Modelli dell’individuo liberale.

Riflessioni sui fondamenti della società libera.


di Pili Giangiuseppe

 

 

 

 

 

 

Introduzione.

L’ispirazione e la ragione di questo lavoro si muovono all’interno del pensiero filosofico degli autori qui trattati. La causa adeguata di tale riflessione si esaurisce nella comprensione delle leggi che governano gli individui nelle loro relazioni quotidiane, siano esse fisiche o sociali. Per ciò, non ci sarebbe modo migliore che ricercare in sé stessi le ragioni dei comportamenti altrui e dei propri. Tuttavia, questo metodo, sebbene sia imprescindibile e sottoscritto da David Hume, è anche, spesso, problematico. Soprattutto, il più delle volte non raggiungiamo la chiarezza e coerenza, fonti d’ogni conoscenza. Per tale ragione, non c’è modo migliore di procedere che analizzare le proprie passioni, le proprie idee attraverso lo studio accurato, minuzioso e attento di chi, a differenza nostra, aveva le idee chiare.

Abbiamo mostrato l’ispirazione, la passione, per dirla con Hume, e abbiamo mostrato la ragione di tale lavoro. Considerato l’obbiettivo assai complesso, è necessario esplicitare l’ispirazione metodologica a cui ci affidiamo: “Quale è il più piccolo numero di cose semplici e indefinite da cui partire, e il più piccolo numero di premesse indimostrate, a partire dalle quali si possano definire le cose che devono essere definite e dimostrare le cose che devono essere dimostrate? Il problema, in qualunque caso lo vogliate considerare, non è in nessun modo semplice ma, al contrario estremamente difficile”[1]. Questa frase di un altro grandissimo pensatore anglosassone, Bertrand Russell, è stata l’idea guida per la costruzione dei “modelli” a cui abbiamo cercato di dare luce. Sebbene Russell sostenesse l’indispensabilità dell’uso della logica simbolica, possiamo senza dubbio applicare questo “ideale” metodo ai grandi testi della filosofia del passato, se non alla lettera, almeno in modo che ci renda possibile costruire quel “vocabolario minimo” essenziale alla comprensione del filosofo che andiamo analizzando. In fin dei conti, nell’analisi dei filosofi, gli studiosi tendono a scegliere un metodo simile a questo, anche se non lo esplicitano.

Chiarito anche il metodo, dobbiamo spendere due parole ancora sul perché abbiamo scelto proprio questi filosofi. Se il nostro intento era quello di comprendere i comportamenti umani all’interno della società, a partire dalla conoscenza, non ci pareva modo migliore che ripercorrere i grandi classici del pensiero che hanno portato, in vario modo, alla formazione delle democrazie liberali attuali. Hobbes, Locke, Hume, quali altri pensatori meglio di loro hanno riflettuto su queste questioni?

Capitolo I. Il modello di Hobbes.

Parte 1.1[2]. Teoria della conoscenza: l’empirismo materialista.

“Se tuttavia il primo fondamento di questo discorso non sono le definizioni o se le definizioni non sono connesse correttamente in sillogismi, allora il termine finale o conclusione è di nuovo un’opinione”[3].

T. Hobbes.

 

Quando Hobbes scrive le sue opere più importanti, la filosofia era in gran parte dominata dalla ricezione della “nuova scienza” sia nella versione deduttivista di matrice cartesiana, sia nella visione galileiana il cui metodo-osservativo è il centro della scienza. Da un lato Cartesio, il suo metodo matematico e le idee innate, dall’altra Galileo, il suo metodo sperimentale e i risultati dell’osservazione. La scienza si poteva dire ben fondata ma andava incontro ad un profondo paradosso: Cartesio aveva, sì, aperto la strada ad una costruzione di una scienza “necessaria” e rigorosa che andasse ogni ragionevole dubbio, tuttavia lo aveva fatto a caro prezzo: mettendo tra parentesi la bontà della nostra conoscenza a partire dai sensi, se slegata da una adeguata comprensione delle idee innate. Le idee avventizie e fattizie non sono che idee parziali e inadeguate, rispetto alle idee che abbiamo attraverso il nostro intelletto.

La filosofia dopo Cartesio non poteva che prendere atto di questo paradosso e, a partire dalle soluzioni tentate per sanarlo, si formeranno due correnti di pensiero: il razionalismo e l’empirismo. Entrambe le posizioni nascono dallo stesso problema: cercare di risolvere il paradosso lasciato aperto alla nascita della scienza e cercare di definire meglio il ruolo “attivo” della sensibilità all’interno della conoscenza umana.

Hobbes si rende conto della condizione di discredito parziale a cui la sensibilità era andata incontro con la teoria di Cartesio. Non è certo oggetto di dubbio il fatto che Hobbes fosse un ottimo conoscitore della visione cartesiana, egli stesso legge l’opera più importante del filosofo francese, le Meditazioni, e a questi scrive “Le obiezioni alle Meditazioni Metafisiche di Cartesio”, pubblicate dallo stesso Descartes in appendice al suo testo insieme ad altre obiezioni di altri autori.

Il modello “negativo” a cui Hobbes fa riferimento è quello cartesiano, come per Cartesio lo era stato quello aristotelico-scolastico. Il filosofo inglese, in ogni caso, si rende conto dell’insufficienza di una scienza qualitativa come quella scolastica e prende le distanze anche da essa, senza ricadere in tutte le assurdità, incoerenze e, soprattutto, nei verbalismi di quella impostazione filosofica.

Per tutti coloro che hanno dovuto affrontare polemicamente le soluzioni della riflessione del grande francese, si staglia un grande problema: riuscire a smantellare la credibilità su cui stava quella filosofia e, contemporaneamente, proporne una nuova, capace di arrivare agli stessi risultati.

La conoscenza, per Hobbes, proviene interamente dai sensi: “L’origine di tutti i nostri pensieri è ciò che chiamiamo SENSO; non si dà nessuna concezione nella mente umana che non sia generata inizialmente, in tutto o in parte, dagli organi di senso”[4]. Da questa assunzione, vediamo come Hobbes operi una chiara scelta di campo su cui costruire la sua teoria epistemologica. Il soggetto giunge a provare sensazioni in virtù di modificazioni corporee a partire da altri corpi. Se vediamo da qualche parte un albero è perché i nostri occhi sono sensibili alla luce che l’albero riflette, se noi sentiamo una certa sensazione soffice e gradevole quando accarezziamo il pelo di un gatto è perché la nostra pelle viene a contatto con un altro corpo il quale trasmette al nostro una certa quantità di moto.

La nostra conoscenza inizia coi dati di senso, i quali vengono immagazzinati nella memoria. Tuttavia, la memoria non ha alcuna capacità attiva, ma può rievocare le sensazioni che abbiamo avuto precedentemente nei sensi. Le immagini che abbiamo nella mente mantengono un certo contenuto rappresentazionale, indipendentemente dal fatto che siano poste immediatamente dalla sensazione piuttosto che dalla memoria. Ma, si può osservare, la nostra mente non si limita a “riprodurre in sé stessa” gli oggetti esterni, ma può anche concorrere a crearsi idee a cui non corrisponde nulla nella realtà o, semplicemente, di oggetti immaginari: la capacità della mente di associare o dissociare immagini è detta, appunto, “immaginazione”[5].

La nostra capacità di costruirci immagini non implica il potere di costruirci delle sensazioni non esperite precedentemente dai sensi. Come abbiamo visto, Hobbes è estremamente chiaro in proposito: qualsiasi idea, uno stato mentale di contenuto rappresentazionale, trae interamente il suo materiale dall’esperienza.

Fin qua abbiamo visto quali siano i fondamenti della conoscenza, tuttavia, fino ad ora ci siamo limitati ad una conoscenza piuttosto “soggettiva”, limitata ad un soggetto. La conoscenza deve riguardare tutta la comunità degli uomini. Infatti, non solo noi sentiamo la necessità di comunicare, ma dobbiamo anche farlo se vogliamo ampliare più velocemente le nostre conoscenze. Se ad un’idea di senso, noi associamo un suono e ogni qual volta che sentiamo quel suono noi ricordiamo l’idea, abbiamo un “nome”. Il linguaggio è la somma dei nomi utilizzati da una comunità. Come si vede, il linguaggio è intimamente connesso con i nostri stati mentali, ed è proprio in virtù di questo che il linguaggio non solo serve per la comunicazione, ma pure per una maggiore capacità di conservazione delle idee. Dunque, il linguaggio è anche un’espansione della memoria. Tuttavia, il linguaggio ha anche un’altra funzione fondamentale: quella di connettere in un unico ragionamento sensato, più idee distinte; in altre parole, noi possiamo conoscere i fenomeni secondo connessioni logiche solo in quanto esiste il linguaggio. Infatti, se stessimo solo ai sensi o all’immaginazione, noi non arriveremmo a fissare le nostre idee in trame logiche coerenti, giacché la mente passa di continuo da una sensazione all’altra. Inoltre, i sensi, ma anche la memoria e, di conseguenza, l’immaginazione, non offrono una struttura solida su cui fondare la scienza giacché costituiscono, sì, la materia ma non la “forma stabile” della conoscenza. Questa forma stabile è offerta dalla trama logica del linguaggio.

Si potrebbe rimanere perplessi di fronte a questa impostazione: se la sensazione è il fondamento ultimo della nostra conoscenza, allora non è affatto chiaro come il linguaggio possa andare oltre i limiti della sensibilità. Intanto, sarebbe errato dire che il linguaggio oltrepassa la sensibilità in quanto ogni parola connette un’idea e l’idea nasce nella sensazione in ogni caso. In secondo luogo, proprio perché il linguaggio connette idee e non potrebbe pensarsi senza quelle, le connessioni logiche e i ragionamenti coerenti che nascono dall’uso della lingua non possono che essere lo specchio di realtà fenomeniche. Il soggetto è in relazione col mondo, la sensazione è in relazione con il soggetto, la sensazione è in relazione col linguaggio dunque il linguaggio è in relazione col mondo: come la terra intorno al sole, così il linguaggio gira intorno al mondo.

