Ma poiché fu opinione di molti che il mondo sia esistito sempre e necessariamente, e avendo essi cercato di dimostrarlo, passiamo ad esaminare i loro argomenti, per dimostrare che essi non provano in maniera apodittica l’eternità del mondo. Primo, esporremo le ragioni desunte partendo da Dio; secondo, quelle desunte partendo dalle creature; terzo, quelle desunte dal modo di prodursi delle cose, che consiste nel cominciare di nuovo.
Ebbene, partendo da Dio sono queste le ragioni presentate per dimostrare l’eternità del mondo - (I numeri corrispondono a quelli del c. 35):
1. Una causa agente che non sempre agisce, si muove per se, o per accidens. Si muove di per sé, p. es., un fuoco che non bruciava e comincia a bruciare, o perché viene acceso di nuovo, o perché viene trasportato vicino al combustibile. Si muove invece per accidens, p. es., il motore, che comincia a muovere un animale con un’azione compiuta sull’animale stesso: o dall’interno, come quando l’animale si sveglia dopo aver finito la digestione e comincia a muoversi; o dall’esterno, come quando capitano dei fatti che inducono l’animale a iniziare qualche operazione. Ora, Dio non si muove né per se, né per accidens, come abbiamo dimostrato nel Primo Libro. Perciò Dio agisce sempre allo stesso modo. Ma al suo agire le creature devono la loro esistenza. Dunque le creature sono sempre esistite.
2. L’effetto procede dalla propria causa mediante l’azione di essa. Ma l’agire di Dio è eterno; altrimenti egli dovrebbe passare dallo stato di agente in potenza a quello di agente in atto: quindi dovrebbe essere reso attuale da un agente anteriore, il che è impossibile. Dunque le cose sono state create da Dio fin dall’eternità.
3. Posta la causa sufficiente, è necessario porre anche l’effetto. Se infatti posta la causa l’effetto non ne seguisse necessariamente, sarebbe possibile per l’effetto essere o non essere anche dopo aver posto la causa; cosicché il legame tra causa ed effetto sarebbe solo possibile. Ma ciò che è possibile ha bisogno di qualche cosa per essere ridotto in atto. Quindi bisognerà ammettere un’altra causa per cui l’effetto viene ridotto in atto; cosicché la prima causa non sarebbe sufficiente. Dio invece è causa sufficiente della produzione delle creature; altrimenti non sarebbe causa, ma piuttosto disponibile a una causa; poiché diventerebbe causa per l’aggiunta di qualche altra cosa. Il che è evidentemente assurdo. Dunque è necessario che, essendo eterno Dio, anche la creatura ne sia derivata dall’eternità.
4. Chi agisce per volontà non ritarda l’esecuzione del suo proposito di compiere un’impresa, se non per attendere qualcosa ti futuro che ancora non c’è: e questo talora matura nell’agente medesimo, come quando si attende il potenziamento della virtù per agire, o la rimozione di un suo impedimento; talora invece matura fuori dell’agente, come quando si attende la presenza di qualcuno dinanzi al quale si vuole compiere l’azione; o si attende l’arrivo di un tempo già opportuno non ancora presente. Infatti se una volizione è completa, la potenza passa subito all’esecuzione, quando non è difettosa: al comando della volontà, p. es., segue subito il moto delle membra, a meno che non ci sia un difetto della potenza motrice che deve eseguire il moto. È perciò evidente che quando uno vuole fare qualcosa e non lo fa subito, ciò deve dipendere da un difetto di potenza, di cui si attende la rimozione; oppure perché la volontà di fare non è completa. E dico che c’è completezza di volontà, quando uno vuole assolutamente fare una cosa in tutti i modi: mentre la volontà è incompleta, quando uno non vuole fare una data cosa in modo assoluto, ma poste certe condizioni che ancora mancano; oppure tolto un impedimento attualmente esistente. Ora, è chiaro che Dio tutto ciò di cui vuole adesso l’esistenza lo volle fin dall’eternità, poiché in lui non ci possono essere nuovi atti di volontà. Né ci poté mai essere un difetto, o un impedimento per la sua potenza; né c’era da attendere qualcosa per la produzione di tutto il creato, non essendoci altro d’increato all’infuori di Dio, come sopra abbiamo spiegato. Dunque sembra necessario che egli abbia prodotto le creature dall’eternità.
