CHRISTIAN THOMASIUS

 

 

A cura di Chiara Mangiarini

 

 

 

 

Christian Thomasius nacque l'1 gennaio 1655, morì il 23 settembre 1728.

Entrambe le date paiono emblematiche : nell'anno della sua nascita vennero, infatti, pubblicate le prime due opere di storiografia filosofica (History of philosophy di Thomas Stanley e Historia philosophica di Gorge Horn), disciplina che egli contribuì a rinnovare radicalmente, rendendola scienza "moderna"; nell'anno della sua morte, invece, si svolse in Germania l'ultimo processo per l'accusa di stregoneria, contro la quale Christian si era battuto per la quasi totalità della sua vita intellettuale. 

La famiglia di Thomasius aveva alle spalle una lunga e prestigiosa tradizione giuridica. Il padre di Christian, Jacob, era un illustre professore presso l'Università di Lipsia, alla quale questi poté dunque accedere già all'età di 14 anni, e conseguirvi, tre anni dopo, il titolo di Magister philosophiae. Nel 1679 si laureò in giurisprudenza; successivamente intraprese la carriera universitaria tenendo libere lezioni.

Già a partire dal suo primissimo ingresso in ambito universitario, nelle vesti di professore, Thomasius diede importanti segnali di quel suo spirito innovatore e controtendenza, che lo animava, e che lo portò, più tardi, a venir individuato come l'incominciatore, assieme a Wolff, dell'Aufklärung tedesco ed europeo. Primo fra tutti tenne lezioni in lingua tedesca anziché latina: una rivoluzione che portò alcuni studiosi ad accostarlo a Lutero, che, in ambito religioso, aveva fatto lo stesso; primo fra tutti tenne lezioni a carattere seminariale, permettendo all'insegnamento di levarsi gli abiti un po' dismessi del discorso accademico, e agli studenti di accostarsi allo studio in maniera non più semplicemente passiva, ma critica e partecipe.

Nei primi anni del '700 fondò, con l'amico pietista Francke, la rinomata università di Halle, di cui fu prima docente e successivamente direttore.

 

 

La filosofia eclettica

Ciò che caratterizzò più vividamente il pensiero di Thomasius fu la sua aperta opposizione alla filosofia aristotelica e all'ortodossia luterana, imperanti nella Germania del XVII sec. Egli si schierò contro la tradizione, contro gli errori sui quali questa si era ormai irretita, e, soprattutto, contro la sua totale chiusura rispetto ai novatores, rispetto a quei filosofi (per lo più non tedeschi) che avevano rivendicato la loro libertas philosophandi, tentando di liberarsi dalle catene dello sterile ossequio all'autorità.

L'aperta ostilità che il paese tedesco mostrava verso questi innovatori è ben evidenziata dalle parole di un illustre professore, Jacob Thomasius, proprio il padre del nostro Christian: "Non placent mihi navationes. Sed non displicet unquam antiquitatis notitia".

Dal confronto col pensiero di suo padre, muove i primi passi l'elaborazione della dottrina dell'autore.  

Jacob Thomasius fu un aristotelico di dura convinzione, che mai abbandonò la sua pregiudiziale rispetto alla cultura del suo tempo. Nonostante la sua ferrea posizione, però, questi si distinse un poco rispetto agli accademici suoi contemporanei, avendo tentato, seppur esilmente, di instaurare un dialogo con le nuove tendenze filosofiche che si stavano sviluppando in Europa: dichiarò infatti che fosse necessario studiare le differenti dottrine e le connessioni che fra di esse venivano ad instaurarsi. Ma se apparentemente tale presa di posizione può far pensare ad un atteggiamento non tanto dogmatico quanto si è illustrato, è bene evidenziar subito che l'autore propose un dialogo di tal genere al solo scopo di render ancor più evidente come la filosofia aristotelica fosse l'unica che rispondesse in maniera adeguata ai criteri di verità, come la filosofia aristotelica fosse sempre e comunque l'inveramento di ogni dottrina sviluppatasi in tempi antichi e moderni. Insomma, veniva proposto un confronto coi moderni, che però rimaneva tutto favorevole alla filosofia aristotelica. 

