di Maria Russo
1. Il tragico come esperienza dell’Occidente
2. Il tragico nel mondo greco: conflitto e speranza
3. Eschilo
4. Agamennone, Abramo, Cristo
5. Il Vangelo: una tragedia?
6. Giovanni e Matteo: due registi per lo stesso soggetto
7. Lettura drammaturgica del Vangelo di Giovanni
Come ogni categoria di esperienza, anche del tragico bisogna anzitutto chiarire un quesito fondamentale. Esso è forse un portato di cultura tutto greco (nello splendore dell’Atene del V secolo) oppure attraversa tutta la storia dell’Occidente e si manifesta, in forme differenti, in ogni epoca? La linea tradizionale di interpretazione propone date di nascita e di morte della tragedia: il ‘900, secolo orfano di Dio, ha smarrito la chiave del tragico come la voce del divino –e c’è chi anticipa la scomparsa del tragico al mutamento di conflitto messo in scena da Euripide durante la guerra del Peloponneso rispetto ai suoi due illustri predecessori, o, poco più avanti, all’imporsi del paradigma cristiano della venuta certa del regno di Dio. In realtà, il tragico non rimane intrappolato in una data, e si presenta continuamente sulla scena dell’Occidente, fino ad invaderne prepotentemente la storia. Il tragico inizia nel mito come specchio della vita e continua nella storia che sembra tornare ad invocare la venuta di un Dio.
Assai fertile risulta a tal proposito la tesi di Rinaldo Ottone, secondo cui il tragico può essere interpretato come una domanda che deve restare continuamente aperta, la cui risposta consiste proprio nella terribile vertigine di affacciarsi nuovamente su ciò che chiama in causa la parte più intima della natura di ogni singolo individuo. In questo modo, la domanda tragica si può ritrovare tanto nel teatro antico quanto in quello moderno, ma soprattutto non si esclude in un aut aut con l’escatologia cristiana, che anzi ne risulta un inveramento sempre più autentico. E il silenzio di Dio nel Trauerspiel, l’assenza di un senso che orienti fini e scopi del mondo più che dichiarare, come voleva la Noluntas di Schopenauer, il trionfo dell’assurdo rinnova ancora più disperatamente proprio quella domanda di senso.
Soprattutto a partire dal Romanticismo, ogni autore ha fornito una sua definizione del tragico, che fosse ovviamente coerente nell’economia del proprio sistema di pensiero. Ecco che compaiono la sintesi di Goethe di tragico come “conflitto irrisolvibile”, l’inquadratura dialettica di Hegel, fino ad arrivare alla dichiarazione di tragico come riverbero dell’assurdo proprio di una condizione umana al di là del velo di Maya e alla profezia di Nietzsche su un prossimo ritorno del tragico stesso, grazie alla vittoria di Dioniso sul crocifisso. E poi i vari necrologi del ‘900, secondo cui il tragico permane una forma di cultura non in grado di fare i conti con la vita, o addirittura è un qualcosa che si è perso per sempre con Dio e non può più ritornare se non in vuoti tentativi di imitazione su un palcoscenico che non sa più elaborare e ha perso la sua funzione catartica.
Rintracciare il tragico attraverso orme pregiudizialmente stabilite nel laboratorio teorico del pensiero: questo hanno fatto gli autori più recenti, e non hanno saputo osservare la sua presenza, la sua scia continua che non può essere cancellata ma solo oscillare tra il nascondersi e il rivelarsi. Ciò di cui si sente la mancanza ha infatti una sua consistenza, forse ancora più incisiva di ciò che invece si esplicita scontato davanti agli occhi.
Un’altra questione di importanza fondamentale risiede nel rapporto, spesso frainteso, del tragico con il cristianesimo. La portata messianica del messaggio cristiano sembra infatti dichiarare la vittoria del Bene fin dal prologo, e l’impossibilità che la speranza venga elusa; anzi, proprio questa certezza di compimento costituisce il nucleo fondamentale della fede stessa. Si sono quindi spese “tabelle” di differenze e poche analogie tra le divinità del mondo classico e quella del mondo ebraico-cristiano, facendo risiedere in queste l’incolmabile differenza dell’elaborazione di pensiero di due popoli che non possono coesistere, e di cui il primo è costretto ad abdicare per sempre per il secondo. Tuttavia, questa lettura è fortemente influenzata dal fatto che ci si sente più figli della Bibbia che del mondo greco, e di conseguenza si è più disposti ad analizzare in modo distaccato il secondo; ecco che il divino antico diventa l’incarnazione di forze della natura e di sentimenti e passioni umane (secondo la nota tesi di Walter Otto), mentre il Dio cristiano resta un’entità che non si può esaurire fino in fondo (basti pensare al prolifico filone della teologia negativa, da Meister Eckhart alle riflessioni dopo Auschwitz sull’assenza).