Riassumiamo brevemente le basi della teoria hobbesiana: (1) ogni sensazione è indotta nel soggetto a partire da una modificazione del suo corpo, (2) ogni nostra conoscenza si fonda sulla sensazione, (3) la sensazione può essere conservata dalla memoria, (4) a partire da sensazioni esperite nell’immediato o conservate nella memoria, la mente può unire o scindere idee a suo piacimento, (5) ad una certa idea noi possiamo connettere un suono, la condivisione di suoni per medesime idee consente di comunicare e costruire delle inferenze.

Vediamo le possibili conseguenze di tale dottrina. In primo luogo è chiara la matrice materialista dell’empirismo di Hobbes. Ed è interessante come, tra i più grandi empiristi inglesi che di lì a poco rifletteranno su temi simili, il Filosofo sia l’unico a professarsi chiaramente favorevole ad un materialismo radicale: “ogni sensazione è indotta nel soggetto a partire da una modificazione del suo corpo” sembra essere un’ipotesi ovvia, banale, per un empirista. Ma ciò è falso. Il pensiero di Hobbes è agli antipodi rispetto a quello di Berkeley. Lo stesso Locke preferirà non decidersi intorno alla questione, lasciandola tra parentesi perché, nella teoria della conoscenza, la definizione di sostanza, per usare le parole di Spinoza “ciò che è in sé ed è concepito per sé”[6], non è importante: ciò che conta è dire come arriviamo a conoscere[7].

Altra conseguenza delle ipotesi di Hobbes è che la nostra conoscenza non è assoluta, ma parziale sia in quanto le nostre sensazioni intorno ad un medesimo oggetto sono incostanti sia perché ogni soggetto ne ha diverse della medesima cosa. Se la conoscenza del singolo non è assoluta, allo stesso modo la conoscenza della scienza non potrà esserlo giacché non si vede come oltrepassare il limite della relatività ed incertezza della conoscenza soggettiva[8]. La scienza non potrà che essere un linguaggio ben formato, vale a dire, quel linguaggio che nasce da definizioni, frasi dove ad ogni nome è connessa una e una sola idea, e inferenze dalle definizioni[9].

Al principio avevamo detto che Hobbes deve affrontare lo scontro a viso aperto con la filosofia cartesiana: rimuoverla implica ricostruire una filosofia capace degli stessi risultati su basi diverse. In effetti, Hobbes non arriva alle stesse conclusioni di Cartesio: quest’ultimo, infatti, aveva un’idea della scienza del tutto diversa da quella di Hobbes, vale a dire, una scienza del necessario, di ciò che è e non può che essere. Il filosofo inglese, invece, rifiuta nettamente questa idea sostenendo proprio l’opposto: la scienza non è conoscenza dell’assoluto ma procede per condizionali, in altre parole, è conoscenza del possibile. Così possiamo dire che il primo grande empirista inglese post-cartesiano ha, sì, fondato una visione funzionale ed alternativa della scienza, ma al prezzo di “depotenziarne” i risultati e le possibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parte 2. Dinamica delle passioni e filosofia dell’azione.

“…così quell’uomo che, preoccupato del futuro, guarda troppo avanti a sé, ha il cuore tutto il giorno roso dalla paura della morte, della povertà o di altre calamità e non trova quiete né tregua alla sua ansietà se non nel sonno”[10].

T. Hobbes.

 

L’antropologia di Hobbes si fonda su un empirismo materialista, come abbiamo visto. Le conseguenze di tale interpretazione radicale dell’empirismo non si ferma alla pura e semplice constatazione in ambito epistemologico ma prosegue con assoluta coerenza anche all’analisi delle passioni umane. L’intero sforzo di Hobbes è finalizzato alla comprensione della base del buon-governo intesa come gestione del potere capace di conservare i propri individui. In questo senso, è necessario comprendere quali siano i moventi delle azioni degli uomini e come questi si rapportino l’uno con l’altro. Se il fine è la definizione del governo è imprescindibile capire quali siano i suoi fondamenti e dove risieda la sua legittimità e la sua forza.

L’azione dell’uomo non nasce esclusivamente dalla conoscenza, prova ne è il fatto che molti uomini ricercano cose assai contrarie alla ragionevolezza e all’intelligenza. La mente dell’uomo non si determina a partire dalla conoscenza, ma abbisogna di qualche altro movente: se la conoscenza è in tutto determinata dalla variazione degli organi di senso, da un meccanicismo radicale, allo stesso modo deve esserci una qualche forma “meccanica” per la formazione dell’intenzionalità.

L’uomo è costituito da parti in reciproco rapporto e la loro continuità funzionale, volta alla sopravvivenza del tutto, è ciò che garantisce l’unità dell’organismo. Se il corpo è inserito nel mondo e il mondo non è altro che l’insieme dei corpi che si muovono o permangono nella quiete, allora l’urto di altri corpi con il nostro determinerà o delle conseguenze positive oppure negative. La sensibilità dell’uomo non è solamente capace di avvertire la forma degli altri corpi e le loro varie proprietà, ma anche di percepire le sensazioni di piacere o dolore in relazione agli eventi con cui veniamo a contatto e che ci influenzano. Dunque, possiamo distinguere le sensazioni di questo secondo tipo, non vincolate alla creazione di una qualche forma di conoscenza degli oggetti, in due modi: piacere e dolore.

Il piacere e il dolore sono il risultato di una catena causale grazie alla quale l’organismo o è agevolato nella sua sopravvivenza oppure no. Se è agevolato, allora prova una sensazione di benessere, se invece è ostacolato, prova una sensazione di dolore. Il piacere e il dolore sono dunque connessi direttamente al benessere o al malessere del corpo, semplificando, sono paragonabili alle spie delle automobili che indicano sé la macchina sta funzionando bene o male.

Le azioni umane non sono direttamente causate dalla ragione o dalla conoscenza, esse devono essere preposte dalla nostra ricerca del benessere. Detto questo, se è vero che la conoscenza rimane subordinata ai desideri quando la mente deve determinarsi per agire, sarebbe anche inesatto supporre che Hobbes limiti alla sola spinta della passione l’azione umana. Il rapporto tra conoscenza e desideri è chiarito dal filosofo stesso: “I pensieri, infatti, sono, rispetto ai desideri, come esploratori e spie che perlustrano ogni luogo per trovare la strada verso le cose desiderate, dato che ogni fermezza e ogni rapidità del movimento mentale deriva da qui”[11]. In altre parole, la conoscenza non è indipendente dalla facoltà volitiva in quanto essa procede a perlustrare le zone d’ombra, cioè le conseguenze di determinate scelte. Se il desiderio di bere alcolici può essere smodato, tocca alla ragione comprendere quali siano i limiti adeguati delle nostre azioni: bere di per sé può causare piacere e un certo benessere del corpo, ma quando si esagera allora il bene si tramuta in male, il piacere diventa dolore. La passione, sia essa indotta dai costumi sociali piuttosto che da puri desideri, non deve essere lasciata andare a briglia sciolta, ma deve essere vincolata dalla ragione.

Possiamo provare a contestualizzare il discorso applicandolo ad una situazione pratica. Abbiamo detto che la ragione, o scienza, non è altro che un discorso logico dove ad ogni parola segue un significato certo, fondato nell’esperienza. Abbiamo anche mostrato come le azioni umane, per Hobbes, abbiano come unico movente la passione, in generale la ricerca del piacere e la fuga del dolore. E’ possibile che la mente arrivi a desiderare qualcosa, la tale cosa è riconosciuta come “buona” in quanto produce piacere a seguito della soddisfazione del desiderio. Questo processo di determinazione dell’azione segue una linea retta che procede dal desiderio verso l’oggetto. Tuttavia, tra l’oggetto e il soggetto si staglia tutto l’insieme dei punti intermedi necessari al raggiungimento dello scopo. Ciascun punto rappresenta un evento distinto dagli altri e ogni evento causa benessere e malessere e tutta una rete di conseguenze causali a catena. La conoscenza delle conseguenze di ogni passaggio necessario per arrivare allo scopo è conosciuto dalla ragione: così, se il malessere supera il benessere allora la mente deve procedere o a scartare la catena e cercarne un’altra, o deve escludere lo scopo. La ragione sembra dover assolvere più il primo compito rispetto al secondo in quanto è suo compito comprendere o indurre da principi esperienziali quanto consegue alle nostre decisioni pratiche e valutarne la bontà.

A questo punto, qualcuno potrebbe obbiettare che la ragione, limitandosi alla conoscenza delle proprietà degli oggetti, conosce gli oggetti per quel che appaiono non per quel che sono. Dunque può correttamente inferire le conseguenze delle nostre scelte, in quanto poste da una serie di catene causali naturali al pari di tutti gli altri eventi, ma non possa in alcun modo “sentire” il piacere o il dolore connesso a quelle possibilità. In questo senso, la mente può crearsi un’immagine precisa degli eventi che capiteranno ma non potrà decidersi sul da farsi. Questa obiezione è tanto più forte perché si fonda sugli stessi “assiomi” della filosofia di Hobbes: (1) ogni nostra conoscenza si fonda sull’esperienza né la ragione può in alcun modo creare qualche idea se non a partire dalla qualche sensazione passata; (2) la ragione non determina mai la mente a fare o non fare una determinata azione.

Hobbes non ha da temere alcun che da tale obiezione. E’ vero che la ragione si fonda sull’esperienza e che essa non è in grado di competere con le passioni, ma la memoria può “ricordare” se ad un determinato evento consegua una sensazione di piacere o meno. Dunque, ad un ragionamento sulle conseguenze delle nostre scelte si può anche associare un certo valore di piacere o di dolore e quindi comprendere se i benefici superano o no i mali. L’obiezione è respinta.