5. Chi agisce con intelligenza non preferisce una cosa a un’altra, se non per la superiorità della prima sulla seconda. Ma dove non c’è nessuna differenza, non può esserci superiorità. Perciò dove non ci sono differenze, non c’è preferenza per l’una o per l’altra. Per questo da un agente disposto ugualmente verso due alternative non deriva nessuna operazione, come non deriva dalla materia: infatti tale potenza somiglia alla potenzialità della materia. Ora, tra un non ente e un altro non ente non può esserci nessuna differenza. Quindi un non ente non è preferibile all’altro. - Ora, però, all’infuori dell’universo creato non c’è che il nulla, oltre l’eternità di Dio. Ma nel nulla non si possono determinare delle differenze tra un momento e l’altro, in modo da dover compiere qualcosa nell’uno piuttosto che nell’altro. Lo stesso si dica per l’eternità, che è tutta semplice e uniforme, come abbiamo spiegato nel Primo Libro. Dunque la volontà di Dio è indifferente a produrre la creatura per tutta l’eternità. - Perciò fu sua volontà o che la creatura non venisse mai costituita in dipendenza della sua eternità: o che vi venisse costituita da sempre. Ma è evidente che non fu sua volontà escludere la costituzione della creatura in dipendenza del suo essere eterno: essendo chiaro che egli col suo volere ha istituito le creature. Rimane dunque dimostrato apoditticamente, come sembra, che la creatura è esistita da sempre.
6. Le cose che sono ordinate a raggiungere un fine, da questo derivano la loro necessità: soprattutto quelle che vengono compiute per volontà. Nel caso quindi che il fine permanga in un identico rapporto, le cose che ad esso sono ordinate devono o prodursi o conservarsi nella stessa maniera, a meno che non si produca in esse un nuovo rapporto col fine. Ora, fine delle creature emananti dalla volontà divina è la bontà di Dio, che sola può essere il fine della divina volontà. Perciò, siccome la bontà divina per tutta l’eternità conserva sempre il medesimo rapporto con la volontà divina, sembra che le creature ugualmente vengano prodotte dalla volontà divina da tutta l’eternità. Infatti non si può dire che in esse nasca una nuova relazione verso il fine, se si ammette che prima di un determinato tempo in cui hanno cominciato a esistere esse non esistevano affatto.
7. Avendo Dio una bontà perfettissima, può dirsi che tutti gli esseri sono derivati dalla sua bontà, non nel senso che dalle creature egli acquisti qualche cosa: ma nel senso che è proprio della sua bontà comunicarsi per quanto è possibile, manifestando così questa medesima bontà. E poiché tutte le cose sono partecipi della bontà di Dio in quanto hanno l’esistenza, più sono durature e più partecipano la bontà di Dio; infatti l’essere perenne della specie viene per questo denominato «un essere divino». Ma la bontà di Dio è infinita. Spetta dunque ad essa comunicarsi all’infinito, e non solo in un determinato tempo. Perciò sembra doversi attribuire alla bontà divina l’esistenza eterna di qualche creatura.
Questi dunque sono gli argomenti che, partendo da Dio, sembrano dimostrare che le creature sono sempre esistite.
Ci sono altri argomenti, desunti dalle creature, che sembrano dimostrare la stessa cosa:
l. Le cose che non sono in potenza a non essere, è impossibile che non siano. Ma tra le creature ce ne sono di quelle che non hanno tale potenza. Infatti la potenza a non essere è solo in quelle composte da una materia soggetta alla contrarietà: poiché la potenza a essere e non essere è la potenza alla privazione (della forma propria) e alla forma contraria, il cui soggetto è la materia. Si sa che con la privazione è sempre connessa una forma contraria, perché è impossibile che la materia rimanga senza nessuna forma. Ci sono però delle creature in cui la materia non è soggetta a tale contrarietà: o perché sono del tutto prive di materia, come le sostanze intelligenti, e lo vedremo in seguito; o perché non hanno contrari, come i corpi celesti: il che si rileva dal loro moto che non ha un moto contrario. Perciò per certe creature è impossibile non essere. Dunque è necessario che esse siano da sempre.