L’eroe tragico e l’“eroe” cristiano sono magistralmente opposti da Kierkegaard, nelle figure di Agamennone e di Abramo; ci si può domandare tuttavia se sia un paragone lecito (già Ottone preferisce l’analogia Edipo e Abramo) e soprattutto se l’esperienza-domanda che viene richiesta all’individuo della tragedia antica sia poi così radicalmente diversa da quella posta all’uomo cristiano. Domanda e uomo: questi due termini accomunano inevitabilmente ogni epoca e richiamano per la natura stessa dell’uomo e della sua condizione di vita “gettato” nel mondo, inevitabilmente e ancora, il tragico.
Il tragico nel mondo greco: conflitto e speranza
La tragedia antica presenta un individuo costretto ad affrontare l’Altro da Sé in un’interrogazione talmente pericolosa da richiedere il prezzo della propria vita, spirituale e fisica. Questo Altro è spesso il divino, ma anche il destino, la collettività, un altro individuo, un’altra parte di sé che si contrappone lacerando e minando la propria identità. L’eroe greco può assomigliare al martire, nel senso che il suo dramma si carica di un’ingiustizia che si trova a dover scontare senza aver apparentemente compiuto niente che giustifichi una tale pena (Ifigenia, Antigone, Ippolito,…); oppure, può oscillare tra la colpa e l’innocenza, in un limbo che gli permette di essere compianto ma non dispensato dal dover pagare il “giusto prezzo di Dike” (Edipo, Ecuba, Teseo,…).
È necessario assumere una posizione nei confronti della tragedia antica: il dramma dell’uomo è quello di essere intrappolato in una necessità eteroimposta secondo il capriccio e le direzioni di regia degli dei e del fato oppure il tragico risiede nella libertà binaria (il sì e il no) e nella scelta dell’assolutezza di una domanda di fronte ad un problema a cui ci si trova costretti a rispondere? Sembra davvero riduttivo optare per la prima ipotesi: solo in superficie il teatro antico sembra confermare questa teoria; la divinità è infatti spesso usata come metafora o come velo che usano i personaggi per nascondersi (paradigmatica è l’omertà di Fedra che incolpa Cipride delle proprie colpe, ma anche di Elena,…). Tuttavia, ad una lettura più profonda, è sempre facile smascherare cosa si nasconde dietro all’intervento divino. Spesso è un pretesto addotto, ma non basta: c’è uno scarto tra ciò che l’uomo compie e ciò a cui la divinità lo mette di fronte, forse allo scopo di provocarlo e di testare la sua vera natura.
L’uomo non sceglie di vivere, ma una volta al mondo non ha fili che lo legano come un burattino; certo, l’occhio delle Moire è sempre puntato sullo scorrere dell’esistenza, ma a parte deciderne i tempi e le prove da affrontare, non vi è onniscienza e controllo delle risposte che l’uomo potrà dare. L’individuo è radicalmente messo in discussione fin nelle proprie viscere, e la scelta non è la banale dichiarazione di appartenenza all’esercito del bene o a quello del male. Nessun rigorismo manicheo: le sfumature sono infinite, e spesso entrambe le alternative sono lecite ma solo una delle due è ciò che parla di sé, è ciò che davvero può dare una sintesi incisiva della propria esperienza di vita. La risposta tragica è fondamentale poiché è ciò che definisce cosa si è stati, non perché prefiguri un destino nell’al di là: dice esattamente cosa si è stati in questo mondo. Da qui il finto pessimismo del Sileno: esso rappresenta invece la paura dell’uomo di fronte a questa interrogazione, che è implicitamente effetto collaterale dell’essere al mondo.
