulla” (ossia “sprecare il tempo”, “oziare” nel senso capitalistico-borghese di non esercitare “negotium”, che è l’attività per accumulare denaro, intraprendere imprese lucrose, siglare “affari d’oro”, e via discorrendo).
L’”otium” non è propriamente lo stato del “fannullone”, quantunque si sia già spiegato chiaramente che esso rappresenta una condizione privilegiata, appartenente ad un’élite aristocratico-classista che non deve fronteggiare le difficoltà quotidiane della sopravvivenza materiale. In un certo senso, l’”otium” (in quanto negazione del “negotium”) è una virtù, un talento, che presuppone molteplici e diverse qualità creative, anzitutto l’abilità e la capacità di impiegare il proprio tempo libero realmente disponibile, per migliorare e valorizzare progressivamente e costantemente la qualità della propria esistenza, grazie ad una serie di impegni gratificanti quali la lettura di bei libri, la visione di bei film, l’ascolto di buona musica, l’amore (in tutte le sue dimensioni, compreso quello carnale), le buone amicizie, la buona gastronomia, le belle arti, il godimento delle bellezze naturali e di ogni altra gioia o piacere che la vita è in grado di offrirci, soltanto se lo volessimo, solamente se sapessimo organizzare il nostro tempo, e se davvero ne avessimo la possibilità!
IL “TEMPO” NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA OCCIDENTALE
Finora si è trattato, in maniera piuttosto generica, ironica e superficiale, del concetto di ”tempo”, senza aver chiaramente determinato i suoi numerosi significati, cioè cosa si definisce con tale vocabolo di carattere multisemantico e multiconcettuale. In effetti, se ci addentrassimo nei meandri della filosofia, delle scienze, della linguistica, della semiotica e di tutti quei rami disciplinari, o artistici, in cui la categoria del “tempo” riveste un ruolo centrale, potremmo senz’altro rinvenire una pluralità di significati e di concetti, ciascuno inerente in maniera specifica ad un dato settore. Ad esempio, nel campo della musica l’accezione di “tempo” è alla base del ritmo e della melodia e si definisce, appunto, come “tempo musicale”, la cui spiegazione più propriamente tecnica non è tra le mie personali competenze. Così nella poesia, laddove (come nella musica) ci sono tempi da osservare e scandire, in quanto sono parte di una metrica, cioè dell’arte di comporre in versi (dall’etimologia greca “metros” che sta per misura), più esattamente di una tecnica di misurazione del “tempo” e del ritmo musicale in forma di poesia, avvalendosi di unità di misurazione quali le sillabe, il numero dei versi, e via discorrendo. Non è un caso che in origine, nell’antica Grecia, la poesia fosse cantata. Infatti, i versi dei celeberrimi poemi omerici dell’Iliade e dell’Odissea, erano cantati e si tramandavano oralmente di generazione in generazione, attraverso appunto il veicolo del canto e della melodia musicale. Forse è questa una delle principali ragioni per cui la poesia contemporanea ha smarrito il suo valore ed il suo fascino, ed è stata soppiantata dalla canzone d’autore e dalla musica leggera in genere, per cui un Battisti, un Dalla, un De Gregori, un Guccini, un De Andrè, sono più famosi di un Montale, di un Ungaretti, di un Saba, di un Campana, di un Pasolini!
Volendo compiere un’opera di sintesi, cioè di collegamenti logici, è possibile distinguere, nell’ambito storico-filosofico occidentale, tre fondamentali scuole di pensiero, relativamente al significato o, per meglio dire, ai significati del termine onnicomprensivo di “tempo”.
IL “TEMPO OGGETTIVO”
Il primo filone è quello che concepisce il “tempo” come ordine misurabile del “divenire”, ovvero del movimento storico-cronologico, del fluire dei giorni e delle notti, delle stagioni, degli anni, ecc. A tale concezione si legano le seguenti idee.
Nell’antichità:
Eraclito di Efeso
La visione ciclica del mondo e dell’esistenza umana, compresa la teoria di Eraclito del “panta rei” (tutto scorre), dell’inarrestabile e perpetua trasformazione di tutte le cose (per cui nulla è “sacro”, immortale o eternamente immutabile , neanche Dio!...).