2. Ciascuna cosa tanto dura nell’essere quanta è la sua capacità di esistere, salvo fatti accidentali, come avviene per le cose che vengono distrutte in modo violento. Ora, ci sono delle creature in cui la capacità di esistere non è limitata a un certo tempo, ma è fatta per esistere sempre: tali sono, p. es., le sostanze intelligenti e i corpi celesti. Sono infatti realtà incorruttibili, non avendo contrari. Rimane dunque dimostrato che a loro spetta di esistere sempre. Ma ciò che incomincia a esistere non esiste sempre. Dunque va escluso che queste cose abbiano incominciato a esistere.
3. Quando una cosa inizia il suo moto, o il motore, o il corpo mobile, o entrambi acquistano un rapporto nuovo, diverso da quando essa non era in movimento: poiché si tratta del rapporto o relazione tra motore e mobile in quanto il motore è in atto. Ma una nuova relazione non comincia senza il mutamento di entrambi i correlativi, o per lo meno di uno di essi. Ora, chi adesso ha un rapporto diverso dal precedente è soggetto al moto. Perciò prima del moto che incomincia di nuovo, deve esserci nel corpo mobile o nel suo motore un altro moto. È necessario dunque, o che ogni moto sia eterno, o che abbia un moto antecedente. Dunque il moto è sempre esistito. Quindi anche i corpi mobili. Perciò le creature sono sempre esistite. Dio infatti, come abbiamo visto nel Primo Libro, è del tutto immobile.
4. Ogni agente che genera esseri consimili tende a conservare nella specie quell’essere perpetuo che non può conservare come individuo. Ora, è impossibile che una tendenza naturale sia vana. Dunque è necessario che le specie delle cose generabili siano eterne.
5. Se il tempo è perpetuo, anche il moto deve essere perpetuo, non essendo altro che «misura del moto». Di conseguenza devono esserlo anche i corpi mobili, poiché il moto è «l’atto del mobile». Ma il tempo deve essere perpetuo. Infatti non è concepibile l’esistenza del tempo senza l’istante presente: come non si può concepire la linea senza il punto. Ora, l’istante non è altro che «fine del passato e principio del futuro», come dice la sua definizione. Cosicché dato un istante qualsiasi, esso è accompagnato dal tempo, sia prima che dopo. Quindi non può esserci un istante che sia il primo o l’ultimo. Perciò bisogna concludere che gli esseri mobili, che sono sostanze create, esistono fin dall’eternità.
6. Qualsiasi cosa deve essere o affermata o negata. Ma se alla negazione stessa di una cosa segue la sua affermazione, bisogna che essa esista per sempre. Ebbene tale è appunto il tempo; poiché se il tempo non è sempre esistito, c’è un prima in cui va collocata la sua inesistenza; e se non sempre ci sarà, bisogna che ci sia un dopo posteriore alla sua esistenza. Ora, il prima e il dopo nella durata non possono esserci senza il tempo; poiché il tempo è la misura del prima e del dopo. Cosicché il tempo dovrebbe esistere prima di cominciare, e durare in futuro dopo essere terminato. Dunque il tempo deve essere eterno. Ma il tempo è un accidente, il quale non può esistere senza soggetto. D’altra parte il suo soggetto non è Dio, che è sopra il tempo, essendo del tutto immobile, come abbiamo dimostrato nel Primo Libro (c. 13). Dunque bisogna che qualche sostanza creata sia eterna.
7. Ci sono molte proposizioni che a negarle si è costretti ad affermarle. Chi nega, p. es., che esiste la verità, afferma una verità poiché afferma che è vera la negazione che egli proferisce. Lo stesso si dica di colui che nega il principio: «Cose contraddittorie non possono essere simultaneamente vere»: poiché negandolo afferma che è vera la sua negazione e falso il contrario; e quindi che non possono essere egualmente vere l’una e l’altra. Perciò se le cose la cui negazione ne implica l’affermazione bisogna che esistano sempre, come abbiamo dimostrato (cf. arg. prec.), ne segue che le predette proposizioni e tutte quelle che ne seguono siano eterne. Ma tali proposizioni non sono Dio. Dunque oltre Dio deve esserci qualche altra cosa di eterno.
Queste ragioni, dunque, e altre consimili si possono desumere dalle creature per dimostrare che queste sono sempre esistite.