“Conflitto irrisolvibile” certamente, ma a ben vedere non vi è mai un totale sfacelo dell’uomo senza nulla in cambio, senza la speranza e senza una sorta di redenzione. Le morti che rimangono senza alcuna redenzione tramite la proclamazione di un senso sono sempre di personaggi che non sono veri protagonisti della tragedia, perché di fronte alla domanda non hanno saputo fare altro che soccombere per sfuggirvi. Chi invece è in grado di affrontare fino in fondo il pericolo, di arrivare al termine del labirinto e incontrare il Mostro-Dio, non può avere un finale che sia solo spegnimento di sé (da un certo punto di vista questo può addirittura richiamare la voce di Cristo “in verità, in verità vi dico chi perderà la vita la troverà, e chi non è disposto a perdere la vita la perderà”). Agamennone, ad esempio, non è il vero eroe della tragedia, in quanto non ha saputo rispondere alla domanda, e ha lasciato che gli eventi assumessero il colore della necessità, negando una propria responsabilità di fronte ad una divinità che senza motivo avrebbe richiesto il sacrificio della figlia. Ma la divinità stava solo mettendo alla prova Agamennone (una sorta di “tentazione” in quel deserto che è il proprio Io più profondo), tanto è che a quel punto l’interrogazione si sposta su Ifigenia disposta ad immolarsi con fierezza, tramutando il suo destino di nozze in un talamo di morte. Agamennone vuole il sacrificio della figlia per non perdere la propria autorità e il proprio potere e non perché la flotta possa partire (che di certo non poteva considerare per una giusta causa, visto il futile motivo del fratello), mentre Ifigenia, fidandosi del padre, vuole fare il bene di tutta la sua comunità. Agamennone morirà assassinato senza alcuna redenzione, Ifigenia invece sarà salvata dalla dea. Ma ancora: Creonte troverà una tragedia senza più la voce di alcuna domanda né risposta, mentre Edipo verrà come assolto in cielo, Antigone raggiungerà il fratello Polinice dopo aver dimostrato la propria fedeltà assoluta e con lui sarà “cara tra i morti” (morendo peraltro assieme al suo promesso sposo Emone), Eteocle avrà la sepoltura gloriosa di chi ha saputo prendersi carico di colpe di cui non ha responsabilità, mentre Laio viene assassinato ad un bivio dal proprio figlio senza aver trovato un senso alla propria esistenza.
Emergono allora due diverse tragicità, o meglio: la vera forma di tragicità è il saper dare se stessi per se stessi, ossia per ciò che si ritiene più importante, urgente e in cui si crede –e questo conferisce alla fine, agognato e patito, un senso; vi è poi una falsa tragicità, che si chiude in un oscuramento della natura umana in una perdita della propria identità più profonda –e approda al buio larvale del non aver saputo, in fondo, “vivere”. Gli dei e il destino diventano i supervisori di questa battaglia dell’individuo di trovare se stesso, e non i burattinai che fanno vivere l’uomo in cattività, come spesso sono stati dipinti. Non è vero che non c’è un concetto di responsabilità nel mondo antico (altrimenti non si spiegherebbero pratiche quali il sacrificio del φαρμακος, semplicemente al posto del peccato si parla di colpa. E anche di una colpa originaria: non si dimentichi che Anassimandro considera la stessa individuazione determinata che è ogni singolo nella sua irriducibilità come una terribile αδικια nei confronti del proprio opposto e di cosa ci sarebbe potuto essere al proprio posto nell’indefinitezza dell’απειρον. Spesso questo “senso di colpa” per la propria esistenza assume i tratti ereditari di una maledizione che coinvolge intere generazioni, oppure è rappresentata come l’inevitabile conseguenza dell’υβρις, ma è sempre presente in ogni tragedia.
La critica, ma in modo emblematico Nietzsche, ha visto in Euripide una decadenza del tragico, e ha elencato una serie di caratteri differenti rispetto alla tradizione precedente, quali il deus ex machina, lo spostamento del conflitto all’interno dell’uomo, la mancanza di un vero e proprio messaggio alla polis. Tenendo ovviamente conto del contesto storico in cui l’autore delle Baccanti compone, che è quello di un sempre più irrimediabile smembramento della comunità della polis e del senso civico di patria verso la chiusura del proprio orizzonte di senso dalle mura della città a quelle di casa, non si può comunque non riconoscere l’elemento tragico anche in questo autore. Ancora vi è una domanda, ancora non ci si può nascondere dietro alla divinità, ancora si può scegliere cosa essere nonostante e anzi, proprio per il dolore (si pensi alla differenza tra Ecuba e Polissena: l’una si snatura di fronte alla sofferenza, l’altra rimane integra e fiera tra le rovine di cose e persone). Insomma, ancora e sempre, nella tragedia antica, “παθει μαθος”.