La “metempsicosi”
L'idea della “metempsicosi”, cioè dell’eternità e dell’immortalità dell’anima attraverso la “reincarnazione” in altre forme o gradi di esistenza, che si possono ritenere superiori o inferiori, in virtù di meriti o demeriti, di valori o di colpe, vale a dire in forza del bene e del male che si è compiuto in un’ipotetica e presunta vita precedente, per cui se si “retrocede” ad uno stadio inferiore, vuol dire che la propria condotta in vita, da essere umano, è stata caratterizzata da malefatte, mentre la successiva trasmigrazione dell’anima in una forma di vita migliore, è il risultato di un’azione e di un comportamento all’insegna dell’onestà, della bontà e della virtù in genere. Tale dottrina, di origine orientale, è molto antica ed è presente nell’orfismo, nel pitagorismo e nel platonismo; essa è sopravvissuta sino ai giorni nostri, perpetuandosi nelle millenarie tradizioni religiose dell’induismo e del buddhismo.
A riguardo, va sottolineata una singolare e paradossale coincidenza rispetto ad una seppur vaga affinità concettuale globale, sul versante della percezione del “tempo” come nozione di un “divenire” ciclico infinito ed inesauribile, tra due delle più irriducibili ed antitetiche visioni del mondo e dell’esistenza, da un lato la teoria ateo-materialistica del filosofo di Efeso, dall’altro una delle dottrine di maggiore ispirazione mistico-spirituale in senso assoluto che la storia del pensiero umano abbia mai conosciuto.
Statua raffigurante il Buddha
Nell’età moderna:
Galilei (1564-1642) e Newton (1642-1727)
La concezione scientifico-naturalistica del “tempo”, determinata in modo particolare dalle intuizioni rivoluzionarie di Galileo Galilei e di Isaac Newton, i quali distinsero opportunamente tra il “tempo assoluto”, cioè oggettivo, esteriore, reale, fisico, che è scientificamente misurabile attraverso appositi strumenti di calcolo – quali, ad esempio, un pendolo, una clessidra, un orologio, un calendario ecc. -, ed il “tempo relativo, che è invece soggettivo, interiore, non suscettibile d’essere oggettivato, vale a dire misurato e calcolato per mezzo di congegni meccanici o di criteri scientifici rigorosi, di precisione matematica.
Kant (1724-1804)
Alla fisica sperimentale di derivazione galileiana e/o newtoniana. dominante nel corso di tutta l’epoca moderna, si contrappose fermamente - e, oserei dire, coraggiosamente - il maestoso genio tedesco di Immanuel Kant, la cui posizione, indubbiamente originale ed innovativa, fu successivamente ripresa e rilanciata da un altro illustre, sottile ed ingegnoso spirito tedesco, Albert Einstein, la cui eminente opera scientifica è tuttora un cardine fondamentale della fisica e, se vogliamo, della conoscenza universale contemporanea. Alla riduzione meccanicistico-materialistica del “tempo”, operata dalla filosofia e dalla scienza moderna (cioè pre-kantiana), il celebre pensatore di Könisberg, impegnato nel superbo sforzo di rifondare la metafisica classica su basi matematico-scientifico rivoluzionarie - quanto rigorose -, enunciò la tesi che riduceva l’”ordine di successione temporale” (in una parola, il “tempo”) ad un “ordine di causalità” (ossia lo “spazio”), costituendo entrambi le principali categorie dell’intelletto umano, intese quali “forme a priori” della conoscenza fenomenica, nella misura in cui sono assolutamente necessarie all’esperienza ed allo studio della realtà sensibile (al contrario, secondo la metafisica aristotelica, quelle categorie sono proprietà del mondo reale, fisico e naturale).
La concezione kantiana ha subito certamente alcune scosse profonde ad opera dei successivi progressi scientifici e filosofici, in modo particolare dallo sviluppo delle geometrie non euclidee e dalla ”teoria della relatività”.
Per Kant il “tempo”, la sua successione reale, oggettiva, storica, è “il criterio empirico unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa” - da: “Critica della Ragion pura”.
