Juan de Valdés

 

A cura di Diego Fusaro

 

 

"Non sono stranieri nel divino palazzo ancora quelli che stanno guardandolo da fuori".


 

ValdésJuan de Valdés (1500-1541), fratello di Alfonso che fu segretario di Carlo V e che vide il “sacco di Roma” del ’27 come punizione divina, nacque da una famiglia di modeste condizioni di ebrei convertiti (il fratello della masdre fu arso sul rogo), studiò all’Università di Alcalà de Henares, che era aperta alla cultura umanistica; lesse con grande passione i testi di Erasmo da Rotterdam, che elogiò nel suo scritto Dialogo de doctrina cristiana (1529). In virtù di quello scritto, l’Inquisizione avviò un processo ai suoi danni, inducendolo ad intraprendere la via dell’esilio, che lo portò dapprima a Roma (presso la corte di Clemente VII) e poi, negli anni Trenta, a Napoli, dove visse in isolamento fino alla morte. Con la sua riflessione teologico-filosofica, Valdés contribuì a dare energia concettuale a quel movimento passato alla storia sotto il nome di alumbradismo spagnolo, soprattutto grazie alle innumerevoli opere che egli compose in quegli anni (Alfabeto christiano, Cento e dieci divine considerationi, commenti ai Salmi, ai vangeli e alle lettere di Paolo, le cosiddette Dimande et risposte). A rendere autonoma la dottrina di Valdés tanto da quelle cattoliche quanto da quelle riformate era innanzitutto l’irrinunciabile presupposto secondo cui l’accesso ai “grandisimos secretos de Dios” non proveniva dai testi scritturali, ma da una particolarissima illuminazione dello spirito (da cui il nome del movimento: alumbrados, ossia illuminati), senza la quale i testi non sono altro che una “fioca candela” del tutto incapace di orientare il penoso cammino del cristiano. Detto altrimenti, il contatto coi testi sacri non è culturale, ma avviene piuttosto per illuminamento divino (alumbramento): non è un caso che, contro questa concezione, tuonerà da Ginevra Calvino, scorgendo in essa una potente quanto inaccettabile negazione del sola scriptura. Per chiarire il rapporto coi testi sacri, Valdés ricorre ad una metafora (e il linguaggio immaginifico è un tratto portante del suo stile): cercare di capire i misteri divini limitandosi alla lettura razionale dei testi sacri è come avventurarsi in una foresta nel cuore della notte, muniti soltanto di una candela. La vera luce, che consente di muoversi agevolmente nella foresta, è quella rivelata nel cuore da Dio. Da questo presupposto scaturisce la conseguenza per cui il cristianesimo dev’essere inteso non già come “scienza”, bensì come “esperienza”, ossia come percorso di acquisizione della Verità “attraverso una rivelazione divina che le imprime il sigillo di un’indelebile certezza interiore e l’arricchisce di coinvolgenti valenze emotive” (Massimo Firpo). A sua volta, da questa spiccata insistenza sull’esperienza soggettiva, scaturisce un’altra importantissima conseguenza: non ha alcun senso rimanere vincolati ad una presunta ortodossia religiosa, ad un’autorità normativa imprescindibile, proprio perché diversi sono i livelli di conoscenza ed esperienza concessi a ciascun credente dagli imperscrurabili disegni di Dio. Secondo Valdés, infatti, la Chiesa, nella misura in cui è un’istituzione visibile e gerarchicamente ordinata, può solamente giudicare “lo exterior” e pertanto pretendere un’obbedienza meramente formale in relazione a prassi e a riti cerimoniali, senza però arrogarsi il diritto di giudicare le coscienze e di imporre ad esse rigidi dogmi. Proprio perché l’illuminazione interiore degli uomini si dispiega secondo modalità e per gradi diversi, è impossibile pretendere di raccogliere tutti sotto un’unica dottrina: per spiegare questo punto cardinale della sua riflessione, Valdés ricorre ad un’immagine alquanto efficace, mutuata direttamente dal filosofo Mosè Maimonide. Immaginiamo un palazzo rispetto al quale alcuni uomini si trovano nei giardini, altri all’ingresso, altri ancora all’interno; similmente, rispetto alla casa del Signore, alcuni si trovano già all’interno, avendo ricevuto una potente illuminazione divina; altri sono ancora fuori, e