Per una teoria realista della democrazia
Di Alessandro Sangalli
«Quando sento la mano del potere
appesantirsi sulla mia fronte […]
non sono maggiormente
disposto a infilare la testa
sotto il giogo solo perché
un milione di braccia me lo porge»
Alexis de Tocqueville
Democrazia è sinonimo di libertà e uguaglianza, è il prodotto di cui l’Occidente va più fiero, è uno dei tratti caratterizzanti della nostra civiltà. La democrazia, nel panorama moderno, ha alimentato le riflessioni di molti importanti pensatori, a partire dai philosophes illuministi fino ad essere oggetto di discussioni filosofico-politiche anche in pieno Novecento. Il suo principio cardine è l’uguaglianza politica tra i membri di una comunità, cioè il medesimo diritto di partecipazione di tutti i cittadini adulti a decisioni che riguardino la collettività sociale. Uno dei maggiori teorici della democrazia del Novecento, Hans Kelsen, riprendendo in qualche modo la teoria contrattualistica di Rousseau, sintetizzava lo spirito democratico dicendo che, se dobbiamo essere comandati, «lo vogliamo essere da noi stessi»[1]. In altre parole, come scrive Stefano Petrucciani, «se gli uomini devono vivere sottoposti alle leggi coercitive di uno stato, l’unica soluzione perché essi non perdano la loro libertà è che, di queste leggi, siano essi stessi gli autori»[2].
La democrazia sembra quindi la maniera migliore per tutelare gli interessi e le libertà di tutti, attraverso la garanzia di uguaglianza costituita dalla partecipazione collettiva alle decisioni politiche.
Tuttavia esiste qualcuno che non è d’accordo e non condivide appieno questa opinione. Joan Schumpeter, ad esempio, rifiuta tout court l’assunto centrale del paradigma rousseauiano: secondo il pensatore austriaco non esiste nessun Bene Comune cui le singole volontà possano tendere per dar vita ad una Volontà Generale, poiché la volontà del soggetto politico nello stato moderno non è nient’altro che «un fascio confuso di impulsi vaghi, operanti su slogans e impressioni equivoche»[3]. Detto altrimenti, significa che l’elettore medio è altamente influenzato da slogan efficaci, cartelloni con facce sorridenti e mass-media manovrati: chi ha in pugno questi mezzi, ha in pugno anche gli elettori. In una simile situazione non abbiamo più democrazia, ma pura demagogia, nel senso etimologico del termine: condurre e guidare le masse a proprio piacimento[4]. Di qui l’importanza che le tecniche di propaganda hanno in tutti i governi democratici, tecniche che permettono di controllare le masse e fabbricare consenso: più una società è libera, più è difficile usare la forza e più energia va dispiegata per controllare le opinioni e i comportamenti. Quando le società si democratizzano e abbandonano la coercizione fisica come strumento di controllo ed emarginazione, le élites si rivolgono naturalmente alla propaganda. Ergo, il flusso del consenso non procede (democraticamente) dal basso verso l’alto, ma (demagogicamente) dall’alto verso basso. «Non sono i governati ad orientare i governanti, ma i governanti a condizionare i governati»[5].
Queste considerazioni letteralmente capovolgono la dottrina classica della democrazia. In una prospettiva simile, infatti, non è più la volontà dei cittadini a dar vita alla decisione politica (come accadeva per Kelsen), ma, al contrario, il consenso dei cittadini è la posta in gioco della battaglia elettorale che i politici ingaggiano per conquistarlo. È, in altre parole, il modello del mercato: fra i partiti politici, infatti, «si instaura una competizione simile alla lotta concorrenziale degli imprenditori per conquistare i consumatori»[6], competizione che ha come oggetto il voto popolare.
La domanda sorge spontanea: stando così le cose siamo ancora all’interno di una democrazia? Formalmente sì, in quanto, finché c’è libertà di scelta tra diversi concorrenti, resta in piedi la libertà democratica, ma, de facto non più, perché la funzione del voto popolare non è più quella (democratica) di tradurre in decisioni politiche la volontà generale, ma si riduce più passivamente a quella di accettare una certa leadership. Il potere elettorale del cittadino consiste, in definitiva, nello scegliere chi lo comanderà, e questa, a mio parere, non è più democrazia. A intervalli regolari, i cittadini hanno il diritto di scegliere nella classe dei capi qualcuno che li diriga: fatto ciò, devono tornarsene a casa, badare ai propri affari, guardare la TV, consumare, acquistare, lavorare e – soprattutto – non disturbare chi comanda. «Le grandi aziende di pubbliche relazioni, pubblicità, arti grafiche, cinema, televisione […] devono innanzitutto creare “bisogni artificiali” e far sì che le persone si dedichino a soddisfarli, ognuna per conto suo, isolata dalle altre. […] Occorre creare pareti artificiali, tra le quali rinchiudere la gente e isolarla»[7].