Einstein (1879-1955)
Albert Einstein ha in qualche maniera riproposto, ai giorni nostri, l’intuizione kantiana (quantunque essa sia stata messa in crisi, come già si è accennato, proprio dallo stesso padre della teoria della “relatività generale”), per contrapporla nuovamente alla meccanica ed alla fisica tradizionale di ispirazione galileiana e newtoniana, enunciando la “relatività” della misurazione temporale, vale a dire la “relatività” del “tempo oggettivo”, quantificabile e misurabile in chiave matematico-scientifica, senza però intaccare, rinnovare o mutare alla radice, il concetto classico e tradizionale del “tempo” in quanto “ordine di successione”, bensì negando semplicemente (!) che tale ordine di successione fosse unico ed assoluto.
In altri termini, Einstein ha negato l’esistenza di un sistema di riferimento privilegiato per la misurazione della durata temporale e delle lunghezze in genere, nella misura in cui esistono infiniti punti (o spazi) del Cosmo, dove la scansione del tempo reale ed oggettivo (in quanto esterno alla personale percezione e conoscenza interiore, propria del soggetto che conosce, cioè l’individuo umano) può, in linea teorico-virtuale, essere valutata, calcolata, misurata e definita in termini matematici totalmente diversi e distanti ( in maniera “stellare”, appunto!) dalla realtà spazio-temporale terrestre. Così, tanto per citare un esempio chiarificatore, ciò che per noi, ovvero per il nostro sistema privilegiato - o convenzionale - di riferimento e di misurazione, rappresenta un “anno solare” (astronomicamente inteso come il “tempo” che il pianeta Terra impiega per compiere esattamente la sua orbita di “rivoluzione” attorno al Sole), può corrispondere ad un “minuto secondo” (del nostro sistema di misurazione temporale) in un angolo assai remoto dell’Universo, oppure ad un’”ora” in un altro punto (o spazio) cosmico, in virtù di una stretta relazione di interdipendenza spazio-temporale che fu Kant ad intuire chiaramente, pur espondendola e formulandola in sede teoretico-metafisica e non propriamente scientifica.
Einstein, sviluppando l’intuizione filosofica kantiana, tradotta in un ambito più prettamente scientifico, ha ipotizzato che il rapporto tra le tre dimensioni dello spazio e quella del tempo dipenda principalmente dai confini della velocità della luce, a loro volta condizionati dalla presenza di campi gravitazionali.
Reichenbach (1891-1953)
Successivamente, Hans Reichenbach ha riscoperto e rivalutato la tesi kantiana nei riguardi della fisica della “relatività” einsteniana, riaffermando l’identità di “tempo” e “causalità”, ovvero ribadendo e rilanciando l’ipotesi secondo cui la successione temporale sarebbe da correlarsi all’ordine di successione tra la causa e l’effetto, per cui “il tempo è l’ordine delle catene causali: questo è il principale risultato della scoperte di Einstein (...)L’ordine del tempo, l’ordine del prima e del dopo, è riducibile all’ordine causale (...) L’inversione dell’ordine temporale per certi eventi, che è un risultato che deriva dalla relatività della simultaneità, è solo una conseguenza di questo fatto fondamentale. Dal momento che la velocità della trasmissione esistono eventi tali che nessuno di essi può essere la causa o l’effetto dell’altro. Per eventi siffatti l’ordine del tempo - cioè del prima e del dopo, non può essere definito e ognuno di essi può essere detto posteriore o anteriore all’altro.” (da: “Albert Einstein: Philosopher-Scientist” di Hans Reichenbach, 1949). Pertanto, la tesi Kantiana della riduzione del “tempo” alla categoria della “causalità” può essere intesa come la più alta proposizione filosofica avanzata nell’ambito della più generale cognizione della “tempo” quale “ordine di successione” e “misurazione” del movimento storico del “divenire”, empiricamente scandito e percepito in base al susseguirsi del giorno e della notte, delle stagioni, e quindi in base al ciclo vitale del mondo che sembra rinnovarsi in eterno, quantunque si tratti (come ampiamente mostrato) di una visione oltremodo ingenua, arcaica, superficiale, pre-scientifica, semplicistica, empirico-sensibile, oramai superata dalle teorie moderne di Newton, Galilei, Kant e dalle affermazioni più recenti e contemporanee di Einstein e Reichenbach, che pure riprendevano e riproponevano, sviluppandole alle estreme conseguenze l’intuizione kantiana dell’interdipendenza e dell’identità tra “tempo” e “causalità” - ossia tra tempo e spazio -, secondo una concezione relativistica del “tempo misurabile”, ovvero del “tempo oggettivo”(esteriore).