Il lieve spiraglio di luce a cui Jacob permise l'apertura, lo studio delle diverse dottrine, fu successivamente fatale alle sue posizioni dogmatiche: da questo, il suo allievo Leibniz, e ancor più suo figlio Christian, presero spunto per inaugurare una nuova tendenza rivoluzionaria: la filosofia eclettica

L'eclettismo è una ricerca della verità, libera dall'appartenenza ad una "setta" filosofica, libera, cioè, dai pregiudizi o dall'ammirazione di un filosofo assunto ad autorità.

Il filosofo eclettico è colui che, formatosi autonomamente dei principi e dei criteri di verità, sceglie, fra le opinioni degli autori a cui si accosta, quelle che più si conciliano con questi principi, tentando di ricreare quell'unità filosofica originaria dispersasi nelle diverse scuole.

Una filosofia di tal genere implica una ricerca continua sulla realtà e poggia sull'allargamento e il potenziamento dell'esperienza umana. E' un edificio in perenne costruzione, un complesso di conoscenze sempre mutevole, e, per dirlo con le parole di Thomasius: "è preferibile avere una nave in grado di navigare, anche se spesso rinnovata nelle sue parti, piuttosto che tenersi sempre la stessa, tutta sconnessa e piena di falle".

Dato il costante confronto con le dottrine da lui incontrate, il filosofo eclettico dovrà essere, anzitutto e necessariamente, uno storico della filosofia. Per questo, dovrà provvedere alla stesura di testi illustranti le filosofie ed il loro succedersi nella storia, senza alcun "filtro" interpretativo, sia esso aristotelico, platonico o di altro genere.

Sulla scorta di tali istanze, la storiografia filosofica ricevette una forte spinta, che provvide ad una sua revisione contenutistica e metodologica. Fondamentali in tal senso, poiché rispondevano a quest'appello, furono le opere di Bayle, di Heumann e del grande Brucker. 

Inteso dunque come la filosofia eclettica sia un far pensiero autonomo, slegato dal settarismo del primo '600, si comprende bene l'appello a pensare con la propria testa che Christian Thomasius fece risuonare nella sua prima opera completa: Introductio ad philosophiam aulicam (1688). Qui il plauso ai cosiddetti novatores, si estesa a tutti coloro i quali intendevano - o avevano inteso - adottare il dubbio cartesiano in senso eclettico anziché scettico, applicandolo non solo in ambito scolastico - "di studio" -, ma in ogni attività pratica dipendente da luoghi di interazione umana, come, ad esempio, l'ambito giuridico del diritto.

 

 

 

La teoria dello spirito e la morale

La lotta contro il dogmatismo settario portata aventi da Thomasius proseguì attraverso la pubblicazione di due periodici: i Monatsgespräche (1688, 1689) prima, Storia della saggezza e della stoltezza (1693) poi. Qui cominciò a prender forma la teoria dello spirito thomasiana, tutta incentrata sul confronto col pensiero di Cartesio. La filosofia dei cartesiani, infatti, non solo era il tipico esempio di sudditanza ad un'autorità (Cartesio) contro la proposta esigenza di una ricerca della verità che si avvalesse di un criterio di giudizio autonomo, ma si faceva anche portavoce di una dottrina pericolosa che esaltava eccessivamente l'intelletto, trascurando il suo imprescindibile legame coi sensi e con il corpo umano. L'analisi di Thomasius qui proposta è un tipico esempio di applicazione dell'eclettismo ad una dottrina filosofica. Il cartesianesimo aveva ben riconosciuto la proprietà distintiva dell'uomo nel pensiero e il suo collegamento con il corpo, individuandone la sede nella ghiandola pineale. Tuttavia aveva ritenuto che la res cogitans potesse sussistere anche indipendentemente dalla res extensa, e che quindi il cervello fosse un organo esclusivamente attivo. Riprendendo la tipica espressione scolastica "nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu", Thomasius affermava, invece, la passività del cervello rispetto ai sensi, senza i quali esso non avrebbe potuto agire correttamente (e d'altra parte - diceva il Nostro - la ghiandola pineale non avrebbe potuto, da sola, contenere tutti i pensieri dell'uomo).