E’ chiaro come la pensa Hobbes intorno a ciò che determina le nostre azioni: la passione, cioè una certa disposizione dei nostri organi, segnala un certo desiderio, compito della ragione e dell’immaginazione è valutare i mezzi adatti a raggiungere l’obbiettivo. In tutto questo, possiamo osservare che non v’è alcun principio di “libero arbitrio”, la mente non è in grado di essere assolutamente “libera”, se con libertà intendiamo la libertà di indifferenza. Il meccanicismo di Hobbes è ferreo. “Secondo il significato proprio del termine, si intende per LIBERTA’ l’assenza di impedimenti esterni. Questi impedimenti possono frequentemente diminuire il potere posseduto da una persona per fare ciò che vorrebbe, ma non possono impedirle di usare il potere che le è rimasto nei modi che il suo giudizio e la sua ragione le detteranno”[12]. Com’è chiaro, la libertà è intesa come “libertà di spontaneità” ma ciò non implica un’assolutezza, un’assenza di vincoli da parte della mente. In primo luogo, la libertà dell’individuo è determinata dal numero di “forze resistenti” alla volontà o al desiderio. Dunque, al decrescere delle cause resistenti v’è un aumento della potenza dell’individuo. Se questo è un limite esterno, estrinseco alla possibilità del soggetto, v’è anche un limite interno. Hobbes parla di “potere residuo” rispetto alla quantità di forze resistenti. Tale potere può essere sfruttato utilmente solo grazie “al giudizio e alla ragione”, dunque alla conoscenza. In questo senso, tanto più un individuo è incapace di ragionare e riflettere sulle proprie possibilità e tanto più la sua capacità si annichilirà, tenderà ad essere lasciata al caso delle catene causali esterne. Se è vero che la ragione non può determinare in alcun modo l’azione dell’uomo, è anche vero che essa è l’unica fonte della nostra capacità di sfruttare o meno le risorse che abbiamo, dunque di indirizzare a buon fine le nostre decisioni.

L’analisi che ci ha condotto fino a qui, ci consente di vedere in controluce l’ombra di quel modello che tratteggeremo più in là. Infatti, sappiamo come l’uomo non solo si determini all’azione, ma pure come agisca, secondo la visione hobbesiana. Possiamo anche spingerci oltre e osservare come l’individuo così concepito sia assolutamente avviluppato su se stesso. Egli è sciolto dal resto degli individui ed è tutto attento all’ottenimento del proprio scopo. Gli altri sono degli atomi esattamente come lui. La ricerca delle azioni è il piacere del corpo, per meglio dire, il suo benessere. Esistono solo dei corpi in relazione, delle entità che ricercano non soltanto di sopravvivere ma anche di vivere piacevolmente. In tutto questo, possiamo dedurre che l’individuo è egoista e il suo bene consiste esclusivamente nel suo benessere, così come il suo male consiste nel suo malessere.

Questo è sufficiente, secondo Hobbes, a spiegare il bene e il male degli uomini nelle sole condizioni naturali. Non c’è altro, non c’è nessun bene trascendente, nessuno scopo ulteriore rispetto alla necessità della conservazione della propria vita. La ragione e la conoscenza sono imprescindibili strumenti rispetto a quel combattimento quotidiano che determina la nostra sopravvivenza: “Bene e male sono nomi che significano nostri appetiti e nostre avversioni, che variano al variare dei temperamenti, dei costumi e delle concezioni degli uomini. Sicché uomini diversi non differiscono solamente nel loro giudizio sulle sensazioni di ciò che è gradevole o sgradevole al gusto, all’odorato, all’udito, al tatto e alla vista, ma anche di ciò che è conforme o in disaccordo con la loro ragione nelle azioni della vita ordinaria. Anzi, lo stesso uomo in temi diversi, differisce da se stesso; e ciò che una volta loda, ossia chiama bene, un’altra volta critica e chiama male; donde sorgono dispute, controversie e, in ultimo, la guerra”[13].

La relatività del piacere, del benessere, la relatività dell’individuo e dei suoi mezzi per raggiungere la sopravvivenza determinano una condizione di “dispersione” degli interessi e assai spesso genera dispute e “…in ultimo, la guerra”. La condizione default dell’individuo tra gli altri è quella di un continuo scontro: la sopravvivenza non è altro che la ricerca della propria superiorità a scapito degli altri. Questa condizione “naturale” degli individui è chiamata da Hobbes stato di natura ovvero quella “condizione naturale” in cui tutti gli individui esistono indipendentemente dalla società. Ma di questo, andremo a parlare nel capitolo successivo. Compresa la teoria dell’azione, non possiamo che procedere nell’analisi della teoria sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parte 3. Il diritto dei cittadini e la legittimità del governo.

“…la giustizia è la volontà costante di dare a ciascuno il suo. Perciò dove non esiste suo, ossia dove non esiste proprietà, non esiste ingiustizia; e proprietà non esiste dove non esiste un potere coercitivo istituito, cioè dove non esiste Stato, giacché [ in questo caso ] tutti gli uomini hanno diritto a tutte le cose: quindi, dove non esiste Stato, nulla è ingiusto”[14]. T. Hobbes.

Sezione 3.1. Lo stato di natura.

Solo dopo aver oltrepassato la teoria della conoscenza e la teoria dell’azione si può giungere alla visione di Hobbes intorno al governo. Abbiamo appena avuto un assaggio dell’immagine hobbesiana intorno alla realtà sociale, un’immagine che nasce e cresce intorno all’individuo, atomo e motore mobile di tutta la società. Se Cartesio aveva elaborato un’epistemologia tutta incentrata all’interno dell’individuo, spostando i presupposti della certezza dentro la soggettività, così Hobbes procede nel mondo sociale.

La società non nasce dalla naturale socievolezza dell’uomo, il gruppo non nasce spontaneamente. L’uomo starebbe benissimo da solo, anzi, se non ci fossero alcune passioni che necessitano la cooperazione di più individui per il soddisfacimento, probabilmente non ci sarebbe alcuna necessità di costituire una società.

Hobbes analizza l’uomo nello stato di natura, cioè quel “modello ideale” in cui ciascun uomo pensa da sé e per sé. L’unico movente delle azioni, lo si è detto, è da ricercarsi nella volontà di vita e nella ricerca della soddisfazione personale. Dunque, l’individuo determina le sue proprie azioni a partire dal proprio egoismo.

L’egoismo individuale giustifica ogni azione nello stato di natura e, in esso, l’unica legge riconosciuta è quella della forza. In una condizione di egoismo tanto radicale e pervasivo non ci sarebbe alcuno spazio per la pace: gli individui stanno tra loro in un insanabile rapporto di conflitto perpetuo. Ognuno pensa per sé e la proprietà non è determinata da nulla, in quanto essa è frutto di un patto sociale, di un vincolo a cui ci si può appellare qualora fosse violato. Ma nello stato di natura, non c’è alcuna possibilità di far appello a giudici ulteriori ed imparziali, piuttosto ognuno ha diritto a proteggersi per sé come può. La condizione di natura è lo stato di guerra perpetuo.

 

 

 

 

Sezione 3.2. Il diritto naturale e la società civile.

Tuttavia, anche nella condizione di natura esiste un diritto, per la verità, scoperto dalla ragione: “Il DIRITTO DI NATURA; che gli scrittori chiamano comunemente Jus Naturalae, è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo”[15]. Il diritto di natura è la definizione della libertà all’interno dello stato di natura. La liceità d’usare la propria forza per la difesa di se stessi è una proprietà posta direttamente dal fatto che il nostro corpo è costituito in modo tale da resistere agli eventi esterni e la nostra mente è in grado di decidere in maniera tale da potersi difendere con tutti i mezzi che gli sono disponibili. In sintesi estrema, la nostra “natura” umana si esprime direttamente come ricerca della sopravvivenza, da ciò deriva il nostro diritto ad essa.

Da questa considerazione, come è chiaro, non c’è alcun limite all’egoismo individuale, semmai c’è una sua legittimazione. Ogni individuo ricerca la sua propria soddisfazione anche a scapito degli altri e da qui nasce, come si è visto, la continua condizione di conflitto, uno stato di guerra che, in senso metafisico, permane anche in seno alla società –ognuno ricerca la sua propria soddisfazione con qualsiasi mezzo-. Nello Stato la lotta per la soddisfazione non deve trascendere in forme illecite, cioè che dal metafisico si passi al fisico. Per Hobbes, infatti, tale condizione di conflitto interiore all’individuo e interno alla stessa società è essenziale e necessario. Diventa obbligatorio, per fondare una società garante della sopravvivenza dei singoli, tener conto di questa proprietà inerente alla natura umana e alle società. E si può ben capire da queste assunzioni radicali come il pensatore si sia attirato tante ire da parte di uomini inclini a riflessioni superficiali ed ipocrite[16].

L’uomo nello stato naturale non gode di alcun diritto “prescritto da alcuna legge”[17] in quanto è ancora al di là di ogni potere civile il quale è il solo garante della presenza di una Legge: la società inizia là dove inizia la Legge e un potere in grado di mantenerla vigente. Così, lo Stato ha come requisiti fondamentali da un lato il potere legislativo, ma dall’altro il potere esecutivo: senza queste due condizioni, lo Stato perde di senso. Tuttavia esiste un diritto che esiste a prescindere da ogni condizione sociale, cioè esiste anche all’interno dello stato di natura. Il diritto, infatti, non è altro che l’attestazione di una possibilità reale. La definizione del diritto naturale sopradetta è di capitale importanza perché fa da raccordo tra l’individuo nella condizione di natura e l’individuo nella società. In questo senso, lo Stato civile deve garantire il mantenimento del diritto alla vita, l’unico diritto realmente universale. Tuttavia, a differenza di Locke, per esempio, Hobbes mantiene una visione esclusivista e forte dell’autorità civile la quale ha, come unico limite e come unico fine, la sopravvivenza dei cittadini.