Altre ragioni poi per dimostrare la medesima cosa si potrebbero desumere dalla produzione stessa delle cose:
1. Ciò che viene affermato universalmente da tutti è impossibile che sia del tutto falso. Infatti un’opinione falsa è come un’infermità dell’intelletto: come il falso giudizio circa un sensibile proprio dipende dall’infermità del senso. Ma il difetto è un fatto accidentale essendo estraneo all’intenzione della natura. Ora, ciò che è incidentalmente non può essere sempre e in tutti: il giudizio, p. es., che il gusto dà dei sapori non può essere falso. Così il giudizio che tutti danno della verità non può essere erroneo. «Ora è comune sentenza di tatti i filosofi che dal niente non si fa niente». Questo quindi deve essere vero. Ciò dunque che viene fatto deve essere fatto con qualcosa. E se questo qualcosa è anch’esso fatto, dev’essere fatto con qualche altra cosa. Ma questo non può procedere all’infinito: perché allora non si giustificherebbe nessuna generazione, essendo impossibile esaurire una serie infinita. Perciò bisogna arrivare a un primo il quale non sia fatto. Ma ogni ente che non è sempre stato deve essere stato fatto. Dunque la cosa con cui tutte le altre sono state fatte bisogna che sia eterna. Questa però non può essere Dio stesso: perché egli non può essere la materia di nessuna cosa, come abbiamo dimostrato nel Primo Libro. Dunque è indispensabile che qualche cosa fuori di Dio, ossia la materia prima, sia eterna.
2. Se una cosa adesso non è nel medesimo stato di prima, bisogna che in qualche modo sia mutata: perché mutare non è altro che essere prima e dopo in modo diverso. Ora, ciò che incomincia ad essere, prima e dopo non è allo stesso modo. Dunque questo non può capitare che per un moto o mutazione. Ma ogni moto, o mutazione deve risiedere in un soggetto, essendo «l’atto di ciò che è mobile». E siccome il moto è prima di ciò che viene fatto col moto, la cosa prodotta essendo il termine del moto, a ogni cosa prodotta deve preesistere un soggetto mobile. E poiché questo processo non può risalire all’indefinito, bisogna arrivare a un primo soggetto che mai abbia incominciato, ma sia sempre esistito.
3. Tutto ciò che comincia ad essere, prima di essere aveva la possibilità di essere: se infatti non l’avesse avuta era impossibile che esistesse: e così sarebbe tuttora un non ente, e mai avrebbe cominciato ad essere. Ma ciò che ha la possibilità di essere è un soggetto potenzialmente esistente. Quindi prima che qualsiasi cosa incominci ad essere, deve preesistere un soggetto potenzialmente esistente. E poiché in questo non si può procedere all’infinito, bisogna ammettere un primo soggetto il quale non abbia mai incominciato ad essere.
4. Mentre viene fatta, nessuna sostanza è presente: poiché viene fatta proprio per essere; perciò essa non verrebbe fatta, se già esistesse. Ma mentre viene fatta, bisogna che ci sia un qualcosa che formi il soggetto del facimento, non potendo questo, quale accidente, stare senza soggetto. Quindi tutto ciò che viene fatto ha un soggetto preesistente. E poiché in questo non si può risalire all’infinito, ne segue che il primo soggetto non è fatto, ma eterno. Da ciò segue quindi che esiste qualche altra cosa di eterno all’infuori di Dio, non potendo essere lui il soggetto del facimento e del moto.
Queste sono le ragioni su cui alcuni si basano, come se fossero dimostrazioni, per affermare categoricamente che le cose create sono sempre esistite. In ciò essi sono in contrasto con la fede cattolica, la quale ritiene che all’infuori di Dio niente è sempre esistito, ma che tutte le cose, eccetto il solo eterno Dio, hanno incominciato a esistere.
Bisogna perciò dimostrare che le ragioni suddette non concludono in maniera apodittica. E prima di tutto quelle desunte partendo dalla causa agente. Infatti:
1. Per il fatto che un suo effetto ha inizio, non segue che Dio debba subire un mutamento, come vuole la prima argomentazione. Poiché la novità dell’effetto può indicare la mutazione della causa agente solo in quanto dimostra la novità del suo agire: infatti non è possibile che in un agente ci sia una nuova azione, senza che in qualche modo abbia un mutamento, per lo meno dal riposo all’atto. Ma la novità degli effetti prodotti da Dio non dimostra la novità dell’agire divino: poiché in Dio l’agire si identifica con l’essenza divina, come sopra abbiamo visto. Quindi la novità dei suoi effetti non può dimostrare una mutazione di Dio come causa agente.