La dimostrazione di questo assunto risiedeva in una constatazione immediata: l'attività sensoriale (per la quale il nostro autore coniò il termine Sinnligkeit –sensibilità -, di fondamentale importanza per tutta la successiva tradizione filosofica tedesca) non ingannava mai, a differenza dell'intelletto che, nel giudizio, poteva esser condotta dalla "precipitazione" (il pregiudizio) e non tener conto delle condizioni. La sensibilità condizionava, cioè, l'attingimento stesso della verità, per cui una conoscenza che non prendesse in considerazione le informazioni fornite dai sensi sarebbe stata "oscura", o addirittura erronea: la ragione consiste nella capacità di riconoscere il bene e il male. Bene è ciò che la favorisce, male ciò che la indebolisce. I sensi, nel loro compito di trasmettere gli impulsi degli oggetti esterni (quelli che appunto favoriscono o indeboliscono la ragione), svolgono dunque un ruolo fondamentale. I sensi, oltre che necessari, sono buoni.

Queste riflessioni avevano trovato spunto nell'opera di Poiret, il cui pensiero era stato esposto ed approfondito da Thomasius in una della pubblicazioni del periodico Storia della saggezza e della stoltezza.

Poiret aveva profondamente criticato la svalutazione della conoscenza passiva da parte di Cartesio, frutto di quello stesso pregiudizio che il filosofo francese aveva inteso debellare. Secondo Poiret, la conoscenza passiva si traduceva addirittura in un'esperienza diretta e viva della realtà perché proveniva direttamente da Dio; l'opera della ragione sarebbe stata una semplice organizzazione dei dati forniti dall'esperienza.

Una tale posizione ridimensionava drasticamente le pretese della ragione e, conseguentemente, delle scienze. Al loro posto, in opposizione, assumevano importanza amore e volontà.

La ragione, infatti, consiste nella capacità non solo di riconoscere il bene e il male, ma anche di scegliere fra l'uno e l'altro. Il pensiero è connesso non solo ai sensi, ma anche alla volontà, anzi, muove dagli uni per dirigersi verso l'altra.

L'argomento gnoseologico veniva dunque ad intersecarsi con quello etico-morale, trattato da Thomasius nelle opere Einleitung zur Sittenlehre (1692) e Ausubung der Sittenlehre (1696).

L'influenza di Poiret è, anche qui, molto evidente: ricalcando il pensiero dell'autore francese, Thomasius formulava il presupposto secondo il quale l'uomo si trova costantemente in uno stato insuperabile di peccato. Tale assunto, secondo il Nostro, era stato trascurato da Cartesio, il quale allora aveva ritenuto possibile mitigare le passioni grazie all'opera dell'intelletto. L'intellettualismo cartesiano, tutto incentrato sulle facoltà meramente attive dell'uomo, non aveva tenuto conto di quelle passive, fondamentali. Se dunque (come abbiamo già visto) l'intelletto era attivo nelle deliberazioni, ma passivo nelle percezioni, così anche la volontà era attiva nelle inclinazioni, me passiva rispetto alle passioni. Passioni e percezioni, in quanto passive, assumevano carattere di necessità, quindi, di inestirpabilità .

Un'affermazione del genere provocò non pochi malumori nel ceto intellettuale tedesco: tale posizione si traduceva infatti con la negazione del libero arbitrio, il quale rappresentava invece un elemento fondamentale della cristianità ortodossa. In effetti la conclusione a cui Thomasius era giunto suscita anche a noi lettori moderni qualche perplessità; tuttavia è giusto registrare il tentativo, seppur esile e non troppo convincente, che l'autore propose per tentare di risollevare gli esiti di una morale profondamente negativa. All'impetuosità delle passioni dominanti bisognava opporre passioni opposte, così da mitigarle, almeno nelle loro manifestazioni esteriori.

E' evidente che una tale soluzione è insoddisfacente, tant'è vero che anche Thomasius giocò come ultima carta la grazia divina, unica forza in grado di redimere l'uomo, di attuarne il cambiamento, di convertirlo spiritualmente.