IL “TEMPO SOGGETTIVO”
La seconda, importante corrente storico-filosofica, è quella che definisce il “tempo” quale “movimento intuito”. A tale concezione si ricollega la nozione di “coscienza” e quindi di “soggettività”, con cui il “tempo” viene identificato.
Hegel (1770-1831 )
Hegel considera il “tempo” come “divenire intuito”, cioè come intuizione del movimento. In particolare “il tempo è il principio medesimo dell’Io = Io, della pura autocoscienza; ma è quel principio o il semplice concetto ancora nella sua completa esteriorità ed astrazione.” (da: “Encyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse” di Hegel, 1827).
Hegel dunque, non identifica il “tempo” con la “coscienza”, bensì con qualche aspetto parziale o astratto della coscienza medesima.
Bergson ( 1859-1941 )
Un altro grande pensatore più contemporaneo, il francese Henry Bergson si è fermamente opposto alla visione scientifica del “tempo”, definendo il “tempo” della scienza come un tempo”spazializzato” e che perciò non possiede alcun carattere che la coscienza riconosce in quanto proprio del “tempo”. Esso infatti, viene rappresentato come una successione lineare, “una linea” (la “linea del tempo”), ma “la linea è immobile, mentre il tempo è mobilità. La linea è già fatta mentre il tempo è ciò che si fa, anzi è ciò per cui ogni cosa si fa.” (da: “La pensée et la mouvant » di Henry Bergson, 1934).
Husserl ( 1859-1938 )
Non molto diversa è la concezione che il filosofo tedesco, Edmund Husserl , ha del “tempo fenomenologico”: “Ogni effettiva esperienza vissuta è necessariamente qualcosa che dura; e con questa durata si inserisce in un infinito continuo di durate, in un continuo pieno. Essa ha necessariamente un orizzonte temporale attualmente infinito da ogni parte. Il che significa che appartiene ad un’infinita corrente di esperienze vissute. Ogni singola esperienza vissuta, come può cominciare così può finire e chiudere la sua durata, come fa, per esempio, l’esperienza di una gioia. Ma la corrente delle esperienze non può né cominciare né finire.” (da: “Ideem zu einer reiner Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie“ di Edmund Husserl, 1950). Come la “durata” bergsoniana, la “corrente dell’esperienza” conserva tutto ed è una specie di “eterno presente”.
“ESSERE E TEMPO”: Heidegger (1889-1976)
Infine, la terza scuola di pensiero incentrata sul tema del “tempo”, è quella ispirata dall’esistenzialismo.
Essa concepisce il “tempo” come “struttura delle possibilità”. Tale visione offre alcune significative innovazioni concettuali nell’analisi dell’idea del “tempo”, ed è illustrata da Martin Heidegger nella monumentale opera intitolata “Essere e tempo” del 1927, che già nel titolo annuncia l’identità tra i due termini.
Mentre le due precedenti concezioni si fondano sul primato del “presente”, la teoria esistenzialista di Heidegger riconosce invece il primato dell’”avvenire” nell’interpretazione del “tempo” in termini di “possibilità” o di ”progettazione”.
Tale analisi, sicuramente innovativa ed originale, contiene e presuppone un serio e gravoso impegno sul versante metafisico, nella misura in cui il “tempo” viene concepito e rappresentato come una sorta di “circolo” (o “movimento circolare”) in base al quale ciò che si prospetta in avvenire, in quanto possibilità e/o progettualità, è già stato, e a sua volta ciò che è già accaduto in passato, è ciò che si prospetta in futuro (in tal modo, il “cerchio” si chiude e ricomincia, rinnovandosi e perpetuandosi nell’eternità).