Dal diritto di natura si passa alla Legge, che sta ad esso come la legge di gravitazione universale sta ad ogni singolo corpo: “Una LEGGE DI NATURA ( Lex Naturalis ) è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che proibisce ad un uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per conservarla, e di non fare ciò che egli considera meglio per conservarla”[18] ovvero “…è un precetto, o una regola generale della ragione, che ciascuno debba cercare la pace per quanto ha speranza di ottenerla, e che, se non è in grado di ottenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e vantaggi della guerra[19]. In questa definizione ci sono alcuni punti fondamentali della concezione hobbesiana.

In primo luogo, la legge di natura “è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione”, dunque, è inferita a partire dalla conoscenza adeguata che l’uomo ha di se stesso. La conoscenza continua a tracciare il suo proprio percorso ed esercitare tutta la sua influenza sebbene essa sia solo lo sfondo imprescindibile su cui si costruisce la “scena” ora psicologica ora politica. Inoltre, tenendo conto delle assunzioni ed inferenze della teoria epistemologica, osserviamo che la Legge è conosciuta a partire dalla ragione possiamo trarre due conseguenze: (1) essa può determinare altre inferenze, (2) essa è universale. Come il diritto naturale spetta ad ogni uomo indipendentemente dalle condizioni materiali e sociali[20], così la legge naturale vincola il comportamento di tutti gli uomini. L’universalità della Legge è, dunque, duplice: sia in virtù della sua applicazione –vale per tutti- sia per il fatto che tutti la riconoscono come vera. Dunque, sebbene Hobbes non parli mai nel Leviatano di “consenso”, è comunque chiaro che egli faccia appello alla ragione di ogni uomo la quale non potrà che riconoscere l’ubiqua validità della Legge e del diritto di natura: il consenso è conseguenza della conoscenza. L’unico problema è l’egoismo invincibile a causa del quale i più, sebbene potenzialmente ragionevoli, non lo sono affatto, in particolare nelle loro faccende quotidiane.

La legge di natura riconosce e attesta il diritto di natura. D’altra parte, ancora non siamo all’interno della società, siamo, per così dire, in quella sottile linea d’ombra che separa la condizione naturale dal vero e proprio Stato civile. “La causa finale, il fine o il disegno degli uomini ( che per natura hanno la libertà e il dominio sugli altri ), nell’introdurre quella restrizione su se stessi sotto la quale li vediamo vivere negli Stati, è la preoccupazione della propria conservazione e di una vita perciò più soddisfatta”[21]. Senza questa considerazione, non si riesce a comprendere come degli uomini continuamente in lotta si arrestino di fronte ad un potere superiore alla loro stessa momentanea inclinazione. Proprio perché lo Stato si fonda sulla necessità di garantire la vita di tutti, tutti possono riconoscerne la legittimità.

D’altra parte, per la fondazione di uno Stato è anche necessario che gli individui si “autovincolino” a partire dal riconoscimento del diritto altrui. Sebbene Hobbes non faccia tanto appello alla “bontà” degli uomini e alla loro ragionevolezza, preferendo affidare il compito ad un potere coercitivo, è comunque chiaro che gli uomini riconoscono la necessità di limitare le proprie aspirazioni egoistiche fondando dei patti tra loro, in maniera tale da condividere quanto più possibile una condizione di pace. Questa condizione è anche la garanzia di esistenza della proprietà privata, in quanto questa non v’è nella condizione di natura, ma solo nello stato civile. Nello stato di natura, infatti, uno stesso oggetto può essere desiderato in pari modo da due individui distinti e nessuno dei due può appellarsi in modo maggiore dell’altro ad un qualche diritto di proprietà. Per tale ragione la stessa giustizia non può che esistere all’interno della Società civile che si fa garante di tutti i diritti a patto che l’individuo non si svincoli dalle leggi che gli sono imposte: “…la giustizia è la volontà costante di dare a ciascuno il suo. Perciò dove non esiste suo, ossia dove non esiste proprietà, non esiste ingiustizia; e proprietà non esiste dove non esiste un potere coercitivo istituito, cioè dove non esiste Stato, giacché [ in questo caso ] tutti gli uomini hanno diritto a tutte le cose: quindi, dove non esiste Stato, nulla è ingiusto”[22]. Questa visione della giustizia è necessaria all’interno della concezione hobbesiana: l’individuo, come abbiamo detto, non può riconoscere una proprietà all’interno della condizione di natura e, per ciò, continuamente deve lottare per difendere il necessario per sopravvivere. Ma ciò vale anche per gli altri individui e se due o più soggetti ricercano la medesima cosa e non la possono dividere ecco che si scontreranno ferocemente. Solo ed esclusivamente all’interno della società si possono redimere le questioni di questo genere e ristabilire la pace.

Sezione 3.3. Lo Stato.

L’istituzione dello Stato nasce dal patto di singoli individui di una moltitudine che riconoscono un’autorità a loro maggiore, capace di prendere deliberazioni per loro e alle quali loro stessi decidono di aderire: “Si dice che uno stato è istituito, quando gli uomini di una moltitudine concordano e stipulano –ciascuno singolarmente con ciascun altro- che qualunque sia l’uomo, o l’assemblea di uomini, a cui verrà dato dalla maggioranza il diritto di incarnare la persona di tutti loro ( cioè a dire di essere il loro rappresentante ), ognuno – che abbia votato a favore o che abbia votato controautorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini alla stessa maniera che se fossero propri, affinché possano vivere in pace tra di loro ed essere protetti contro gli altri uomini”[23]. Il riconoscimento dell’autorità è assoluto, senza limite alcuno, se non il diritto alla difesa di sé e di tutti quei diritti nati nella nuova condizione di Stato. La legge naturale, infatti, consente di dedurne di altre le quali devono essere conservate all’interno dello Stato perché tutte necessarie a garantire la pace tra gli individui: “ciascuno de[ve] cercare la pace per quanto ha speranza di ottenerla, e che, se non è in grado di ottenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e vantaggi della guerra[24]; “…la seconda legge [ di natura ], che si sia disposti, quando anche gli altri lo siano, a rinunciare nella misura in cui lo si ritenga necessario alla pace e alla propria difesa, al diritto su tutto e ci si accontenti di avere tanta libertà nei confronti degli altri quanta se ne concede alti altri nei confronti di se stessi. Infatti, finché ciascuno detiene il diritto di fare tutto ciò che gli piace, tutti gli uomini sono nella condizione di guerra” ed anche “Dalla legge di natura (…): gli uomini debbono mantenere i patti che hanno fatto[25]. Da tutto ciò risulta chiaro come l’individuo nello Stato di Hobbes non sia così privo di diritti: è certamente tutelato di fronte agli altri cittadini, cioè tutti coloro che hanno accettato il patto originario, ma sono meno tutelati di fronte a colui che esercita la sovranità, sia esso un monarca assoluto piuttosto che un’assemblea.

L’istituzione dello Stato avviene nella Storia a seguito, sì, di un patto tra gli individui, ma pure grazie ad una costituzione di un “potere forte”: questo è indispensabile per piegare l’iniziale condizione di egoismo dell’uomo che, d’altra parte, viene conservato all’interno della società ma che, come abbiamo visto, è costretto a limitarsi. Questo potere coercitivo è indispensabile sia alla costituzione vera e propria dello stato, ma pure al suo mantenimento: per tale ragione, tale funzione dev’essere costante e non cessare. Se s’interrompesse anche per poco tempo, gli uomini sarebbero immediatamente ricondotti allo stato di guerra. Il fatto che lo Stato di Hobbes nasca, in qualche misura, da un “potere coercitivo” ne attesta la natura artificiale. Come dice Hobbes stesso, la società civile non è generata come un formicaio o un alveare[26]

Lo Stato, il grande Leviatano, quindi è: “Una persona unica, dei cui atti una grande moltitudine si sono fatti autori, mediante patti reciproci di ciascuno con ogni altro, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune[27]. In questa definizione risiede la forza e la legittimità dello Stato. Esso ha ogni potere a patto che riesca a garantire la difesa dei propri cittadini.

Per avere un’idea dell’estensione del potere statale concepito da Hobbes basta far caso alla legittimità del potere di giungere sino alle libertà che oggi consideriamo fondamentali, come la libertà di parola e pensiero: “… inerisce alla sovranità l’esser giudice di quali opinioni e dottrine siano avverse e di quali siano favorevoli alla pace e, conseguentemente, inoltre, delle occasioni, dei limiti e di ciò in cui ci si debba fidare degli uomini quando si tratta di parlare alle moltitudini di popolo, nonché di chi debba esaminare le dottrine di tutti i libri prima che siano pubblicati. Infatti le azioni degli uomini derivano dalle loro opinioni, ed è nel buon governo delle opinioni che consiste il buon governo delle azioni degli uomini in vista della loro pace e concordia (…) dottrine contrastanti con la pace non possono essere più vere di quanto la pace e la concordia possano essere contro la legge di natura”[28].

E’ degno di nota che lo Stato di Hobbes sia puramente laico. La religione è un semplice strumento di controllo a disposizione dei governanti. D’altra parte, non potrebbe che esser così, in uno Stato in cui non v’è posto per qualcosa che sia al di fuori dell’utilità o statale o individuale[29].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parte 4. Il modello dell’individuo di Hobbes.

La panoramica fino a qui tracciata ci consente di vedere ad alto livello il complesso meccanismo delineato da Hobbes prima nella descrizione dell’individuo, quindi l’economia e, in fine, lo Stato.

Innanzi tutto sarà un uomo capace di seguire le proprie inclinazioni e farà bene sin tanto che, da un lato, comprenderà le cause che determinano le azioni e le loro conseguenze, da un altro lato, si comporterà in modo aderente al proprio diritto naturale riconoscendo il diritto altrui.

