KAZIMIERZ TWARDOWSKI
A cura di Fabrizio Cerroni
LA VITA
Kazimierz Twardowski nasce a Vienna il 20 ottobre del 1866.
Frequenta l’Università di Vienna nella quale studia, oltre alla filosofia, filologia classica, matematica e fisica. È allievo dal 1885 al 1889 di Franz Brentano e successivamente, fino al 1892, di Robert Zimmermann.
Brentano influenza notevolmente il pensiero di Twardowski il quale accetta alcuni dei postulati fondamentali del filosofo tedesco, come la separazione tra rappresentazione e giudizio, quella tra l’aspetto genetico e l’aspetto descrittivo della psicologia, nonché la teoria del carattere fondante dei giudizi riguardanti l’esperienza interna.
Questa influenza si evidenzia nella tesi con la quale Twardowski ottiene il dottorato nel 1892 (con Zimmermann relatore): Idee und Perception. Eine erkenntnis-theoretische Untersuchung aus Descartes (“Idea e percezione. Una ricerca teorico conoscitiva su Descartes”); nonché nella sua tesi di abilitazione del 1894: Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen (“Sulla dottrina del contenuto e dell'oggetto delle rappresentazioni”).
Nelle opere successive, in particolare dal 1898 con il saggio Raffigurazione e concetto, Twardowski si allontanerà gradualmente dallo psicologismo di Brentano, avvicinandosi a Husserl e Meinong.
Dal 1894 insegna filosofia, prima a Vienna, successivamente a Leopoli (all’epoca ancora in territorio austriaco), dove terrà una delle due cattedre di filosofia dal 1895 fino al 1930.
A Leopoli Twardowski è il fondatore della prima e più importante scuola di filosofia polacca: la Scuola di Leopoli-Varsavia. Ciò dà alla filosofia polacca un impulso fondamentale, al quale Twardowski contribuisce in maniera basilare, sia sotto il profilo istituzionale (riforma delle istituzioni culturali esistenti, creazione della Società Filosofica Polacca, e della Società polacca di psicologia sperimentale), sia attraverso la sua attività di insegnamento.
Alla scuola di Twardowski si formano i più importanti filosofi polacchi nel campo della logica, della matematica e della semantica filosofica: Jan Lukasievicz, Stanislaw Leśniewski, Alfred Tarski, Tadeusz Kotarbiński, Kazimierz Ajdukiewicz, Roman Ingarden.
La scuola di Leopoli-Varsavia si caratterizza per un forte pluralismo, quindi per l’assenza di princípi dogmatici la cui accettazione è imposta a tutti i membri. Ciò porta ad un’eterogeneità dei contenuti, attenuata però dall’unitarietà del metodo e dello stile. Questi sono incentrati su un realismo scolastico-aristotelico, su di una concezione corrispondentistica della verità, e su un interesse sempre crescente per la linguistica.
Twardowski influenza notevolmente questo stile per la sua critica dell’irrazionalismo e la valorizzazione del discorso logico-razionalista, la quale porta alla ricerca di un’argomentazione chiara e lineare che renda immediatamente comprensibili le tesi sostenuti.
I numerosi saggi scritti da Twardowski in questi anni sono raggruppati in due raccolte: Scritti filosofici (1927); e Saggi (1938).
Twardowski muore il 2 febbraio 1938 a Leopoli.
L’importanza di Twardowski per la storia della filosofia è legata non solo alla sua attività didattica capace di formare logici del calibro di Alfred Tarsi, ma anche per la sua ricerca filosofica.
Infatti il suo pensiero può essere considerato come un “anello di congiunzione” tra lo psicologismo di Brentano da una parte, e la fenomenologia di Husserl dall’altra.
Allievo del primo, Twardowski ne prenderà progressivamente le distanze, arrivando ad anticipare alcuni temi della filosofia di Husserl, come ad esempio un’analisi della psicologia basata sul concetto di intenzionalità.
Nel suo primo testo filosofico, la tesi di dottorato del 1892, Twardowski studia il ruolo della percezione e della rappresentazione nel giudizio, al fine di individuare i criteri che permettano di considerare quest’ultimo vero. Twardowski polemizza con coloro i quali riducono la percezione alla rappresentazione, ma, afferma, essa non può neanche essere fatta coincidere con il giudizio nella sua interezza.
Il ruolo della percezione e della rappresentazione viene chiarito da Twardowski sulla base di una distinzione tra forma e materia: la rappresentazione è l’elemento materiale del giudizio, mentre la percezione ne costituisce l’aspetto formale.
In base a questo suo ruolo, la percezione è ciò che consente di motivare la decisione sull’esistenza o meno dell’oggetto, ossia il giudizio.
La percezione costituisce dunque la base della verità del giudizio.
Il criterio che permette di stabilire la verità di un giudizio è così ricondotto alla percezione chiara e distinta, identificata con la percezione intellettuale, interna ed evidente. Twardowski condivide, quindi, l’assunto di Cartesio in base al quale questa percezione è necessariamente vera.