Eschilo
Eschilo è la manifestazione più originaria che ci è rimasta di trasposizione nel teatro della tragedia che già era in nuce nel mito e nei rituali religiosi legati alla festa di Dioniso. Egli, infatti, più di ogni altro autore, non dà una risoluzione nella singola tragedia, ma inquadra il senso nell’orizzonte più ampio di una trilogia. Questo permette allo spettatore di essere assalito dal dubbio che tutto si compia senza alcun significato, secondo la logica ferrea di una coazione a ripetere, di un meccanismo che non si può più arrestare e può solo richiamare altra morte.
Eschilo riflette sul senso della vendetta e della faida praticato agli albori dell’Ellade, e potentemente arriva alla conclusione che l’approdo alla vera civiltà non passa attraverso il sangue ma tramite la giustizia. Già qui la divinità è specchio dell’uomo: nell’Orestea le Erinni rispecchiano la sete di vendetta ctonia di Clitemnestra, mentre Atena il razionale ed equilibrato giudizio della maggioranza. Non più il “Far West” di chi si arroga il diritto di spargere sangue (ulteriore) ma lo strutturarsi di una società in grado di arginare le passioni più bestiali dell’uomo (emblematicamente rappresentato dall’istituzione dell’Areopago di Atene). Le stesse Erinni assumono una trasformazione: restano, ma vengono convertite in Eumenidi, in divinità che devono proteggere la giustizia secondo le nuove leggi non oscure e terribili della vendetta (dunque le passioni umane permangono, ma sotto il controllo della ragione). Oreste viene perdonato perché il conflitto lo ha portato a comprendere l’inutilità di ripetere i gesti dei padri, non agisce accecato dall’odio ma spinto dall’urgente esigenza di compiere il giusto, secondo le leggi non scritte degli dei. Ma di quali dei? Non certo gli dei della notte, ma del luminoso profeta Apollo.
Così anche nei Sette a Tebe: il personaggio che assume su di sé il carico della tragedia è colui che ha saputo interrompere il vortice di egoismo innestato dall’avo Laio; quest’ultimo non ha saputo rinunciare ad una parte di sé per la propria città, mentre Eteocle rinuncia a tutto se stesso per liberare Tebe dal peso di una Sfinge che sembra ancora in fondo non sconfitta. L’enigma rappresenta la domanda a cui si è chiamati a rispondere, ma non basta risolvere l’indovinello, bisogna coerentemente saper poi vivere di conseguenza. In Eschilo la potenza immaginativa si spinge a descrivere visioni particolarmente angoscianti e che sembrano davvero richiamare i luoghi oscuri del divino e della coscienza umana; basti pensare alle Erinni che circondano Oreste, ma soprattutto alla magistrale descrizione di ben altre furie, i sette guerrieri colmi di tracotanza che si contrappongono alle sette porte di Tebe. Ognuno di loro rappresenta un fraintendimento del divino, quasi una sua bestemmia; Eteocle è chiamato dalla “Sfinge” a risolvere altrettanti indovinelli, per contrapporre simbolo a simbolo: prima dei guerrieri, combattono gli stemmi degli scudi. Il simbolo diventa araldo: dice chi lo porta, sintetizza la sua essenza più del nome.
Altri due esempi di tracotanza sono il Serse dei Persiani e il Prometeo che si contrappone a Zeus, ma con esiti differenti; se il primo porta il suo popolo alla disfatta non considerando minimamente il divino (come narra la lunga ρησις vera e propria litania funebre), il secondo attraverso il conflitto archetipico della ribellione dell’uomo nei confronti del Padre Celeste riesce a stabilire infine una conciliazione matura e forte della sua lotta. Non sempre la ricompensa è garantita, come testimoniano i risultati della presa di posizione di Pelasgo nelle Supplici; tuttavia, anche quando non si palesano immediatamente i segni della benevolenza del Dio, non bisogna disperarsi del suo silenzio: l’uomo deve fare ciò che è in suo potere, e credere, avere fede in una giustizia di cui prima o poi il cielo si farà garante. E nessuna tragedia l’ha mai smentito, altrimenti si cadrebbe in un semplice e assurdo vortice di vicissitudini in cui la scelta dell’uomo davvero non può fare la differenza.