In un senso non scolastico si può parlare, con circospezione e moderazione, di “razionalismo” hobbesiano, nel senso di un riconoscimento fondamentale della centrale importanza della conoscenza: egli fa appello ad essa come leva su cui far affidamento e lo stesso diritto di natura è scoperto dalla ragione. D’altra parte, se la ragione ha un che di positivo, è pur vero ch’essa rimane nell’incerto, non oltrepassa la “possibilità” delle sue deduzioni. In ambito pratico poi, sebbene la ragione possa offrire una chiara previsione sia delle conseguenze delle proprie azioni che quelle altrui, è assai raro che la maggioranza degli uomini si lasci guidare da essa.

La società di Hobbes è costituita da individui che concorrono tutti, nel loro egoismo, alla ricerca della propria soddisfazione e la realtà sociale sarà tanto più unita quanto più all’interno della società gli individui saranno capaci di lavorare fianco a fianco: il benessere sociale è dato dalla somma del benessere dei singoli individui, il benessere pubblico nasce da interessi privati.

L’economia tratteggiata da Hobbes è di tipo liberale all’interno dello Stato, sebbene lo Stato, volendo, potrebbe riservarsi la possibilità di intervenire direttamente attraverso modi consoni, senza alterare, cioè, i singoli diritti inalienabili. D’altra parte, se all’interno dello Stato l’economia è “liberale” ed è tendenzialmente autoregolata, il commercio con gli altri Stati è in tutto nelle mani dell’organo di governo, in quanto i singoli individui hanno demandato nel patto fondamentale questo diritto al governo stesso. Il monarca si può avvalere anche di intermediari, privati dotati di privilegi particolari, ma, in ogni caso, le decisioni inerenti a questo ambito dell’economia rimangono esclusivamente nelle sue mani. In questa concezione non ancora del tutto liberale, v’è il debito ideologico di Hobbes al mercantilismo, la dottrina economica dominante allora.

Lo Stato inizia e finisce con l’insieme dei suoi individui, con l’insieme delle sue leggi e col potere che ha di farle applicare. Tuttavia, sebbene il potere del sovrano sia sconfinato, esiste un suo limite riconosciuto da Hobbes e testimonia la grandezza del filosofo anche in questo campo: egli, prima di Locke, lascia aperta la possibilità di rivolta del popolo contro il proprio sovrano: “[S]e il sovrano comanda a un uomo ( ancorché giustamente condannato ) di uccidersi, ferirsi o mutilarsi, o di non resistere a chi lo aggredisce, o di astenersi dall’uso di cibo, aria, medicine o qualsiasi altra cosa senza la quale non possa vivere, quest’uomo nondimeno ha la libertà di disubbidire…” e anche “se un uomo viene interrogato dal sovrano – o in base all’autorità da quest’ultimo concessa – riguardo a un crimine da lui stesso compiuto, non è vincolato ( ameno che non gli sia stato assicurato il perdono ) a confessare, poiché nessuno (…) può essere obbligato per patto ad accusare se stesso”[30].

A questo punto, non ci rimarrebb che ricapitolare, ma non potremmo fare di meglio che riportare una frase emblematica dell’illustre pensatore inglese: “Sebbene nulla di ciò che è opera dei mortali possa essere immortale, tuttavia, se gli uomini facessero uso della ragione che pretendono di avere, i loro Stati sarebbero al riparo almeno dalla rovina causata da mali interni”[31].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo II. Il modello di Locke. 

Parte 1. Teoria della conoscenza: l’empirismo “moderato”.

“Non c’è alcun dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; e da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi”[32].

I. Kant.

 

Sezione 1.1. Le idee.

Dopo le Meditazioni Metafisiche di Cartesio, non si poteva ignorare il problema di una solida teoria della conoscenza, la nuova scienza fisica lo richiedeva. Con questa finalità, la fondazione della scienza, erano state scritte da Cartesio sia le Meditazioni che “Il discorso sul metodo”. Cartesio aveva posto la solidità della scienza all’interno del soggetto il quale è in grado di conoscere adeguatamente il mondo, solo a patto che egli rivolga in sé l’attenzione, non ai dati di senso.

I dati di senso, per Cartesio, erano fonte di imprecise informazioni, del tutto manchevoli, inadeguate ad una conoscenza certa. La critica è semplice: il contenuto rappresentazionale delle idee avventizie è del tutto manchevole, le idee adeguate, cioè di contenuto rappresentazionale adeguato, sono conosciute dalle mente a priori. Celebre e immortale è a tal proposito la prima Meditazione. Il soggetto, dunque, non conosceva adeguatamente il mondo, le singole cose, se stava alla pura e semplice osservazione. In questo senso, Cartesio, come è noto, concepisce la scienza in alternativa al paradigma aristotelico, un paradigma profondamente empirista.

La solidità della scienza era garantita proprio dal fatto che essa conosceva non il possibile, ciò che veniamo a conoscere proprio dai sensi, ma il necessario. Le idee innate vengono scoperte da noi stessi attraverso diversi procedimenti: ma esse non si inventano né si trovano fuori di noi. Se il soggetto conosce adeguatamente, conosce idee chiare e distinte, allora può lecitamente procedere verso una conoscenza delle cose fuori di noi. Che ciò sia possibile è garantito dal fatto che Dio, colui che ci ha fatto, non ci ha creato in modo errato, cioè noi, quando ragioniamo, quando operiamo dei calcoli, siamo in grado di non sbagliare. In secondo luogo, le sensazioni che abbiamo del mondo esterno, mostrano chiaramente che le cose fuori di noi esistono, sebbene, in ogni caso, noi non le conosciamo attraverso queste sensazioni. Dio ha dato all’uomo la ragione per conoscere il mondo, la sensazione serve semplicemente a fini pratici.

Se questa era la visione di Cartesio, profondamente platonica e razionalista in senso “classico”, Locke la pensa sostanzialmente all’incontrario. In primo luogo, egli ritiene che tutta la nostra conoscenza incomincia con l’esperienza: “la percezione è la prima operazione di tutte le nostre facoltà intellettuali, e che essa apre l’accesso alla nostra mente di tutte le conoscenze”[33]. Noi non abbiamo alcuna informazione del mondo, prima di avere esperienza di esso. In questo senso, anche del principio di non-contraddizione e del principio d’identità[34], principi logici per eccellenza, noi abbiamo conoscenza solo a posteriori, e cioè quando incominciamo a ragionare, operazione linguistica per Locke, scoprendo, così, che se violiamo il principio, diciamo immediatamente un’assurdità.

La conoscenza incomincia nella sensazione: “Supponiamo dunque che la mente sia quel che si chiama un foglio bianco (…). Donde ha tratto tutti questi materiali della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. E’ questo il fondamento di tutte le nostre conoscenze…”[35]. La sensazione è un qualsiasi atto percettivo ed è definita (i) dall’esser del tutto involontaria, cioè non è posta dal soggetto; (ii) non è posta da una conoscenza inferenziale, cioè non è determinata da null’altro che dall’azione stessa dell’esperire ( non possiamo avere l’idea del “giallo” se non dopo che abbiamo visto un oggetto giallo ); (iii) ogni conoscenza successiva si fonda su di essa, ogni atto d’esperienza è un atto cosciente[36]. La percezione singola è l’atomo della conoscenza.

Ogni singola percezione c’informa di qualche particolare esistente e, dall’insieme delle percezioni di un oggetto, possiamo ricavarne le sue proprietà.

Locke sottolinea che la conoscenza delle proprietà degli oggetti è di due tipi diversi: abbiamo conoscenza sia delle proprietà inerenti all’oggetto che di quelle indipendenti da quello, ma relative alla presenza di un soggetto.

Le proprietà primarie sono quelle che definiscono l’oggetto così com’è e sono esperite attraverso la vista e il tatto: l’una ci da la figura e la dimensione, mentre l’altro ci informa sul peso[37]. La vista e il tatto sono, per Locke, i sensi privilegiati attraverso cui conosciamo adeguatamente il mondo. Le proprietà primarie concorrono alla definizione “attuale” dell’oggetto e pongono delle asserzioni puramente fattuali.

Ma il soggetto non è del tutto passivo e arriva a conoscere anche delle proprietà non presenti nell’oggetto, queste sono dette secondarie proprio perché non definiscono la cosa in alcun modo: “[L]e qualità secondarie sensibili, che, dipendendo dalle prime, non sono altro dai poteri che posseggono quelle sostanze di produrre in noi diverse idee mediante i nostri sensi; e queste idee non sono nelle cose stesse se non nel senso in cui una cosa qualunque è nella sua causa”[38]. Questo secondo tipo di informazioni sono esperite dagli altri organi di senso. Locke, tuttavia, non rinnega questa seconda forma di conoscenza in quanto ci aiuta alla conoscenza della “potenza” degli oggetti stessi: non è in nostro potere sentire un certo odore e la causa risiede nell’oggetto. Però, nel caso dell’odore, noi non possiamo dedurre che esso sia proprietà primaria dell’oggetto in quanto esso non esisterebbe senza soggetto.

Si potrebbe dubitare di questa affermazione: allora anche nel caso della vista, possiamo dire che è il soggetto ad esperire una certa informazione. Il punto è che le proprietà primarie sono indipendenti dal soggetto: che una cosa sia fatta in un certo modo non dipende dalla nostra esperienza di esso. La figura di un’entità è conosciuta tramite la vista, ma se chiudo gli occhi quell’oggetto mantiene la sua forma geometrica. Mentre questo non vale, chiaramente, per gli odori: l’odore di una rosa, sebbene sia causato dalla rosa, non è da attribuire totalmente alla rosa né, se la rosa smette di profumare, smette anche di esistere; il contrario si può dire della forma: se la rosa muta forma, cessa anche di esistere.