2. Dal fatto poi che l’agire della prima causa agente è eterno, non segue che sia eterno il suo effetto, come concludeva il secondo argomento. Sopra infatti abbiamo dimostrato che Dio nel produrre le cose agisce con la volontà. Però non nel senso, e l’abbiamo visto in precedenza, che ci sia qualche altra azione intermedia, come capita per noi in cui l’azione della potenza motoria è tra l’atto della volontà e l’effetto; ma è necessario che il suo intendere e volere s’identifichi col suo operare. Ora, dall’intelletto e dalla volontà gli effetti derivano secondo la determinazione dell’intelligenza e il comando della volontà. Dall’intelletto poi, come viene determinata ogni altra condizione della cosa da fare, così ne viene prescritto anche il tempo: poiché l’arte non solo determina che quella data cosa sia, ma che sia in quel dato momento. Il medico, p. es., determina anche il tempo in cui va data la medicina; cosicché qualora il suo volere fosse di per sé efficace per produrre l’effetto, seguirebbe allora il nuovo effetto dal volere ormai remoto, senza l’intervento di un nuovo atto. Perciò niente impedisce di affermare che l’azione di Dio è stata fin dall’eternità, non così il suo effetto, il quale è avvenuto nel tempo che egli aveva disposto dall’eternità.
3. Da ciò risulta evidente che Dio, pur essendo causa adeguata della produzione delle cose nell’essere, tuttavia non segue che il suo effetto debba essere eterno, come concludeva il quarto argomento. Posta infatti la causa adeguata è posto anche il suo effetto (non però l’effetto estraneo alla causa); poiché se così non fosse, ciò dipenderebbe dall’insufficienza della causa: nel caso, p. es., che un corpo caldo non riscaldasse. Ora, effetto proprio della volontà è che si compia ciò che la volontà vuole: ma se si trattasse di una cosa diversa da quella voluta dalla volontà, non avremmo un effetto proprio della causa, bensì distinto da essa. Ora la volontà, come abbiamo già detto, come vuole quel dato effetto, vuole anche che si compia in un dato momento. Perché quindi la volontà sia causa adeguata, non si richiede che l’effetto ci sia quando c’è il volere, ma che ci sia quando il volere ne ha disposto l’esistenza. Negli effetti invece che derivano da un agente naturale la cosa è diversa: poiché l’agire della natura è conforme al suo essere: ecco perché allora esistendo la causa deve seguire l’effetto. Ma la volontà non agisce conformemente al suo essere, bensì conformemente al suo proposito. Perciò come gli effetti naturali seguono l’esistenza della causa agente, se questa è adeguata, così gli effetti di chi agisce per volontà seguono le determinazioni del suo proposito.
4. Da ciò inoltre risulta evidente che gli effetti della volontà di Dio non vengono ritardati, sebbene non esistano da sempre nonostante la deliberazione della volontà, come pretendeva il quarto argomento. Poiché ricade sotto la volontà divina non solo che esistano i suoi effetti, ma che esistano in quel dato momento. Perciò la volizione che la creatura esista in un dato momento non viene ritardata: poiché la creatura ha incominciato ad essere quando Dio aveva disposto dall’eternità.
5. Prima dell’inizio di una qualsiasi creatura non è possibile riscontrare delle differenze tra le varie parti di una durata, come si vorrebbe presupporre nel quinto argomento. Il niente infatti non ha né misura, né durata. D’altronde la durata di Dio, che è l’eternità, non ha parti, ma è del tutto semplice, senza prima e dopo, essendo Dio, come abbiamo visto nel Primo Libro, privo di moto. Quindi non è possibile confrontare l’inizio di tutto il creato a dei periodi determinati di una misura preesistente, ai quali l’inizio del creato potrebbe convenire o non convenire, in modo da riscontrare nella causa agente la ragione per cui ha prodotto le creature in quel periodo determinato e non in un altro precedente o seguente. Tale ragione si richiederebbe, se ci fosse una durata divisibile in parti distinta dall’insieme del creato: come avviene per le cause agenti particolari, le quali producono i loro effetti nel tempo, ma non producono il tempo stesso. Dio invece ha prodotto simultaneamente la creatura e il tempo. Perciò non c’è da ricercare la ragione per cui l’ha fatto ora e non prima; ma solo perché non l’ha fatto da sempre. La cosa risulta chiara dall’analogo problema relativo allo spazio. Infatti i corpi particolari, come sono prodotti in un tempo determinato, lo sono pure in un luogo determinato; e poiché hanno fuori di se stessi un tempo e uno spazio che li contengono, deve esserci una ragione perché vengono prodotti in quel dato luogo e in quel dato tempo, piuttosto che in un altro. Ma nell’insieme dei cieli, fuori dei quali non c’è spazio, e con i quali fu prodotto lo spazio di tutti gli esseri, non c’è da ricercare la ragione per cui non fu creato altrove. E alcuni volendola ricercare caddero in errore, arrivando ad ammettere l’infinità del mondo corporeo. Così nella produzione di tutto il creato, fuori del quale non esiste il tempo, e con il quale il tempo fu creato simultaneamente, non c’è da cercare una ragione per cui avvenne in quel momento e non prima. arrivando così a dover ammettere l’infinità del tempo; ma solo si deve ricercare perché esso non fu prodotto da sempre, e perché lo fu dopo la sua non esistenza, ossia con un cominciamento.