Contro la "filosofia universitaria", che voleva l'intelletto in grado di "corrompere e migliorare la volontà", Thomasius propose anche un’argomentazione di tipo fisico, contenuta nel Saggio sull'essenza dello spirito (1699): "l'attività dell'intelletto opera solo ed unicamente nel cervello. Al contrario la volontà, quando fa qualcosa, esegue la sua azione, che pur comincia nel cuore, sempre al di fuori del cuore". L'attività dell'intelletto, cioè, è sempre relegata ad un ambito teorico "cerebrale", che, a differenza della volontà, non intacca la pratica, né promuove il cambiamento. Ed anzi, è proprio solo grazie alla volontà che l'intelletto può cominciare ad agire. A questo punto diviene assolutamente comprensibile il fondamentale di Ausubung der Sittenlehre: "la volontà è una forza delle anime umane molto più nobile che il pensiero dell'intelletto". 

A tale argomento si riallaccia la lotta di Thomasius contro le pene imposte agli eretici. Il concetto fondamentale di partenza era quello secondo cui la fede non è opera dell'intelletto: le sue radici non risiedevano nel cervello, bensì nel cuore e, conseguentemente, nella volontà.

L'idea cartesiana (ma, si potrebbe anche dire, l'idea di tutta la cristianità cattolica medievale) della "fede cerebrale" era, secondo il nostro, profondamente errata: una dottrina non rendeva beati. Le scissioni religiose si erano compiute a causa di dispute e disaccordi riguardo a cavilli filosofici che nulla avevano a che vedere con l'amore divino (non intellettuale). Non era raro, allora, imbattersi in personalità considerate sante da alcune confessioni religiose ed eretiche da altre. Ma l'eresia risponde solo a condizioni spirituali, non già intellettualistiche. Se poi l'eresia era cosa spirituale, la sua punizione avrebbe dovuto essere di tipo spirituale, non giuridica o politica. Meglio ancora, era auspicabile che la professione di una fede diversa (in fondo l'eresia altro no era che il "dissenso dalla religione dominante") venisse permessa e tollerata, giacché l'ideale della mitezza altro non era che conformità ai criteri della rivelazione e della ragione.

 

 

La lotta contro i processi per stregoneria

L'impegno intellettuale contro le accuse e le punizioni per "eresia" ben presto si estese anche a tutte quelle credenze - ancora molto radicate nel popolo tedesco e decisamente sfruttate a lor favore dai membri della Chiesa - riguardo alla pratica della stregoneria. La Germania fu infatti la terra che ospitò il maggior numero di roghi e che attuò le torture più atroci nei confronti di migliaia di donne innocenti.

Come scrisse il gesuita tedesco Spee in un suo testo pubblicato anonimo nei primi anni del '600, il Cautio criminalis, seu de processibus contra saga, la causa di tale scempio poteva essere individuata nella mancanza di un controllo centrale, di una regolamentazione precisa che vincolasse le scelleratezze degli inquisitori, i quali, per di più, erano spesso persone corrotte e che sfogavano contro donne innocenti i loro istinti più bassi. A tale argomentazione, dobbiamo aggiungere due ulteriori elementi fondamentali: il vantaggio che la Chiesa traeva dalla disseminazione del terrore, che le permetteva di mantenere un governo assoluto sul popolo, e il pesantissimo contributo che diedero diversi intellettuali, i quali, con argomentazioni dettagliate (seppur discutibili), avevano permesso la diffusione di sciocche credenze e pregiudizi banali anche negli strati più colti - o, quantomeno, più istruiti - della popolazione. Il peso della loro opera appare infatti tanto più evidente se si considera che lo stesso Thomasius, che così fieramente vi si oppose, ne era stato in un primo momento influenzato, movendo i primi suoi passi nel "mondo della magia" da una posizione del tutto opposta a quella che ci potremmo aspettare.

Nel 1694 fu proposto all'università di Halle il caso di Barbara Labarenzin, una giovane accusata di eresia, a seguito di una "confessione" estorta sotto tortura da un'altra donna, successivamente bruciata viva come strega. Thomasius, che per la prima volta si trovava ad affrontare un caso del genere, e che, per sua stessa ammissione, era ancora molto "prevenuto nell'opinione comune sull'essenza delle streghe", formulò una relazione in cui riportava che "bisognasse colpire l'inquisita (...) per la colpa di stregoneria". Contrariamente alle sue aspettative, però, i suoi colleghi, chiamati anch'essi a esprimersi sul caso, avevano invece ritenuto in blocco che, in mancanza di prove concrete, la poveretta andasse immediatamente rilasciata.