Le qualità secondarie ci informano sulla capacità di alcune cose di modificarne di altre. In questo senso, gli oggetti sono prima di tutto definiti dalle loro proprietà primarie, capaci di darci una definizione “attuale” dell’oggetto, in secondo luogo noi conosciamo anche le modificazioni che gli oggetti sono capaci di arrecare ad altri oggetti, cioè la loro potenza.

In ogni caso, sia le proprietà primarie che le proprietà secondarie vengono conosciute solo a partire dall’esperienza. Non dipende da nessuna logica il fatto che il mio computer sia grigio, a forma di prisma e relativamente pesante e non verrei mai a saperlo se non l’avessi qui, sotto le mie stesse mani.

Le sensazioni, siano esse fonti di conoscenza di proprietà primarie o secondarie, possono essere conservate dalla memoria[39]. Questa è la fonte di ogni informazione non presente sul momento alla sensibilità: la memoria è la capacità della mente di ricordare dati di fatti passati. Questa facoltà della mente, tuttavia, non crea nulla di nuovo né può andare oltre i dati esperiti, si limita semplicemente ad essere il magazzino informazioni, una “banca dati”.

La conoscenza empirica non si limita al puro e semplice dato osservativo, ma può essere anche il materiale per le nostre idee complesse. Le idee complesse sono tutti gli stati mentali determinati dalla somma di due o più idee semplici. Un’idea è ancora semplice se posta dall’unione di due proprietà primarie di sensi diversi ( per esempio la conoscenza di un dado proviene sia dalla vista che dal tatto ) mentre è complessa quando somma un’idea semplice di un oggetto a quella di un altro. Un’idea complessa può essere l’immagine di un dado e del tabellone verde sul quale rotola.

In questo senso, la nostra mente è in grado di produrre una serie pressoché infinita di idee in quanto è in grado di ricordare un’esperienza passata e di riportarla alla mente, quindi servirsene per unirla ad un’altra idea, presente nella mente o per via sensibile immediata o anch’essa attraverso memoria, quindi produrre una nuova idea.

L’immaginazione, così chiamata da Cartesio, è rinominata “riflessione”[40] da Locke. Essa ha una grande importanza. Infatti, gran parte della nostra conoscenza, per il Nostro, è determinata senza dubbio dalla nostra sensibilità, né potrebbe essere altrimenti, ma pure dalla nostra possibilità di relazionare le varie idee e raffrontarle. Per la conoscenza per raffronto concorrono almeno due facoltà della mente diverse: in primo luogo la memoria, in secondo luogo la “riflessione”. Le due idee complesse vengono paragonate, messe a confronto: se la mente trova delle comunanze allora la mente si fa una nuova idea, determinata dal raffronto delle idee. Mentre, se la mente non trova concordanze, non procede oltre.

L’idea posta dalla relazione di due idee più complesse è detta “idea astratta” perché posta per “astrazione” dalle singole idee più semplici e diventa l’idea di una classe di idee. Questa idea è meno chiara delle idee più semplici, ma risulta molto utile in quanto agevola la ricerca delle idee più semplici: quando vien costruita l’idea astratta di “cane”, subito è possibile riportare alla memoria tutte le idee semplici che vengono sotto di essa. In questo senso, l’idea generale astratta è utile, ma non bisogna pensare che essa sia posta indipendentemente dall’esperienza: non potrei mai avere un’idea astratta senza la conoscenza e il raffronto delle sue idee particolari, evidentissima in ciò tutta la distanza tra Locke e ogni forma di platonismo, antico o recente.

Idee semplici, idee complesse, idee generali, idee astratte, idee di relazione: da tutte queste possiamo ricavare ogni forma di conoscenza. Così possiamo definire anche la relazione causale. Una “causa” è quella percezione che determina in noi un mutamento chiamato “effetto”: “Denotiamo col nome generale di causa ciò che produce qualunque idea semplice o complessa, ed effetto ciò che è prodotto”[41]. Senza causa, non c’è in noi alcuna reazione ed il fatto che noi percepiamo un mutamento, è a causa di qualcos’altro. Noi non possiamo andare oltre le nostre sensazioni né produrne di nuove e, dunque, anche il principio di causa è subordinato alla conoscenza che noi abbiamo attraverso i sensi. Il rapporto di causa ed effetto non è più di “implicazione logica” come per Spinoza[42], ma di relazione: nella relazione, in generale, non è necessario che il primo termine ponga il secondo o viceversa. Dunque, una relazione, per sussistere, necessita in primo luogo di un soggetto che la ponga e, in secondo luogo, di due “relata”.

La distanza prima tra Locke e Spinoza, poi tra Hume e Spinoza stesso, risulterà più chiara da questo: secondo la dottrina di Spinoza noi possiamo “dedurre” da cause, effetti ( ma non da effetti le cause ). La causalità come “implicazione logica” determina un’infinità possibilità di deduzione di cause a priori, a partire solo dalla nostra conoscenza a priori. Per Locke e per Hume, invece, la relazione di causa non consente alcuna deduzione in quanto non è conosciuta a partire dalla ragione ma dai sensi, di conseguenza le inferenze possibili si limitano all’esperito e al probabile. Nient’altro.

Locke ha una visione debole della causalità: egli sostiene che non si possono conoscere le cause degli eventi a priori, ma solo attraverso osservazioni, dunque, la nostra conoscenza della causalità risiede nel fatto che ad una certa percezione, noi ne riceviamo immediatamente un’altra e da ciò la nostra mente è giustificata nel porre in relazione le due idee distinte. In ciò, sta la differenza con Hume: che il principio di causa è conosciuto, sì, attraverso i sensi ma esso relaziona due eventi in modo necessario in quanto la relazione di causa è indipendente rispetto alla mente, essa avviene comunque[43]. Come le proprietà primarie esistono indipendentemente dall’atto percettivo, così le cause e gli effetti.

Una causa è sempre anteriore all’effetto e la relazione tra le due idee non è transitiva, cioè, posta la causa è posto l’effetto, ma se è posto l’effetto non è determinata la causa. La nostra capacità di prevedere il futuro si attiene a “probabilità”, non necessaria: noi possiamo legittimamente aspettarci un certo evento, a seguire di un altro, solamente perché in precedenza le nostre percezioni ci hanno suggerito chiaramente questo.

E’ senza dubbio vero che la relazione di causalità è da Locke interpretata in modo più debole rispetto a Cartesio o Spinoza, ma non arriva alla critica humeana: Locke, infatti, nota come le nostre percezioni, sebbene interne al soggetto, non si limitano a mostrare la presenza di certe modificazioni inerenti alla mente, ma pure che queste modificazioni non potrebbero avvenire se non in presenza di un oggetto che le pone. In questo senso, la percezione ha come condizione necessaria il soggetto, ma non sufficiente: sia senza soggetto che senza oggetto, non si pone alcuna percezione.

Il fatto che noi abbiamo una certa esperienza, impossibile se non in presenza di un’altra, legittimamente suggerisce la presenza di un principio di causalità inerente agli oggetti, sebbene noi non possiamo che supporlo: il limite di ogni nostra conoscenza è l’esperienza ed essa non giunge mai “dentro” la natura degli oggetti, ma si ferma alle loro proprietà. Noi possiamo affermare che le nostre percezioni suggeriscono il principio di causalità, ma non possiamo, da ciò, dedurre che ciò valga anche per la natura in sé delle cose. Non si può non pensare al noumeno kantiano in questa visione lockeana della causalità.

 

Sezione 1. 2. La conoscenza del soggetto.

Da questa base “empirista” si procede anche alla conoscenza del soggetto. Il soggetto inizia la propria esperienza nel mondo e apprende molte informazioni dall’esterno.

Tuttavia, dopo qualche tempo, la mente è in grado di associare informazioni diverse, come le informazioni che provengono dal tatto e dalla vista per riunirle in un’unica idea. Questa capacità di associazione non è interna alla natura della percezione: se noi fossimo dei puri registratori, non saremmo certo capaci di associare o dissociare idee diverse. In questo senso, la mente ha la capacità di “riflettere” sulle cose. Questa possibilità si fonda, in ogni caso, sulla nostra esperienza: senza la conoscenza sensibile la mente non penserebbe ad alcun che.

La mente è conscia immediatamente delle sue percezioni e la sua consapevolezza si estende a tutta la sua conoscenza sensibile. La percezione è già di per sé atto consapevole: qualsiasi cosa esperita è “atto consapevole”. Dunque, anche quando la mente unisce idee semplici di sensi diversi, oppure quando contempla idee complesse, è consapevole di ciò che sta facendo: la mente è incapace di pensare a qualcosa solo quando non contempla alcuna percezione. In questo senso, la mente è di per sé consapevole di tutte le sue esperienze, immediate o mediate dalle sue stesse facoltà.

La conoscenza della mente di se stessa è mediata dalle esperienze, ma può arrivare a farsi un’idea delle sue possibilità: il fatto che percepisco, indipendentemente dalla percezione, è un atto consapevole e non potrebbe essere altrimenti. Per Locke è cosa assai evidente che la consapevolezza del fatto che si sta percependo sia direttamente posta dall’esperienza. Non c’è motivo di dubbio di ciò: percepisco, dunque, so di percepire[44].

Dall’evidenza della propria capacità percettiva la mente è in grado di riconoscersi tra le altre cose: noi abbiamo una serie di percezioni di noi stessi, sia interne che esterne, che fanno sì che noi ci riconosciamo come “persona”. L’esser-persona è caratterizzata dalla consapevolezza di essere in un certo tempo e in un certo spazio la stessa entità che si è in un altro tempo e in un altro spazio: io so di essere la medesima persona che ero cinque anni fa perché mi ricordo le mie percezioni di allora. In questo senso, la persona è caratterizzata dalla continuità percettiva, al presente e al passato. “So di essere e di essere stato” è la condizione indispensabile perché una persona si riconosca come tale e sia identificabile dagli altri.

 

Sezione 1.3. Critica delle teorie avversarie.