6. Per risolvere questo problema fu presentato un sesto argomento, desumendolo dal fine, il quale soltanto può imporre una necessità in ciò che procede dal volere. Ebbene, fine della volontà di Dio non può essere che la sua bontà. Egli però non agisce per produrre questo fine, come fa l’artefice coi manufatti: poiché la sua bontà è eterna e immutabile, cosicché è impossibile aggiungerle qualche cosa. Né si può dire che Dio agisce per incrementarla. E neppure agisce per acquistare questo fine, come il re che combatte per conquistare una città; poiché Dio è la sua stessa bontà. Resta dunque che egli agisce per il fine, perché produce effetti adatti a ricevere una partecipazione del fine. Perciò nel produrre così le cose per il fine, non va considerata la relazione uniforme tra il fine e la causa agente, trovandovi la ragione del suo eterno operare; ma va considerato il rapporto tra il fine e l’effetto che viene prodotto per il fine; in modo da vedere come l’effetto venga prodotto nel modo più conveniente per essere ordinato al fine. Dal fatto quindi che il fine conserva verso l’agente un rapporto uniforme non si può concludere che l ‘effetto sia eterno.
7. Non segue neppure che gli effetti divini debbano essere sempre esistiti, per essere così meglio ordinati al fine, come concludeva il settimo argomento; ma essi sono meglio ordinati al fine per il fatto che non sono sempre esistiti. Infatti ogni causa agente che produce un effetto per renderlo partecipe della propria forma, tende a produrre in esso una somiglianza. Perciò alla volontà di Dio era conveniente produrre il creato per partecipare la sua bontà, in modo da dargliene una somiglianza con la quale lo rappresentasse. Ma questa rappresentazione non può essere tale da raggiungere l’uguaglianza, ossia come gli effetti univoci rappresentano le loro cause, facendo derivare necessariamente dalla bontà infinita effetti sempiterni; ma solo come una causa superiore può essere rappresentata da esseri inferiori. Ora, la superiorità della bontà divina sul creato si mostra soprattutto dal fatto che le creature non sono sempre esistite. Infatti da ciò appare apertamente che tutte le altre cose all’infuori di Dio hanno una causa del loro essere; inoltre che la sua virtù non è obbligata a produrre tali effetti, come lo è la natura per gli effetti naturali; e conseguentemente che egli agisce e intende per libera volontà. Verità queste che alcuni contraddicono, partendo dalla supposizione che le creature siano eterne.
Perciò da parte della causa agente non c’è nulla che ci obblighi ad ammettere l’eternità delle creature.
Anche da parte delle creature non c’è nulla che ci obblighi necessariamente ad ammettere la loro eternità. Infatti:
1. La necessità ad essere che si riscontra nelle creature, dalla duale è desunto il primo argomento, è una necessità di ordine, come abbiamo spiegato in precedenza. Ora, la necessità di ordine non forza il soggetto in cui risiede ad essere sempre stato, come sopra abbiamo visto. Sebbene infatti la sostanza dei cieli, per il fatto che manca della potenza a non essere abbia la necessità ad essere, tuttavia questa necessità non segue che dalla sua sostanza. Perciò, una volta posta in essere la loro sostanza, tale necessità arreca l’impossibilità di non essere: essa però non rende impossibile l’ipotesi che i cieli non siano esistiti, quando si tratta il problema relativo alla produzione stessa della sostanza.