RIFLESSIONI FINALI
A questo punto, con la filosofia esistenzialistica di Martin Heidegger, potrebbe esaurirsi il compito, sicuramente umile e modesto, della presente ricerca sul tema, assai vasto e complesso, del ”tempo”, in particolare come problema al centro della speculazione teoretico - metafisica e dell’indagine scientifica, nel corso più generale ed ampio della storia del pensiero occidentale (quantunque sia stata rappresentata e ricostruita in estrema sintesi).
Ebbene, dopo questa necessaria, utile e preziosa disamina storico-filosofica circa il senso e la nozione del “tempo” nella varietà e molteplicità delle sue interpretazioni (che contengono ed esprimono accezioni e sfumature assai differenti, sovente divergenti ed antitetiche, talvolta convergenti ed affini, sotto il profilo meramente concettuale), ogni altra considerazione potrebbe risultare sciocca e superflua. Al contrario, mi pare che proprio tenendo conto di quelle impareggiabili costruzioni del pensiero e dello spirito umano, che hanno avuto per oggetto il problema del “tempo” (ma non solo), proprio in virtù dei risultati conseguiti da quelle indagini di stampo scientifico e/o filosofico, ad opera di alcuni tra i maggiori ingegni del genere umano (sono stati citati, infatti, Galilei, Newton, Kant, Einstein, Hegel, Bergson, Husserl, Heidegger...), non sarebbe per nulla scontato, né banale, pensare al “tempo” come al principio essenziale che riesce a conferire un senso ed un valore alla nostra esistenza, individuale e collettiva, storica, sociale, di soggettività e di singole persone, ma altresì di specie o di genere umano. Il “tempo” è stato e può essere concepito in quanto “durata”, “successione”, in maniera “lineare” o “circolare”, come “finito” o “infinito”, “assoluto” oppure “relativo”, “oggettivo” e “soggettivo”, “unico” o “molteplice”, e via discorrendo, ma una cosa è certa: senza il “tempo” , non esisterebbe nulla. Difatti, se non ci fosse ciò che definiamo “tempo” o, per meglio dire, se noi non tenessimo più conto del flusso del tempo, dell’esperienza vissuta, dei giorni e delle notti, dei cicli stagionali, degli anni, della nascita e del tramonto solari, dell’età che avanza inesorabilmente, della vita e della morte, insomma se noi vivessimo a prescindere dal “tempo”, se noi fossimo ad esempio immortali, molto probabilmente non sapremmo che fare, ci annoieremmo “a morte”, non potremmo e non sapremmo affatto apprezzare i veri ed essenziali valori della vita e del mondo, dunque saremmo persi, condannati ad un cieco destino senza fine.
Immaginiamo, per un momento, che la Terra fosse circondata da una sorta di “guscio” astronomico immenso che oscura il Sole, impedendo così la nostra percezione o coscienza, del “divenire” e dello scorrere del ”tempo”, che fine faremmo? Oppure, cosa accadrebbe se, per ipotesi, noi abolissimo tutti gli orologi, i pendoli, le clessidre, i calendari, ed ogni criterio o strumento di misurazione temporale (per quanto relativa, finita, storica e terrestre, possa essere, secondo la teoria einsteniana della “relatività” del “tempo oggettivo”, scientificamente e matematicamente misurabile)?
Probabilmente, non ci sarebbe “progresso”, e noi non avremmo mai potuto realizzare tutto quanto l’umanità ha saputo compiere : l’invenzione della scrittura; la scoperta del fuoco e dell’agricoltura; la lavorazione dei metalli; la costruzione delle piramidi in Egitto, del Partenone, del Colosseo, dei grattacieli; l’invenzione dell’energia elettrica e dei calcolatori elettronici; la scoperta della matematica; la produzione di inestimabili capolavori artistici e letterari, nella pittura, nella scultura, nella poesia, nella musica, nel romanzo, nel teatro, nel cinema (perché no, anche nel fumetto!) ecc. ecc.; l’invenzione della ruota , del motore a scoppio, dei sottomarini, degli aerei supersonici, delle astronavi spaziali, dei satelliti artificiali; l’invenzione del telegrafo, del telefono, della radio, della televisione, del fax, della trasmissione via Internet; l’invenzione dell’aria condizionata, di tutti quegli elettrodomestici che hanno alleviato e reso più comodo l’impegno quotidiano delle massaie e delle casalinghe (svolto sempre più, per fortuna, anche dagli uomini); la scoperta dell’America, l’esplorazione degli oceani e degli spazi interstellari ; la scoperta della penicillina e degli antibiotici, l’invenzione dei vaccini immunizzanti e tutti i grandi, preziosi sviluppi avvenuti nel campo medico-sanitario ( legati non solo alla medicina tradizionale, farmacologica, occidentale, ma anche ad altre scuole e forme di medicina, di matrice orientale, in particolare a quella araba, a quella cinese, a quella indiana); è così via, l’elenco non avrebbe termine...In altre parole, non esisterebbe alcuna traccia di civiltà, di cultura, di intelligenza dell’uomo, e non vi sarebbe alcun segno della nostra stessa presenza sulla Terra.