Locke pone la sua critica delle idee innate prima di esporre la sua filosofia della conoscenza. Gli attacchi fortemente polemici di Locke sono indirizzati ad alcuni punti fondamentali del cartesianesimo allora dominante nella filosofia, in particolare in Francia.

I punti della critica sono: 1) non esistono idee innate[45], 2) non esiste alcun consenso universale né di genere idee teoretico né di tipo pratico[46], 3) se esistono le essenze reali delle cose, non si possono conoscere; se non esistono le essenze reali delle cose, non si può comunque sapere[47]. Eliminando queste tre premesse, vengono eliminate tutte le possibili deduzioni da quelle.

Le idee innate sono delle idee indipendenti da ogni possibile esperienza che la mente riconosce in sé stessa. Tali idee erano le “idee chiare e distinte” di Cartesio dalle quali siamo in grado di dedurne di altre, sempre innate, all’interno della nostra mente. In Cartesio, ogni nostra conoscenza adeguata è posta dalle idee innate, indipendenti sia dall’esperienza che dalla nostra associazione di percezioni eterogenee, la riflessione di Locke. La nostra capacità d’avere una conoscenza adeguata, secondo Cartesio, riposava proprio nel fatto che noi possiamo avere coscienza di queste idee innate.

Locke contrasta questa teoria in diversi modi. In primo luogo egli mostra che nessun’idea può nascere indipendentemente dall’esperienza. Anche il principio di non-contraddizione lo pensiamo in un certo istante e non precedentemente, dunque, viene ad essere nel tempo e non è indipendente dal fatto che noi lo “esperiamo”. Anzi, il principio di non-contraddizione non è posto dalle idee ma dal linguaggio, dunque, noi iniziamo ad esperirlo solo successivamente all’apprendimento dell’abilità linguistica.

In secondo luogo, se fosse vero che ci sono queste idee innate nella mente, allora non è chiaro come noi necessitiamo di “dimostrazioni” e delucidazioni per arrivare ad averne consapevolezza, quando dovrebbero essere lì, immediatamente presenti alla nostra mente. Il fatto stesso che noi abbiamo coscienza di questi principi a partire da dimostrazioni e delucidazioni mostra, ancora una volta di più, che queste presunte idee innate sono poste dall’esperienza e non antecedentemente ad essa né potrebbero essere senza quella.

In terzo luogo, anche ammesso che queste idee siano innate, allora non si comprende come mai i bambini non ne siano edotti. Infatti, i bambini non sono diversi dagli adulti nella loro capacità di esperire, né si può dire che essi siano incapaci di pensare. Dunque, ammettendo che esistano le idee innate, anche i bambini dovrebbero poterle pensare. Ma ciò è contraddetto dall’esperienza.

Se ammettiamo che i bambini non ne sono immediatamente consapevoli, il paradosso s’accresce ancor di più, considerato la loro inesperienza rispetto agli adulti: dovrebbero, infatti, essere più agevolati nella ricezione delle idee innate perché non ne hanno molte dalla sensibilità.

Oltretutto, non possiamo ammettere che i bambini abbiano le idee innate, ma non se ne rendono conto, mentre ne diventano coscienti solo nel tempo: questa sarebbe una prova sufficiente di come queste idee, presunte innate, siano a partire dall’esperienza e non prima.

Le idee innate, era stato detto da Cartesio, sono idee che determinano la nostra conoscenza delle cose, in altre parole, sono “idee epistemiche” cioè delle rappresentazioni interne, mentali, di fatti oggettivi, fuori di noi. La conoscenza di un fatto è un “saper cosa”, non un “saper fare”, dunque, non si può dire che Cartesio pensasse che le idee innate fossero dei principi pratici. Ad esser precisi, nel “Discorso sul metodo” Cartesio afferma che nella pratica bisogna attenersi alla morale vigente nel proprio Paese e che le idee chiare e distinte non sono principi pratici.

Ma sulla scia del cartesianesimo, c’è chi ha sostenuto che anche alcuni principi pratici sono universali, idea posta dall’osservazione degli usi e costumi degli uomini: la gran parte delle società non ammette alcuni comportamenti, come l’assassinio nelle sue varie forme, il latrocinio e così via. Inoltre, in ogni caso, secondo questi, l’idea di Dio dev’essere innata.

Locke attacca ferocemente tanto la concezione dell’idea innata di Dio che quella dei principi pratici innati. Ciò non senza ragione, in quanto sia l’idea di Dio che dei principi pratici è la fonte di ogni fanatismo: credere di possedere la verità sugli altri è già testimonianza di intolleranza.

Per quanto riguarda l’idea di Dio, essa non è innata giacché tutti i popoli di tutte le ere ne hanno avute di svariate e di diverse, il che testimonia proprio la distanza di “esperienze” delle varie comunità. In secondo luogo, il fatto stesso che l’idea di Dio è così diversa per tante popolazioni diverse, mostra con sufficiente evidenza come questa idea non possa essere innata: ci dovrebbero essere dei popoli diversissimi con la medesima idea di Dio, ma ciò contraddirebbe i fatti. Dunque, di Dio non esiste alcuna idea innata[48].

Per quanto riguarda i principi pratici innati, la critica di Locke si fonda sugli stessi principi: prima di tutto, non c’è comportamento che non sia stato oggetto di prassi nella storia dell’umanità, dal più positivo al più efferato. In secondo luogo, i bambini non sanno come comportarsi e nemmeno la gran parte delle persone adulte; così, è chiaro che in loro non c’è alcuna chiarezza sul dà farsi. In terzo luogo, lo stesso popolo ha avuto determinati comportamenti nel passato diversi da quelli del presente, cosa del tutto inverosimile, se si accetta che i comportamenti sono posti da idee innate. In fine, sarebbe strano che lo stesso Dio ponga dei comandamenti quando sarebbe del tutto superfluo, se avesse posto nella mente di ciascuno le istruzioni corrette.

Sia la critica alle idee innate teoretiche che pratiche si fonda, sostanzialmente, sul fatto che non esiste alcun “consenso universale” sulle idee, cioè nessuna proposizione è riconosciuta vera per il solo fatto di essere pronunciata, anche quando tutti ne conoscano il significato. Il fatto stesso, anzi, che non c’è concordanza sul significato delle proposizioni, mostrerebbe ancora una volta di più come ogni nostra conoscenza, teorica o pratica, sia a partire dall’esperienza. Con le stesse parole di Locke. “Chi si darà la pena di leggere con cura la storia del genere umano e di considerare con occhio indifferente la condotta dei vari popoli della terra, potrà convincersi che ( ad eccezione di quei doveri che sono assolutamente necessari a tenere assieme la società umana i quali sono poi anche troppo spesso violati da società intere nei riguardi di altre società ), non dovrebbe citare alcun principio della morale, né immaginare alcuna regola di virtù che, in qualche angolo del mondo, non sia disprezzata o contraddetta dalla pratica generale di intere società umane, governate da opinioni e massime di vita pratica del tutto opposte a quelle di qualche altra società[49].

Locke inaugura una critica che avrà un lungo seguito: la critica alle “essenze reali” delle cose. Le cose sono definite dalle loro proprietà, ma le proprietà non arrivano alla cosa in quanto non ne implicano la loro “essenza”: una cosa, dunque, sarebbe proprietà più essenza, cioè sostrato a cui ineriscono una serie di qualità, ciò che dà all’oggetto la possibilità di permanere nel tempo. Locke polemizza tanto con l’idea che con chi la sostiene: se tutto ciò che possiamo conoscere incomincia con l’esperienza, e questa ci fa conoscere solo le proprietà primarie e secondarie degli oggetti, non si vede come noi possiamo giungere alla conoscenza di questa fantomatica essenza. Ancora, noi possiamo avere delle percezioni a cui ne seguono necessariamente delle altre, cioè quelle percezioni sono causa di modificazioni nella nostra percezione. Ma ciò non mostra altro che esistono degli oggetti. Che poi questi oggetti abbiano una “essenza reale” non è dato saperlo. Allo stesso modo, noi non possiamo sapere se all’interno degli oggetti accada qualche cosa qualora ci sia una certa interazione con altre cose: la nostra conoscenza del principio di causa si ferma alla percezione. Non si può sapere che cosa succeda all’interno della palla da biliardo che, urtandone un’altra, ne trasmette il moto: di tutto questo possiamo solo dire che noi abbiamo una certa percezione tale per cui, posta quella, è determinata subito anche l’altra. Altro non si può dire.

Queste critiche sono tutte destinate ad avere un ruolo di primo piano nella storia della filosofia inglese, vere e proprie pietre miliari a cui tutti dovranno fare riferimento. Esse faranno germogliare una gran parte del pensiero empirista inglese, in particolare di Berkeley, che si richiama di continuo ed esplicitamente a Locke, e Hume. E’ particolarmente interessante osservare come l’empirismo lockeano sia un “empirismo moderato” e di come, invece, per Berkeley l’empirismo porti all’idealismo, mentre per Hume ad uno scetticismo radicale tanto da arrivare alla critica sia al principio di causa che alla conoscenza del soggetto.

 

 

Sezione 1.4. Teoria del linguaggio.

La teoria del linguaggio di Locke è in sostanza il paradigma che verrà combattuto dalla quasi totalità dei filosofi del linguaggio contemporanei, quanto meno dai “padri fondatori” della logica e della linguistica[50].

Locke concepisce fondamentalmente il linguaggio come una serie di nomi che stanno per idee. La denotazione di un nome è un’idea della mente e l’insieme dei nomi costituiscono il linguaggio: “[E]ssendo esse [ le parole ] immediatamente i segni delle idee degli uomini, e, per tal modo, gli strumenti coi quali gli uomini comunicano le loro concezioni (…), i nomi uditi suscitano certe idee non meno prontamente che se di fatto ci colpissero i sensi quegli oggetti che sono atti a produrre le idee medesime”[51]. Per ogni idea della mente, corrisponderanno dei suoni a cui quelle idee sono immediatamente associate. Infatti, Locke mostra come le percezioni possano essere unite in modo tale che alla presenza di una, subito la mente rievoca anche l’altra. In questo modo, la presenza di un determinato suono evoca subito una certa idea: così funziona il linguaggio.