2. Anche la capacità di esistere per sempre, dalla quale è desunto il secondo argomento, presuppone la produzione del soggetto. Perciò quando si tratta della produzione della sostanza dei cieli, tale capacità di durare per sempre non può essere un argomento sufficiente.
3. Neppure può costringerci ad ammettere l’eternità del moto, l’argomento da esso desunto. Già infatti abbiamo visto che senza mutazione da parte di Dio, può essere che Dio compia qualcosa di nuovo e di non eterno. Ma se è possibile che egli compia cose nuove, ciò è possibile anche per il moto, poiché la novità del moto non fa che seguire le disposizioni del volere eterno circa la non eternità del moto.
4. Anche la tendenza delle cause agenti naturali a dare perpetuità alla specie, da cui partiva la quarta argomentazione, presuppone gli agenti naturali già prodotti. Perciò la ragione suddetta vale solo per le cose naturali già prodotte, ma non per la produzione delle cose. Se poi sia necessario ammettere che la generazione debba durare in perpetuo, lo vedremo in seguito.
5. Il quinto argomento poi, desunto dal tempo, non dimostra, bensì presuppone l’eternità del moto. Infatti dato che le fasi e la continuità del tempo seguono le fasi e la continuità del moto, secondo l’insegnamento di Aristotele, è evidente che l’identico istante è principio del futuro e fine del passato, proprio perché l’eventuale fase puntualizzata nel moto è principio e fine delle opposte parti di esso. Perciò la suddetta definizione non sarà valida per tutti gli istanti, se non perché la puntualizzazione del tempo si ritiene come un primo e un dopo nel moto, il che equivale ad ammettere il moto sempiterno. Chi invece non ammette che il moto è sempiterno può rispondere che il primo istante del tempo è principio del futuro, senza essere affatto fine del passato. Né alla successione del tempo ripugna ammettere un istante che sia principio e non fine, per il fatto che la linea, in cui un punto può essere principio senza essere fine, è fissa e non fluente come il tempo: poiché anche in certi moti particolari, che pure sono fluenti e non fissi, si può determinare un istante quale principio del moto, e non quale fine. Altrimenti ogni moto dovrebbe essere perpetuo, il che è assurdo.
6. L’affermazione che ammettendo l’inizio del tempo si viene ad ammettere che il tempo è esistito dopo la sua non esistenza, non ci obbliga ad ammettere che esiste mentre si afferma che non esiste, come voleva il sesto argomento. Dicendo infatti: prima che esistesse il tempo, non ammettiamo una porzione di tempo reale, ma solo immaginaria. Poiché quando diciamo che il tempo riceve l’essere «dopo la sua inesistenza», vogliamo dire che prima di un dato istante determinato non c’era nessuna porzione di tempo: come quando diciamo che «sopra i cieli non c’è nulla», non intendiamo dire che esiste uno spazio fuori dall’ultimo cielo superiore al cielo stesso, ma che non esiste uno spazio superiore. Però in tutti e due i casi l’immaginazione può aggiungere dei prolungamenti alla realtà esistente: ma per questi, come non c’è da ammettere l’estensione infinita del mondo corporeo, stando alle spiegazioni di Aristotele, così non c’è da ammettere un tempo sempiterno.
7. La verità delle proposizioni che sono costretti a concedere anche coloro che le negano, su cui è impostato il settimo argomento, ha una necessità dal rapporto esistente tra predicato e soggetto. Perciò essa non dimostra che debba necessariamente esistere qualche cosa, all’infuori forse dell’intelletto divino, in cui è radicata ogni verità, come abbiamo spiegato nel Primo Libro.
Perciò gli argomenti desunti dalle creature non obbligano ad ammettere l’eternità del mondo.