Twardowski considera inoltre la valenza che i criteri di chiarezza e distinzione hanno per la percezione e per la rappresentazione.
Da questo punto di vista i due criteri si differenziano, giacché mentre la distinzione assume lo stesso significato per entrambi gli elementi del giudizio, lo stesso non vale per la chiarezza. Per l’idea la chiarezza costituisce il suo elemento caratteristico; mentre per la percezione, un ruolo fondamentale è svolto dall’attenzione, che le consente di cogliere l’oggetto «in modo completo ed in tutte le sue parti» (Contenuto e oggetto). Quindi, mentre nella rappresentazione il criterio della chiarezza è sempre soddisfatto, per la percezione è necessario l’intervento dell’attenzione.
Nel testo del 1898, Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen, Twardowski introduce la distinzione tra atto, oggetto e contenuto nella rappresentazione, considerato il più importante apporto teorico del filosofo.
Ogni rappresentazione è un atto intenzionale rivolto ad un oggetto. Tuttavia essa non è in grado di attingerlo direttamente, ma necessita di una mediazione. È questo il ruolo svolto dal contenuto.
L’oggetto trascendente rimane irraggiungibile per il soggetto conoscente, il quale può averne informazioni solo attraverso il contenuto.
Per questo è necessario distinguere il contenuto dall’oggetto. Il rapporto della rappresentazione con l’oggetto è quindi modificativo, in quanto essa gli attribuisce proprietà che non gli appartengono. Modificazione necessaria, giacché la rappresentazione non può avere una conoscenza immediata dell’oggetto. Al contrario, il rapporto della rappresentazione con il contenuto è attributivo. Dunque, mentre il contenuto è una costruzione mentale che dipende dall’atto rappresentativo, l’oggetto è esogeno rispetto a tale atto.
Twardowski chiarisce questa differenza servendosi di «un’analogia tra i fenomeni psichici e le forme linguistiche che li designano» (ibid.). In particolare, Twardowski utilizza come strumento di questo paragone il nome.
«Ai tre aspetti della rappresentazione – l’atto, il contenuto e l’oggetto – corrisponde un triplice compito che ogni nome deve soddisfare» (ibid.).
Infatti ogni nome svolge tre funzioni:
«primo, il render noto un atto di rappresentazione che ha luogo in colui che parla; secondo, il destare un contenuto psichico, il significato di un nome, in colui al quale ci si rivolge; terzo il designare un oggetto che è rappresentato mediante la rappresentazione significata dal nome» (ibid.).
Un nome, quindi, designa un oggetto per mezzo di un contenuto psichico da esso significato. Allo stesso modo l’atto di rappresentazione designa l’oggetto per mezzo del contenuto.
Un’altra analogia usata da Twardowski per chiarire questa distinzione è quella del dipingere. Poiché è possibile affermare sia che si dipinge un quadro, intendendo con ciò il risultato dell’atto, sia che si dipinge un paesaggio, intendendo l’oggetto che si intende raffigurare. Il quadro coincide con il contenuto, il paesaggio con l’oggetto.
Questa concezione permette di considerare il problema delle rappresentazioni il cui oggetto non esiste nella realtà. Un esempio è fornito dalla rappresentazione dell’assenza.
Twardowski critica la tesi secondo la quale queste sarebbero rappresentazioni senza oggetto. Giacché dove c’è rappresentazione c’è anche l’oggetto, è impossibile che un’idea sia priva di questo suo elemento fondamentale. L’errore di queste concezioni sorge da una confusione tra l’oggetto ed il contenuto. Benché nella realtà un determinato oggetto possa non esistere, nella rappresentazione esso è sempre presente come oggetto rappresentato, ossia come contenuto.
«L’oggetto rappresentato […] è il contenuto della rappresentazione. […] Il contenuto della rappresentazione e l’oggetto della rappresentazione sono la stessa cosa. […] La confusione dovuta ai sostenitori della rappresentazione senza oggetto consiste nel fatto che essi ritengono che la non esistenza di un oggetto sia identica al suo non essere rappresentato» (ibid.).
Occorre dunque distinguere tra realtà ed esistenza dell’oggetto della rappresentazione. Mentre può anche non esistere, l’oggetto è necessariamente presente nella rappresentazione, come suo contenuto.
La tripartizione della rappresentazione vale anche per il giudizio, giacché questi due atti psichici hanno la stessa struttura.
«Appare evidente l’assunto che i giudizi in rapporto alla distinzione tra contenuto e oggetto si mostreranno del tutto simili alla rappresentazione» (ibid.).
Al di là di questa comunanza strutturale, ciò che distingue la rappresentazione dal giudizio è il tipo di riferimento intenzionale all’oggetto.
«È infatti evidente a tutti che si tratta di un rapporto diverso se qualcuno si rappresenta semplicemente qualcosa, o se invece lo afferma o lo nega» (ibid.).