La funzione dei partiti politici non è altra che quella di conquistare il consenso di un elettore medio che, per quanto intellettualmente evoluto nel suo ambito professionale, si presenta totalmente impreparato sul terreno politico, dove non possiede né conoscenze di prima mano né una preparazione adeguata. In questa prospettiva gli interessi dei votanti e quelli dei politici sono completamente divergenti: gli elettori sono interessati ai programmi politici e alla loro attuazione pratica, mentre i politici sono interessati ai programmi solo in quanto strumenti per raccogliere voti, che poi è lo scopo per il quale questi programmi sono confezionati. Detto in altro modo: mentre l’elettore vede i programmi politici come fini e i suoi voti come mezzi per ottenerne l’applicazione, il politico, viceversa, guarda ai programmi che prepara come a mezzi per raggiungere i suoi fini. Anche se poi il fine primario è uno solo: il potere. Una volta raggiunto il fine primario tramite demagogici programmi elettorali, il politico può perseguire i suoi fini secondari: primi fra tutti la tutela dei propri interessi economici privati, con buona pace della Volontà Generale e di Rousseau.
In ultima analisi, nella democrazia moderna il cittadino è inerme di fronte al potere: è spesso uno spettatore, mai un attore. Massimo Fini, esplicito come di consueto, usa per descrivere la situazione del cittadino moderno una parola d’altri tempi, suddito: tutti noi non siamo che sudditi, «senza potere, senza autorità, schiavi di coloro cui incuteremmo timore se la Repubblica esistesse davvero»[8]. Ognuno di noi – rileva Fini – avverte che non conta niente nella società, pur sentendo continuamente dire che vive in un sistema dove è formalmente lui il detentore del potere: è una beffa. In un’intervista apparsa sul settimanale Culture, lo scrittore arriva a definire la democrazia «un sistema di minoranze organizzate che opprimono l’individuo, l’uomo libero» e «l’involucro legittimante della caramella avvelenata»[9].
Queste conclusioni possono sembrare pessimistiche e volutamente provocatorie, ma sono certamente frutto di un limpido ragionamento razionale e possono casomai essere definite realistiche. Tuttavia, conservano il loro statuto di interpretazioni e non pretendono certo di essere assunte come verità: brevi riflessioni che servono più a seminare dubbi che a raccogliere certezze, perchè spesso sono molte le domande che possiamo porci, ma poche le risposte che sappiamo darci. Non per questo dobbiamo abbatterci: il dubbio è il primo passo verso la verità. Viviamo veramente in una democrazia, cioè in un sistema politico in cui il potere, la capacità di prendere le decisioni essenziali per la vita comune è consegnato nelle mani del popolo? I sistemi parlamentari che dall’Europa si stanno diffondendo un po’ ovunque nel mondo (spesso imposti con la forza) sono davvero il sostegno di una politica più giusta? O sono invece la sovrastruttura di un potere che viaggia per tutt’altri canali, che restano in gran parte invisibili, o comunque incontrollabili, per i cittadini? Siamo – in definitiva – attori o spettatori?
[1] H. Kelsen, La democrazia, Bologna, Il Mulino, 19845, p. 40.
[2] S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Torino, Einaudi, 2003, p. 193.
[3] J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, Etas Libri, 1984, p. 242.
[4] Si avverte nella visione di Schumpeter l’eco della cosiddetta teoria delle élites di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Giuseppe Rensi. Questi autori si possono annoverare tra i maggiori critici novecenteschi della democrazia liberale, di cui evidenziano i limiti di formalismo e di astrattismo.
[5] M. Fini, Sudditi. Manifesto contro la democrazia, Padova, Marsilio, 2004, p. 76.
[6] S. Petrucciani, op. cit., p. 199.
[7] Noam Chomsky, Due ore di lucidità. Conversazioni con Denis Robert e Weronika Zarachowicz, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 20052, p. 20-21.
[8] Sallustio, Bellum Catilinae, XX. Frase tratta dal discorso di Lucio Sergio Catilina, traduzione mia.
[9] Intervista apparsa sul n. 43 del settimanale Culture, 13 febbraio 2005, p. 5.