Rimane ora da dimostrare che non può obbligare ad ammettere questa tesi nessuna delle ragioni desunte dalla produzione delle cose. Infatti:
1. La comune convinzione dei filosofi che «dal niente non si fa niente», dalla quale è desunto il primo argomento, è vera rispetto a quel farsi che essi consideravano. Poiché infatti ogni nostra conoscenza comincia dai sensi, che hanno per oggetto i singolari, la ragione umana procedette dalle considerazioni particolari a quelle universali. Perciò ricercando le cause delle cose, considerarono solo i facimenti particolari degli esseri, chiedendosi in che modo si produceva questo fuoco o questa pietra. Perciò i primitivi, considerando il divenire delle cose troppo superficialmente, affermarono che le cose sono soggette al divenire solo secondo certe disposizioni accidentali, quali rarità e densità, e simili, dicendo per conseguenza che il divenire non è altro che una alterazione, poiché ritenevano che ogni cosa si formasse da un ente in atto. - I loro successori invece, considerando il divenire delle cose più intimamente, giunsero al divenire sostanziale delle cose, affermando che solo per gli accidenti esse si formano da enti in atto, mentre per se stesse si formano da un ente in potenza. Però anche questo divenire di un ente da un qualsiasi altro ente è il facimento di un ente particolare o in quanto uomo, o in quanto fuoco. ma non in quanto ente nella sua universalità; è l’ente di prima infatti che viene trasformato in questo nuovo ente. - Altri finalmente, approfondendo di più l’origine delle cose, considerarono la derivazione di ogni ente creato da un’unica prima causa, come è evidente dagli argomenti da noi addotti in precedenza. Ora, in questa derivazione di tutti gli esseri da Dio non è possibile che si formi qualcosa da qualche elemento preesistente: poiché allora non avremmo la produzione di tutta la realtà creata.
Ebbene, i primi filosofi Naturalisti, tra i quali era comune sentenza che «dal niente non si fa niente», non arrivarono a queste tipo di facimento. Oppure, se ci arrivarono, non gli diedero il nome diproduzione, perché produzione indica moto o mutazione, mentre in questa prima origine di ogni essere da un unico primo ente non è pensabile la trasmutazione di un ente in un altro, come sopra abbiamo notato. Perciò considerare questa origine delle cose non spetta neppure al filosofo naturalista, bensì al metafisico, il quale considera l’ente nella sua universalità, e le cose che trascendono il moto. - Noi però, stando a una certa somiglianza, diamo anche a questa origine il nome di produzione, e così definiamo tutte quelle cose la cui essenza o natura ha origine da altri esseri.
2. Da ciò risulta evidente che neppure il secondo argomento, desunto dalla nozione di moto è apodittico. Poiché la creazione non può dirsi una mutazione se non in senso metaforico, in quanto si considera che il creato ha l’essere dopo il non essere. Per questo si parla di produzione anche per cose che tra loro non si trasmutano affatto, ma solo perché l’una succede all’altra, come si dice che «dalla notte si fa giorno». Né la nozione di moto può concludere nulla in proposito: poiché quanto non è in nessun modo non ha un modo di essere qualsiasi, per poterne dedurre che quando incomincia ad essere «non è allo stesso modo di prima».
3. Inoltre da ciò appare evidente che l’essere di tutta la realtà creata non è necessario che sia preceduto da una potenza passiva, come concludeva il terzo argomento. Ciò infatti è necessario per le cose che iniziano mediante il moto: poiché il moto è «atto di una realtà esistente in potenza». Ora, che l’essere creato venisse creato era una cosa possibile prima che esistesse, (solo) in forza della potenza della causa agente, per cui ha incominciato ad essere. Oppure era possibile per il rapporto dei termini tra i quali non si riscontra nessuna incompatibilità: ma questo possibile, a detta del Filosofo «si denomina così senza riferimento a nessuna potenzialità». Infatti il predicato è non rifiuta dei soggetti come mondo, o uomo, come invece l’aggettivo commensurabile ripugna al diametro: ed è in tal senso che queste cose non è impossibile che siano, e quindi che siano possibili prima di esistere, anche senza una potenzialità preesistente. Invece le cose che vengono prodotte mediante il moto bisogna che siano possibili mediante una potenza passiva, ed è per esse che il Filosofo ricorre all’argomento suddetto nel settimo libro della Metafisica.
4. Da ciò risulta finalmente che neppure il quarto argomento conclude a proposito. Infatti l’essere fatto di una cosa non può coincidere col suo essere, quando si tratta di cose prodotte mediante il moto, nel cui farsi si ha una successione dì fasi. Ma nelle cose fatte senza un moto, il farsi non precede l’essere.
Appare perciò evidente che niente impedisce di ammettere che il mondo non sempre è esistito, come insegna la fede cattolica: «In principio creò Dio il cielo e la terra». Inoltre nei Proverbi si afferma di Dio: «Prima che facesse qualsiasi cosa da principio...».
Somma contro i Gentili, Libro II, capp. XXXII-XXXVII, tr. it. di Tito S. Centi, Utet, Torino 1978, pp. 325-341