Perciò, grazie di esistere al “tempo” (a ciò che, convenzionalmente, definiamo tale), alla vita ed alla morte, nella misura in cui senza la morte, ovvero senza il “tempo”, non potrebbe esserci nemmeno la vita, e noi non sapremmo come e quanto apprezzare, riconoscere e consolidare i valori, i beni, le ricchezze, le bellezze, i piaceri e le gioie che l’esistenza medesima è in grado di offrirci, proprio in ragione del fatto che possiamo e sappiamo riconoscere e disprezzare (e, paradossalmente, apprezzare!...) il male, la violenza, l’orrore, l’ingiustizia, le bruttezze, la malvagità, la prepotenza, i dispiaceri, il dolore, la morte...
Da quanto esposto finora può discendere un’estrema (ma non conclusiva) valutazione. Banalmente, ciò che davvero conta, non è tanto la durata, ossia la quantità del nostro tempo vissuto, bensì la sua qualità. A riguardo, mi sovviene un altro, diffusissimo luogo comune, il quale si può così tradurre: ”Ho cinquanta anni, ma me ne sento venti”. In verità, potrebbe persino essere l’esatto contrario: ”Ho venti anni, ma ne sento cinquanta”!
Forse, la soluzione del dilemma risiede (banalmente?) nel mezzo, ossia nella giusta misura, nel senso che le risposte ad ogni domanda dell’esistenza, richiedono una sintesi tra due opposti estremi, per sanarne le fratture o le contraddizioni, anche per ricomporre le più irriducibili e radicali fra le antitesi. Questo ragionamento (di matrice hegeliana) ha sicuramente senso, quantomeno per il quesito prima formulato. Voglio dire che, indubbiamente, e fortunatamente, l’età anagrafica esiste, nella misura in cui il tempo scorre ed avanza in modo implacabile e ineluttabile. Ma è altrettanto vero ed innegabile che non sempre l’età mentale e soggettiva (cioè il tempo interiore, spirituale, qualitativo) corrisponde all’età anagrafica, vale a dire al tempo cronologico, esteriore, oggettivo, assoluto, matematicamente misurabile e quantificabile. Ed è altresì vero ed inoppugnabile che tutto ciò che ha a che fare col “tempo”, è assolutamente relativo, personale, effimero, fugace, transitorio, e mutevole, nel senso che io potrei avere (anagraficamente parlando) trenta anni e sentirmene, in un dato momento o contesto, appena diciotto, mentre in un’altra situazione o in un altro frangente addirittura settanta! Tutto è assolutamente relativo e storicizzabile, soprattutto il “tempo”. Ciò che appare oggettivo e reale, può diventare soggettivo, grazie al “tempo”, ed è sempre il “tempo” che rende finito e mortale ciò che appare o crediamo infinito ed immortale, e viceversa.
Il “tempo” costituisce dunque, la misura del valore che ha la nostra esistenza, che è unica e sola, fino a prova contraria (nel senso che possiamo vivere una volta sola), a meno che non sia vera la dottrina della “metempsicosi”. Tuttavia, il “tempo”, quantunque possa apparire un problema oltremodo astratto e cerebrale, quasi incomprensibile per certi versi (pensiamo, ad esempio, all’analisi heideggeriana), non può assolutamente essere banalizzato, perché rischieremmo di banalizzare la nostra stessa esistenza, il che vuol dire rischiare di vivere inconsciamente, ciecamente, vanamente, banalmente!