Anche in Eschilo, che da sempre viene considerato l’autore più legato a personaggi granitici privi di dinamismo in quanto del tutto concentrati sul solo dramma del destino e del divino, si dimostra che questo determinismo è solo una facciata che invece ricopre la statuaria grandezza della scelta dell’uomo. Anzi, è la necessità di non poter sfuggire al proprio destino che permette all’uomo di manifestare la propria libertà più radicale, che non è un libero arbitrio recuperato come magra consolazione tra l’accettare o rifiutare la propria sorte ma molto di più: è la decisione di ciò che si è.
Soren Kierkegaard, nel suo Timore e Tremore, giunge all’apice della formulazione delle tre categorie di “uomo”: estetico, etico e cavaliere della fede. Per rendere merito all’irriducibile scarto tra la figura dell’eroe tragico e dell’eroe della fede pone a confronto le figure di Agamennone e di Abramo, mostrando quanto il primo possa almeno contare sulla comprensione e sulla stima della propria comunità mentre il secondo debba vivere il suo dramma apparentemente atroce e privo di senso nella sua totale solitudine e rischiando di perdere la sua stessa fede spingendola fino alle estreme conseguenze. In entrambe le situazioni si richiede il sacrificio di un figlio, e per questo ad esse si può paragonare anche la stessa scelta di Dio di mettere in croce Gesù Cristo (infatti secondo il sottile intreccio di rimandi, figure e simboli che è la Bibbia, Abramo chiamato a immolare il proprio figlio anticipa quello che sarà l’assassinio dell’Agnello di Dio).
Agamennone non è a tutti gli effetti un eroe tragico, perché la divinità non gli richiede un sacrificio come testimonianza della propria fede e come “salto nel vuoto”, bensì per domandargli quale sia per lui il valore più rappresentativo: la vita di una figlia o il proprio prestigio di signore della guerra? Agamennone nasconde il proprio egoismo con il pretesto di essere talmente un corretto e pio sovrano da assecondare i desideri della dea e da rinunciare a ciò che gli è più caro (e che in realtà non è per lui il bene più importante) negli interessi della polis. Per questo non può essere un eroe tragico, perché non ha saputo riconoscere quale fosse il valore che davvero valeva la pena di difendere investendo tutto se stesso, ciò che non lo avrebbe snaturato ma che gli avrebbe garantito la propria definizione più intima, quella del legame con la propria carne (ecco perché, ad accoglierlo vincitore, il drappo di porpora della moglie Clitemnestra non sarà riconoscimento di vittoria ma prefigurazione di morte –cosa che solo Cassandra potrà capire). Non bisogna però pensare che questo tipo di risposta sia legato alla concezione greca, perché in altre tragedie lo stesso conflitto viene invece affrontato: ogni eroe tragico è anche un cavaliere della fede che quel salto nel vuoto lo compie con tutta la sua carica di rischio più alto che ci sia. Basti pensare a Edipo, a Eteocle, ma per rimanere nel dramma degli Atridi, allo stesso Oreste che compie la vendetta affidandosi alla promessa oracolare di Apollo, in una fede sincera e soffrendo (non compie il delitto senza troppo pensarci e per ottenere dei beni per sé, ma nel dolore di un conflitto insanabile –tanto è che le Erinni potrebbero anche essere lette come personificazioni dei terribili demoni della coscienza).
Ad Abramo viene richiesto lo stesso gesto, ma stavolta senza alcuna conseguenza: deve fare così perché Dio ha richiesto così. Egli può essere solo o l’uomo più vicino a Dio o un terribile assassino. Anche ad Abramo viene chiesto quale sia per lui il valore più importante: la vita di suo figlio o la devozione a quello stesso Dio che dopo lungo pregare gli aveva finalmente concesso un erede? Il Dio Ebraico, nelle sue tavole di comandamento, richiede la più assoluta dedizione a sé, in quanto è un “Dio geloso”: tutto ciò che viene posto sopra Dio si trasfigura in un idolo blasfemo che costituisce il più grave peccato di tradimento. Abramo con taciturno ma straziante grido di dolore risponde di sì alla fede nei confronti di Dio, e accetta di perdere ogni cosa per incontrarlo. Proprio per questo Agamennone perde Ifigenia (e se stesso), mentre Abramo ritrova suo figlio (e se stesso), nonostante la risposta che dovevano dare ad una simile domanda fosse l’opposta.