L'accaduto lasciò Thomasius profondamente addolorato ed irritato "con se stesso", per esser caduto nei pregiudizi di autorità contro i quali si era sempre battuto. A partire da quell'episodio, allora, s'impegnò profondamente affinché altri non compissero lo stesso errore. L'impegno thomasiano affinché venisse decretata la fine dei processi per stregoneria fu del tutto originale. Ormai si stavano facendo sempre più accesi i dibattiti riguardo alla possibilità, per le streghe, di lievitare in aria, trasformarsi in animali, accoppiarsi col demonio. Gli studi sull'eventualità che gli spiriti (soprattutto maligni) potessero entrare in contatto con gli esseri umani, si estendevano anche a questioni non più solo teologiche o demonologiche. Ma se Thomasius da qui attinse per dar forma articolata alla sua argomentazione, è ben più importante evidenziare come egli si concentrò maggiormente sugli aspetti giuridici della faccenda. Elemento comune di partenza per tutti coloro i quali si apprestavano a dimostrare o confutare l'esistenza delle streghe era il cosiddetto "patto" che questa ultime avrebbero dovuto stipulare col demonio per poi compiere i loro prodigi. Al riguardo, Thomasius evidenziava come tale patto non avrebbe avuto alcuna utilità per i due contraenti: gli uomini (sebbene, purtroppo, determinando il sesso del maggior numero dei condannati, dovremmo dire: le donne) avrebbero potuto procurarsi quanto desideravano (ricchezza, potere.) "con lieve fatica ed astuzia", "con mezzi consentiti e senza l'aiuto del diavolo". Di contro, ammesso che l'ignoranza e la pigrizia umana spingessero a tentare vie "alternative" per soddisfare le proprie brame, il patto non avrebbe avuto alcuna utilità nemmeno per il demonio: a che gli sarebbe servito? Le anime corrotte già erano al suo servizio e quelle buone non ne sarebbero state minimamente intaccate. Se tuttavia una tale argomentazione poteva ancora sollevare obbiezioni fra gli irriducibili dell'inquisizione, quella che egli propose poco successivamente non lasciava alcuna possibilità di appello: il demonio era spirito e, come le parole di Cristo nel vangelo di Luca avevano ben reso evidente, lo spirito non possedeva né carne né ossa. Ora, una relazione col diavolo che non fosse di tipo "corporeo", giuridicamente, non provava nulla: giuridicamente un patto (che sarebbe stato, dunque, necessariamente) tacito, non esiste. Gli unici rapporti che gli uomini potevano intrattenere col demonio erano di tipo spirituale, morale, per questo, non penalmente rilevanti e punibili. Satana altro non era stato che, da una parte, l'asylum ignorantiae nel quale riversare tutte quelle questioni che la ragione umana non era in grado di comprendere (come, ad esempio, le allucinazioni, intese, a quel tempo, come manifestazione del demonio), dall'altra, la scusante che aveva permesso agli animi corrotti della Chiesa di perpetrare il loro scempio vergognoso.

L'opera di Thomasius, unita a quella di pensatori quali Bekker o il succitato Spee, provocò una forte reazione all'interno dei gruppi culturali. Non è infatti senza significato che, sebbene l'ultimo processo alle streghe si svolse nel 1728 - anno della morte del Nostro - , il 13-XII-1714, il re di Prussia, Federico Guglielmo I, emanò un editto nel quale, sottoponendo all'approvazione del re ogni decisione rispetto alle streghe (come auspicato proprio da quei tre intellettuali di cui abbiamo fatto il nome), decretava, di fatto, il compimento di un'epoca di roghi e terrore.

 

 

 

Bibliografia essenziale:

Mario Longo, Historia Philosophia Philosophica, edizione I.P.L., Milano 1986.

Francesco Tomasoni, Christian Thomasius, edizione Morcelliana, Brescia 2005.

 



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