A cura di Giuseppe Tortora
Tornato in
Grecia intorno al 324, Pirrone da Elide – il padre dello Scetticismo - fondò
una sua scuola in Elide; richiamandosi all'esperienza e all'insegnamento di
Socrate, deliberatamente non lasciò nulla di scritto. Le dottrine dello
scetticismo antico ci sono note attraverso le testimonianze dei suoi scolarchi
e del dossografo Diogene Laerzio; tra i primi, il più importante fu Timone
di Fliunte (325/320-235/230), ex-ballerino convertitosi alla filosofia
dopo aver ascoltato il megarico Stilpone e poi Pirrone. Alla morte di questi,
girò per le colonie greche assorbendo la cultura ellenistica, specialmente nei
suoi aspetti letterari e retorici; intorno al 275, aprì ad Atene una scuola che
diffuse l'insegnamento di Pirrone. Il suo scritto più importante furono I
Silli, un'opera in versi sul modello omerico nella quale si fa la satira
delle dispute tra i filosofi delle varie scuole con accenti di vivace polemica
ed a volte di vera e propria invettiva.
Lo scetticismo di Pirrone intende valorizzare innanzitutto un atteggiamento
critico nei confronti del problema della conoscenza, e in particolare rispetto
al rapporto sensazione-riflessione: come è possibile passare dalle sensazioni
(così varie e particolari e sempre legate alla soggettività) attraverso il linguaggio
(così pieno di insidie e di ambiguità) ad una verità che abbia le
caratteristiche dell'universalità? Questo atteggiamento critico (da cui deriva
lo stesso termine scetticismo, da skèptomai = mi guardo intorno, indago,
osservo, o da skèpsis = dubbio, coscienza critica) è stato in fondo
sempre presente nella tradizione letteraria e filosofica greca, e gli scettici
lo sottolineano infatti in Omero e in Euripide, in Archiloco e in Senofane, in
Empedocle, Eraclito, Zenone, Protagora e Democrito. La stessa ricerca socratica
viene dagli Scettici intesa come l'affermazione più chiara
dell'irraggiungibilità di un sapere vero: chi afferma di poter giungere alla
verità non è che un dommatico.
“Gli Scettici si dedicarono in profondità al capovolgimento di
tutte le dottrine dommatiche dei vari indirizzi filosofici, senza fare essi
stessi alcuna dichiarazione di stampo dommatico, fino al punto di profferire
soltanto i dommi degli altri e di discutere senza dare alcuna definizione”.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi IX,74)
Se la verità non è che dogma, e se tutte le opinioni si equivalgono, l'unico atteggiamento saggio sarà quello dell'epoch, della "sospensione del giudizio": non definire nulla, avere coscienza che ad ogni argomentazione si oppone un'altra argomentazione, significa adottare contro la logica dell'«è» la logica del "non più". Ogni cosa ed ogni concetto esistono "non più" di altri, ed anzi una singola cosa ed un singolo concetto "non più esistono che non esistano":
"Pertanto questa locuzione, come dice Timone, intende significare
"il non definire nulla e il non ammettere opinione alcuna". Anche
l'espressione "ad ogni argomentazione si oppone un'argomentazione"
contiene implicitamente la sospensione del giudizio [
epoch]: infatti alla
discordanza delle cose reali ed all'equipollenza delle argomentazioni consegue
l'ignoranza della verità".
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi IX,76)
L'epoch e la logica del "non più" stavano ad indicare la perdita di ogni criterio valido per il raggiungimento della verità, e quindi di ogni sistema di riferimento valido in sé, e cioè di una "natura" oggettivamente data: non esiste nulla "per natura", né c'è un rapporto tra le cose come sono "per natura" e come "appaiono", perché le cose si limitano solo ad apparire, ed è questo apparire soltanto la vera natura delle cose. Ma la perdita del criterio significava per gli Scettici non solo l'afasia, cioè il non parlare, il non pronunciarsi sulle cose, ma soprattutto la conquista di quella atarassia, cioè imperturbabilità e tranquillità "di fronte" al mondo delle cose, che costituiscono appunto il fine e forse la felicità dell'uomo veramente saggio.
“Timone afferma che chi aspira alla felicità deve tendere a
queste tre cose: in primo luogo a rendersi conto della natura delle cose, in
secondo luogo ad assumere un adeguato comportamento nei confronti di queste, e,
infine, a capire cosa accadrà a quelli che così abbiano agito. Aristotele
osserva che, per quanto concerne le cose, Timone le dichiarava tutte quanti
indifferenti, instabili e non-giudicabili e aggiungeva, perciò, che né i nostri
sensi né le nostre opinioni sono nel vero o nel falso. Per questo motivo,
allora, non si deve prestar fede né ai sensi né alle opinioni, ma dobbiamo essere
privi di opinione, non essere inclini a nessuna soluzione e non lasciarci
scuotere da nulla, ma dobbiano dire, a proposito di ogni cosa particolare, che
essa esiste "non più" che non esista, oppure che essa "è e non
è" e non semplicemente che essa non è. E Timone sostiene che a quanti si
trovano in questa disposizione d'animo consegne anzitutto l'afasia e, in
secondo luogo, l'imperturbabilità”. (Aristocle in Eusebio, P.E. 758
d)
La scuola di Timone non ebbe discepoli illustri, ma l'atteggiamento scettico conquistò l'Accademia platonica con Arcesilao di Pitane (315-240).