Infine, Dio stesso si pone questa domanda, e ancora più tragicamente: non vi è nessuno che lo interroga ma è egli stesso che è fonte di interrogazione e colui che deve rispondere. Qual è il valore più importante, la gloria terrena del mondo per suo figlio, il Re del suo popolo eletto, o l’amore per l’umanità tutta che solo avrebbe potuto sconfiggere la morte attraverso il crimine più tracotante che potesse compiere, ossia deridendo e massacrando il Figlio di Dio? Questo conduce a pensare che l’interpretazione del tragico come domanda riesce ad accomunare un tragico greco, un tragico cristiano e anche un tragico in Dio stesso.
Resta da analizzare se la vicenda di Gesù Cristo possa coerentemente essere letta secondo la lente del tragico o se in realtà è l’esatta negazione dei presupposti dello sviluppo del tragico per il suo essere risolta ancora prima dell’inizio dei tempi. Neppure la tragedia greca si sviluppa senza presupporre un portato di redenzione nella domanda tragica, per quanto non sia scontato e spesso non si è a conoscenza di quale potrà essere il senso della propria lotta.
È possibile individuare un duplice elemento tragico nel cristianesimo (qui si parlerà della sua versione cattolica, tralasciando la diversa concezione di tragico presente nel luteranesimo e in altre confessioni): un tragico nell’uomo, che si deve conquistare la vita eterna attraverso le proprie opere, la propria volontà sincera e la propria anima, ed un tragico in Dio, che sceglie liberamente di non escludere da sé il proprio opposto. Nessun ovvio finale: l’uomo e Dio devono combattere nella storia, anche se la loro battaglia assume un valore metafisico e garantisce la possibile vittoria dell’uomo sul principio del male. Dio ha già vinto Satana perché ha saputo porsi da sé la tentazione di sfuggire alla rinuncia di sé per inverarsi: ha già sacrificato la propria carne senza ricorrere ai propri poteri. Gesù è sia il Figlio di Dio che il Figlio dell’Uomo, per cui in sé vive entrambe le tragedie.
I Vangeli offrono uno sguardo su Gesù molto diverso, ritraendone ogni volta sfumature differenti e che conducono ad interpretazioni anche distanti delle “percentuali” di umanità, ma è possibile parlare di un personaggio unico chiamato Gesù. Egli fin dall’inizio sa quale è il suo destino di gloria, ma non per questo il momento dell’abisso della morte è meno oscuro, e le prove meno dolorose da affrontare. Il tradimento, la derisione, il rifiuto, la tentazione: Gesù non passa attraverso questi cerchi di fuoco come cammina sulle acque, ma con la sua forma umana, con il coraggio di dire sì alla domanda rivolta solo a lui, che anzi, solo a lui poteva essere risolta in quanto terribile e decisiva. Ora è ogni singolo uomo che, nella sua esistenza singola, è chiamato a rispondere alla domanda che rivela la propria identità. Ma Gesù non è un angelo ieratico del Padre, la cui cittadinanza celeste non gli fa sentire la forza di gravità del mondo; si sente solo quando viene abbandonato dai suoi discepoli, si sente perduto quando la voce del Padre tace. L’umanità di Gesù emerge conflittualmente rispetto alla sua discendenza divina, non mina le sue certezze ma gli fa comprendere nel proprio intimo cosa significa essere vulnerabile alla paura, primo istinto dell’uomo.
Dio paga dunque a caro prezzo la libertà che tragicamente concede e afferma alle sue creature, pur sapendo che è un dono terribile per entrambi; infatti, è costretto ad ammettere e a mantenere nella propria opera (e quindi in parte in sé), il proprio opposto che avrebbe potuto eliminare anche come sola possibilità. Per questo Dio trattiene e contrae la propria onnipotenza (come Gesù nel deserto non risponde con i miracoli alle tentazioni di Satana) e lascia spazio all’opera umana, lascia che la sofferenza imperi e che l’ingiustizia non sia punita in questo mondo. Dio sembra assente, ma in realtà è uno spettatore che accetta di non prendere parola per non intervenire e rispondere alla domanda che è rivolta solo all’uomo, proprio come deve restare in silenzio di fronte all’ultima invocazione del figlio sulla croce. Il cristianesimo non può quindi essere letto come una forma di religione che concilia e rassicura, ma è proprio l’estremo configurarsi del tragico nella libertà di essere artefici di se stessi. Bisogna essere anche qui disposti a perdere tutto per ritrovarsi, e a rischiare con il proprio cuore e la propria coscienza sfidando le leggi dell’impero e di un sinedrio secolarizzato (paradigmatico è il Sabato), e così come Antigone essere saldamente disposti al sacrificio per quelle leggi non scritte che però sono ciò che di più sacro si possa onorare. Gesù non può condividere la propria sorte con nessuno, è un fardello che il resto del mondo non capisce, anzi, fraintende: il regno che egli promette non è quello che tutti aspettano, il pane che egli distribuisce non è la manna nel deserto, la rivelazione che egli porta con sé non è una soluzione al dolore ma il senso del dolore, nella fede, nell’amore, ancora, nella libertà.