La funzione del linguaggio è quella di trasmettere idee ed esso diventa, per ciò, un’importante estensione della memoria: grazie al linguaggio noi possiamo conservare un gran numero di informazioni che, altrimenti, andrebbero perdute. Inoltre, sempre grazie ad esso, possiamo catalogare delle idee in maniera controllata e ordinarle.

Tuttavia, i limiti del linguaggio sono molti e diversi: in primo luogo, può essere usato in maniera impropria, aiutando più l’ignoranza che la conoscenza[52]. Per esempio, ad un certo nome associamo un’idea diversa rispetto agli altri, sebbene crediamo che tutti la pensino come noi, il che genera confusione. In secondo luogo, i nomi, puri suoni, se non connessi ad un’idea chiara e distinta, diventano dei simulacri vuoti che utilizziamo più per oscurare la nostra ignoranza che per chiarificare meglio la nostra conoscenza: “il primo e più visibile abuso è quello di usare parole senza idee chiare e distinte; o, peggio, segni senza alcuna cosa significata (…)”[53]. In terzo luogo, è assai facile che non ci diamo una gran pena per mascherare la nostra manchevolezza linguistica e così tendiamo a rintanarci all’interno della nostra ignoranza.

In questo senso, l’analisi di Locke è volta, soprattutto, alla chiarificazione degli usi impropri del linguaggio e dove esso funzioni correttamente. A partire da questo presupposto, si comprende bene come mai egli non si sforzi più di tanto ad indicarne il funzionamento o a farne un’analisi particolarmente appropriata: egli ha cura di mostrare come il linguaggio non debba essere usato impropriamente e perché.

 

Sezione 1.5. La conoscenza generale.

La questione è già stata interamente espressa, la fonte di ogni conoscenza è l’esperienza, sia che questa determini idee semplici o complesse: “Poiché la mente, in tutti i suoi pensieri e ragionamenti, non ha altro immediato oggetto che non siano le sue proprie idee, che sole essa contempla o può contemplare, è evidente che la nostra conoscenza si riferisce soltanto a quelle”[54]. Ogni idea è nata nella percezione e poi ricomposta dalla mente, conservata dalla memoria. Il linguaggio è capace di trasmettere nuove informazioni solo a patto che ad ogni nome usato da noi, l’interlocutore associ la giusta combinazione di idee. La memoria “estensionale” del linguaggio serve ad immagazzinare informazioni altrimenti facilmente deperibili. Inoltre, il linguaggio ci serve anche ad aiutare le mente nelle dimostrazioni.

Le dimostrazioni sono più che altro dei ragionamenti volti a creare un’idea complessa oppure a rendere più chiaro ciò che già sappiamo. Una dimostrazione, in ogni caso, non è indipendente da ogni atto di esperienza, anzi, essa ha come presupposto la conoscenza empirica dei singoli passi di essa. Ancora una volta, anche la logica si piega all’esperienza: essa nasce da quella.

Il limite della conoscenza è segnato dalla natura stessa della nostra fonte di informazione: la percezione. La percezione ci può indicare al massimo le proprietà primarie e secondarie delle cose, ma non la natura “interna” dell’oggetto. E lo stesso vale per il principio di causalità, da riferire ai meccanismi della nostra attività percettiva. In fine, sebbene noi non possiamo avere una conoscenza in atto dell’infinito, cioè di esso noi abbiamo conoscenza per negazione e non per affermazione, possiamo però tendere verso di esso: l’infinito è posto dalla nostra possibilità di ripetere a piacimento un’operazione[55], in questo modo, possiamo avere una conoscenza pressoché illimitata quantitativamente del mondo in quanto possiamo continuamente esperire nuove percezioni e riflettere esse dentro di noi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parte 2. Filosofia dell’azione: come noi arriviamo ad agire.

“Da troppo tempo ormai l’abuso del linguaggio, e certi modi di dire vaghi privi di senso, passano per misteri del sapere”[56].

Locke J.

 

Locke parla della teoria dell’azione nella sezione “Il potere”[57] del secondo libro del “Saggio sull’intelletto umano”. Il movente di qualsiasi azione risiede nel desiderio, non nella volontà. La volontà è così definita: “Questo potere che la mente ha di ordinare così la considerazione di qualunque idea, o di tralasciarla, o di preferire il moto di una parte qualunque del corpo a suo riposo, e viceversa, in ogni caso particolare, è ciò che chiamiamo la volontà”[58].

Il desiderio è la sensazione di privazione attuale della mente e ciò determina frustrazione: “Per tornare dunque alla nostra ricerca, così che determina la volontà nei riguardi alle nostre azioni? Dopo averci ripensato, sono portato a ritenere che non sia, come generalmente si pensa, il maggior bene che si abbia in vista, bensì un qualche disagio ( e, per lo più, quello più gravoso, da cui l’uomo sia attualmente afflitto ). Questo è ciò che, volta a volta, determina la volontà e ci muove a compiere le nostre azioni. Questo disagio possiamo anche chiamarlo desiderio, che è un disagio della mente per la mancanza di un qualche bene”[59]. Ogni azione ha come movente un desiderio a partire dal quale la mente prende atto della necessità di un’azione. Come la mente si rende conto di questo, la volontà si mette in moto e non viceversa: “[S]arà ben difficile che la volontà ordini una qualche azione, o che si compia alcuna azione volontaria, senza che un qualche desiderio l’accompagni; e questa penso sia la ragione per cui volontà e desiderio sono così spesso confusi fra loro”[60].

La volontà non ha altre possibilità che seguire il desiderio oppure no, infatti “La mente non può (…) impedirsi di volere…”[61]. In questo senso, all’interno della volontà, nessuno può esimersi dal prendere una decisione: o prendo una decisione oppure non prendo una decisione, ma se prendo una decisione allora sto decidendo e se non prendo una decisione sto pur sempre decidendo. La volontà non può esimersi dal decidere.

Se il desiderio determina una reazione positiva da parte della volontà allora l’azione sarà rivolta verso la soddisfazione del bisogno, mentre se la volontà rifiuta l’intervento positivo, la mente e il corpo non si determinano ulteriormente ed in questo sta il potere della volontà, di assecondare o meno il desiderio, di far seguire un certo moto ad un certo stimolo o rifiutarsi di farlo. La volontà, dunque, non è affatto libera perché è determinata interamente dal desiderio e pure il desiderio è l’espressione di una necessità in quanto nasce involontariamente nella mente. Dunque, la mente, nell’attività pratica, non è libera, se per “libertà” si intende “libertà di indifferenza” o, ancor di più, “libero arbitrio”.

Una volta che il desiderio pone il fine, la volontà determinerà i mezzi, qualora decida di perseguire quell’obbiettivo. Tuttavia ciò non è necessario: è possibilità della mente quella di “sospendere”, per qualche tempo, la facoltà decisionale. Questo è molto importante perché è il solo modo, da parte della ragione, di avere qualche voce in capitolo all’interno dell’attività pratica. Se fossimo costretti a seguire solo il desiderio e la volontà non potesse esimersi dal decidere subito sul dà farsi, allora non ci sarebbe alcun modo per la conoscenza di “entrare in azione”. La mente si può riservare di decidere in un secondo momento, soppesando con precisione i pro e i contro di un’azione. Inoltre, la nostra conoscenza dei mezzi può determinare una migliore o peggiore definizione dei mezzi stessi, in questo modo, tanto più siamo in grado di sapere come stanno le cose e tanto più saremmo in grado di determinarci verso il meglio.

Ma la conoscenza, secondo Locke, può anche ambire ad uno spazio maggiore. Infatti, la mente può sentire più bisogni contemporaneamente ed agirà a partire da quello che sente maggiormente pressante: la mente, ancora una volta, non è affatto libera di perseguire il desiderio “migliore”, ma è vincolata verso quello che in quel momento è più frustrante. In questo senso, la mente dovrebbe sempre determinarsi per il peggio in quanto i desideri più istintuali e ciechi al benessere futuro sono, generalmente, anche quelli più forti e pressanti.

Tuttavia, la mente, grazie alla conoscenza, può arrivare a farsi un’idea adeguata dei suoi stessi desideri e delle loro conseguenze, cioè di quale desiderio produca nel tempo il maggiore benessere: un’azione non è solo un che di immediato, ma è definita dall’insieme delle sue conseguenze. In questo senso, per giudicare rettamente un’azione, non bisogna fermarsi al presente ma calcolare anche le conseguenze future. La mente, se non si attiene puramente al presente, è in grado di riconoscere le differenze importanti nei fini: esistono obbiettivi positivi di per loro, che determinano il bene, ci sono altri desideri che determinano, invece, il male.

La mente, se conosce, può determinarsi per il meglio, magari dopo un’adeguata riflessione grazie alla sospensione temporanea della volontà[62]-per esempio nel caso di un desiderio particolarmente insistente ma anche capace di farci agire per il peggio-. In questo senso, il bene e il male sono categorie relative al soggetto il quale perviene alla loro idea mediante un confronto: “Per cui, se vorremo giustamente giudicare cosa sia che chiamiamo buono e cattivo, troveremo che, per la maggior parte, esso consiste in un raffronto: poiché la causa di ogni minor grado di dolore, come di ogni maggior grado di piacere, possiede la natura del bene, e viceversa[63].

E’ di capitale importanza osservare che non esiste nessuna azione che non sia determinata da un desiderio di una cosa attuale o di una cosa futura considerata nel presente. Non basta, infatti, sapere che una cosa sia buona per ricercarla, devo anche sentirne il bisogno. Dunque, anche per fare il bene devo anche sentirne il bisogno: a questo serve, in primo luogo, la conoscenza n