Compito del giudizio è appunto stabilire se un oggetto rappresentato esista o meno. Questa differenza di riferimento si riflette in una diversità di contenuto. Nella rappresentazione il contenuto è un segno dell’oggetto; nel giudizio, invece, il contenuto è costituito dall’esistenza dell’oggetto. L’esistenza dell’oggetto del giudizio non è preesistente all’atto, ma viene posta con lo stesso.
«Con il contenuto del giudizio si deve intendere, quindi, l’esistenza di un oggetto della quale si tratta in ogni giudizio» (ibid.).
Benché assuma forme diverse, anche nell’atto del giudizio esiste una differenza tra oggetto e contenuto. Essa è dimostrata dai giudizi negativi.
La verità di questo tipo di giudizi, infatti, richiede che l’oggetto giudicato non esista. Tuttavia ciò non toglie che l’oggetto debba esistere nella rappresentazione attraverso un contenuto. L’oggetto inesistente può essere giudicato solo attraverso un contenuto che esiste: ciò dimostra che anche nel giudizio esiste un’alterità tra oggetto e contenuto.
Il giudizio è dunque un atto di conformità ad un contenuto. Il giudizio negativo mostra che l’oggetto può essere rappresentato anche se non esiste. In questo caso l’oggetto si identifica con l’insieme delle proprietà che gli vengono attribuite, e che per il loro carattere contraddittorio ne determinano la non esistenza.
Ciò consente a Twardowski di affermare che l’oggetto della rappresentazione non coincide con l’esistente. La sua caratteristica fondamentale è l’oggettualità, ossia la possibilità di essere rappresentato. L’oggetto coincide con il rappresentabile.
In Raffigurazione e concetto del 1898 Twardowski ribadisce la differenza tra contenuto ed oggetto sia per la prima che per il secondo. Giacché, per la raffigurazione l’oggetto è rappresentato attraverso un unico atto e non attraverso la composizione di più impressioni; quanto al concetto, esso è l’attribuzione ad un oggetto di una proprietà a seguito di un giudizio, pertanto tale proprietà non è presente nell’oggetto stesso, ma è il risultato di un’attività psichica.
Twardowski, dunque, considera la rappresentazione come un Tutto che solo a posteriori può essere scomposto in parti. Il concetto sorge dove non è più possibile la raffigurazione, per questo non è rappresentabile in immagini visive.
Questa teoria porta Twardowski a sottolineare la creatività del pensiero nell’elaborazione dei concetti. Tale visione positiva della funzione della creatività nella scienza lo porterà ad accogliere favorevolmente la filosofia del “come se” di Vaihinger.
Da questo scritto inizierà l’allontanamento di Twardowski dallo psicologismo, che diventerà definitivo dopo la conoscenza della fenomenologia di Husserl, della quale lo stesso Twardowski aveva anticipato alcuni temi. Ciò lo porta ad una visione della psicologia che la riduce a scienza ausiliaria rispetto alle altre.
Questo viraggio conduce ad una modifica negli interessi di Twardowski e della sua scuola. Acquistano un’importanza sempre maggiore la logica, la matematica, la teoria della conoscenza e la filosofia del linguaggio. L’importanza crescente attribuita a quest’ultima, lo conduce ad uno stile sempre più improntato al formalismo, e ad una concezione che vede nella comprensibilità e nella chiarezza degli enunciati una condizione necessaria della scientificità del testo.
Questa esigenza esprime la ricerca di una filosofia scientifica contrapposta alla metafisica. Opposizione non definitiva, giacché anche nel pensiero metafisico possono essere espresse delle verità, ed anch’esso può assurgere alla scientificità.
La sua concezione del linguaggio e del giudizio lo porterà ad una valutazione negativa della possibilità di distinguere tra giudizi relativamente e assolutamente veri. La vera distinzione è, secondo Twardowski, quella tra il giudizio e l’enunciato che lo esprime. La possibilità di una verità determinata dalle circostanze è corretta solo per l’enunciato, poiché la parola è un polisenso predestinato, ed il significato di una frase viene così a dipendere dal contesto. Ma il giudizio, in quanto atto psichico distinto dall’enunciato che lo trasmette, è o assolutamente vero, o assolutamente falso.
In conclusione, l’importanza di Twardowski come didatta è legata non alla trasmissione di un pensiero dogmatico, ma all’affermazione di un’attitudine minimalista. L’esigenza di uno stile logico-formale, la difesa del realismo, l’analisi del linguaggio, la critica della metafisica; tutti questi aspetti della filosofia di Twardowski, attraverso i quali si esprime una concezione della filosofia come scienza, saranno fatti propri dai suoi allievi.
L’importanza di Twardowski come filosofo è legata alla distinzione tra atto, contenuto ed oggetto, ad una visione del concetto che ne riconosce il carattere di costruzione rispetto ad una realtà che non si può mai cogliere direttamente, ed al riconoscimento del ruolo della creatività nel pensiero.