Giovanni e Matteo: due registi per lo stesso soggetto
I quattro Vangeli offrono ovviamente quattro punti di vista diversi sulla stessa vicenda; ad esempio si citeranno le due opere di Matteo e di Giovanni, che presentano un Cristo profondamente diverso.
In Giovanni i miracoli di Gesù sono molto meno numerosi e più emblematici; inoltre, non sono seguiti da parabole, ma da spiegazioni che si avvicinano molto alle esegesi dottrinali. Il Gesù di Matteo è indubbiamente molto più umano di quello di Giovanni: si adira più facilmente, a tratti usa ancora il linguaggio “minaccioso” dell’Antico Testamento (“non sono venuto a portare la pace, ma la spada…(…) e saranno grida e stridori nell’inferno”), manifesta il suo senso di abbandono quando i discepoli lo lasciano solo nella veglia nel Getsemani e la delusione per il tradimento di Giuda. Il Gesù di Giovanni invece si consegna egli stesso alle guardie di Anna e Caifa (senza il fatidico bacio di morte di Giuda) e accetta ogni cosa con maggiore distacco, non parla di regno di Dio, ma anzi, lui è ciò che si contrappone al mondo. Inoltre, mentre Matteo presenta Gesù nella sua discendenza regale umana (la stirpe di Davide), Giovanni sembra iniziare la sua opera in media re (Gesù è già adulto e niente si sa della sua nascita), preceduta però da un prologo che svela solo la sua discendenza divina (“In principio era il Verbo, e il Verbo si fece carne”).
Ma il punto focale in cui maggiormente si distanziano i due vangeli, e che forse è motivo per credere che vi sia un maggiore carico di tragicità in Matteo che in Giovanni sono le ultime parole che Cristo rivolge su questa terra. Matteo: “Padre mio, padre mio, perché mi hai abbandonato?”; Giovanni “è compiuto”. La disperazione e la paura tutte umane del Gesù Figlio soprattutto dell’uomo di Matteo che avverte il peso, proprio come l’uomo, del silenzio di Dio nel momento cruciale, nell’istante del salto nel vuoto stride assai con la stoica e oltreumana figura di Giovanni che semplicemente constata di aver portato a termine la propria missione, senza dubbi e quasi con sprezzatura, come se non fosse costato alcuno sforzo. Giovanni insiste molto sulla resurrezione di Gesù, che è il fulcro dottrinale dello scandalo di Cristo: la fede consiste proprio nel credere che Egli è davvero il Figlio di Dio mandato dal Padre. Diverso sembrerebbe lo scandalo di Matteo, uno scandalo non di teoria ma di morte: come può il Figlio di Dio morire in croce senza che il padre intervenga per salvarlo? E proprio questo dolore fa sentire Cristo vicino ad ogni tragedia umana, ad ogni storia già scritta e ad ogni vita ancora da essere. Al silenzio di Dio segue il silenzio di Cristo e il rombo sulla terra: l’umanità prova anch’essa la vertigine di essere stata sconfitta, di essere ormai orfana di Dio e senza più alcuna speranza di redenzione.
Il tragico in Cristo risiede nella sua Passione, che è costretto ad affrontare e a cui poteva rispondere in modo diverso, lasciandosi corrompere dalla paura e dalla possibilità di sfuggire alla terribile domanda del Padre. La resurrezione non è l’inevitabile corollario dell’oltreumanità di Cristo, ma il segno riconoscibile della sua vittoria, combattuta, sofferta, conquistata.
Lettura drammaturgica del Vangelo di Giovanni
Al di là dei contenuti, anche a livello formale è di certo innegabile una struttura drammaturgica dei quattro Vangeli; si prenderà come esempio l’opera di Giovanni. In essa sono presenti tutti gli elementi che caratterizzano un dramma: una situazione in crisi che invoca l’aiuto di un eroe, le prove dell’eroe fino allo Spannung decisivo e la “redenzione”, la vera risposta all’accoglimento della domanda. A livello formale sembrerebbe richiamare gli snodi narrativi del romance, ma la materia e il contenuto rimangono fortemente legati all’interpretazione del tragico inteso come “La” forma di interrogazione.
Possiamo così suddividere il vangelo di Giovanni in tredici atti:
Prologo: La parola incarnata
Gli aiutanti del protagonista: La testimonianza di Giovanni Battista
I discepoli
Prime opere dell’eroe: Il primo miracolo: Cana di Galilea
La cacciata dei venditori dal tempio
Testimonianze sull’eroe: Dialogo con Nicodemo
Cristo come sposo e Battista come amico dello sposo
Altre opere dell’eroe (seguite dalla loro esegesi): La donna samaritana
Il secondo miracolo a Cana
La guarigione a Betesda
Il Figlio di Dio
La testimonianza del Padre
La moltiplicazione dei pani e dei pesci
L’epifania sulle acque
La manna e il pane di Gesù
Primi segni di contrapposizione: Lo scandalo dei discepoli e la rivelazione di Gesù
Alla festa delle Capanne
Autorivelazione di Gesù come Messia
Dissenso tra la folla
Chi è Gesù?
La discendenza di Abramo
Il cieco nato
Il potere dell’eroe: Il buon pastore
Nel nome del Padre
La risurrezione di Lazzaro
Il pericolo dell’eroe: La congiura del sinedrio
Segni positivi per l’eroe: L’unzione di Betania
L’ingresso trionfale in Gerusalemme
La voce dal cielo
Preparazione alla prova finale: L’incredulità
L’ultima cena
Commiato di Gesù: il nuovo comandamento
La vite e i tralci
L’odio del mondo e la promessa dello Spirito Santo
Dipartita e ritorno
Preghiera di commiato
Prova finale: L’arresto
L’interrogatorio
La condanna
Scandalo del tragico: La crocifissione
Deposizione e sepoltura
Resurrezione e “ritorno con l’elisir”: Gesù risorto appare a Maria di Magdala
Apparizioni di Gesù ai discepoli
Apparizione del risorto in Galilea
Conclusioni
Il tragico come interrogazione cruciale della e sulla propria esistenza permette di accomunare forme culturali molto diverse come quella greca e quella cristiana. Il tragico non come modalità espressiva privilegiata di un popolo ma come categoria esistenziale, che, sottile fil rouge, attraversa la storia. Non si può sintetizzare il tragico con una serie di caratteristiche legate a vicenda, personaggi e rapporto con il divino: ogni epoca si trova a dover rispondere ad una domanda, riflesso di quel percorso formativo e fondamentale che deve attraversare ogni singolo individuo nella sua irriducibile peculiarità. Cambiano i ruoli; dall’eroe che deve fare i conti con il proprio destino e il proprio dovere profondo e vissuto nei confronti della collettività al martire che non combatte in questo mondo ma totalmente proiettato nella trascendenza dell’al di là, fino ad arrivare all’uomo senza qualità del ‘900 che ha smarrito la voce del senso. Cambia anche il rapporto con il divino, in un altalenarsi di distanze e vicinanze, riverenze e ribellioni: Dio come oscura minaccia, come giudice, come Servo sofferente, come assente latitante che ha abbandonato il suolo del mondo. Rimane però sempre aperta la domanda, la richiesta di “risolversi”, di riuscire infine a rendere la propria vita una testimonianza. Le grandi e le piccole tragedie, che si consumano tra i confini degli stati o nelle più ristrette mura domestiche: i protagonisti sono chiamati comunque a rispondere, di fronte al mondo o semplicemente per lasciare un “piccolo testamento” di sé. Non si può quindi relegare la tragedia ad un genere letterario avente determinati stilemi tra cui la nobiltà di coloro che agiscono nella rappresentazione (come voleva Aristotele). La tragedia va ben oltre l’esibizione sul palcoscenico o la rispondenza ad un filone teatrale. Il tragico è una prova di iniziazione che tutti devono affrontare se vogliono conquistare la propria identità; la domanda può presentarsi mediante l’Altro ma per scuotere l’Io. È opportuno registrare le molteplici divergenze tra il mondo classico e quello cristiano, ma anche saper cogliere che proprio nella prova “terribile” del tragico essi si incontrano.