altri ancora si aggirano in prossimità dell’ingresso. Ciò non significa, tuttavia, che chi non è ancora entrato nel palazzo debba essere trattato come un eretico: al contrario, scrive Valdés, “non sono stranieri nel divino palazzo ancora quelli che stanno guardandolo da fuori”, alla luce del fatto che tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza, a patto che si abbandonino con fiducia alla misericordia di Dio veicolata dal sacrificio della Croce. E proprio in forza di questi diversi gradi di verità in cui ciascuno si trova a seconda dell’illuminazione del suo spirito, Valdés compone i suoi scritti rinunciando ad ogni sistematicità rigorosa, ad ogni spunto polemico, ad ogni inflessione dottrinaria, proprio perché il suo non è un sistema, e dunque non ha nemici dottrinali da combattere: quel che egli intende tracciare, secondo il titolo di una sua opera, è l’alfabeto cristiano, col quale maturare via via sempre nuove esperienze di fede e nuove illuminazioni. Quali sono allora i criteri oggettivi di verità, se a ciascuno lo spirito dà illuminazioni diverse? Non c’è forse il rischio di una deriva soggettivistica e relativistica? Valdés risponde significativamente che, non essendoci alcuna autorità che possa legittimamente giudicare e governare le coscienze, i cristiani avranno opinioni diverse e tutte ugualmente valide e accettabili, senza che si possa imporre a tutti una sola verità. Nella misura in cui “il cristianesimo non è una dottrina, ma una forma di dottrina”, ogni dogmatismo è messo al bando: e, con ciò, è anche esclusa la possibilità di fondare un'altra Chiesa, che sia alternativa a quelle esistenti e, al pari di esse, incardinata su dogmi imprescindibili. Con un'immagine splendida oltreché straordinariamente efficace, Valdés diceva che, come le erbe di un campo sono diverse fra loro e, ciò non di meno, fanno parte dello stesso campo, allo stesso modo i credenti sono tutti nel medesimo regno (il Paradiso) anche se nutrono opinioni e fedi diverse. Proprio sulla scia di queste convinzioni, Valdés poteva sostenere che l'Inferno non esiste. In questo senso, coi suoi scritti, il filosofo spagnolo invita alla prassi del “nicodemismo”, ossia della simulazione programmatica, assunto come tecnica pedagogica e incentrata sulla convinzione che non si debbano scandalizzare gli uomini che sono ancora deboli nella fede (ossia quelli che non sono ancora entrati nel palazzo). Ricorrendo ancora una volta ad un’immagine, Valdés sostiene che ogni cristiano è come un cieco che sta gradualmente riacquistando la vista e che, in forza di ciò, non può pensare che le prime ombre che vede siano la verità: bisogna allora avanzare un po’ alla volta, partendo dalla “giustificazione per fede”, e procedendo agli altri punti dottrinali. Verso il basso, il nicodemismo è allora volto a non fornire in una sola volta tutte le verità agli ancora “deboli nella fede”, optando per una graduale illuminazione; verso l’alto, invece, il nicodemismo diventa un legittimo schermo di simulazione e dissimulazione contro l’intolleranza delle Chiese dominanti e intolleranti, a protezione della “paz de la consciencia” e dell’assoluta libertà interiore che la fonda. Non è un caso che, fedele alla prassi di nicodemismo, Valdés, nelle sue lezioni, accompagnasse i suoi discepoli un po' alla volta, leggendo con loro, gradatamente, Calvino e Lutero. Proprio il pensiero di Valdés, di questo “impareggiabile maestro di coscienze” (Massimo Firpo), con l’incredibile diffusione che ebbe, impedisce di leggere la Riforma italiana del Cinquecento come mera propaggine di quella luterana: contro Valdés si scatenerà la macchina sanguinaria dell’Inquisizione, che in lui scorgeva un “grande heretico de varie heresie e inventore di nove openioni erronee” che avevano “infectato […] tutta Italia”. Una curiosità piuttosto interessante è che, se nel resto dell’Europa l’Età della Ragione porterà nomi indissolubilmente legati all’idea di un’illuminazione (Illuminismo in Italia, Aufklärung in Germania, Enlightenment in Inghilterra, ecc), in Spagna si parlerà invece genericamente di Ilustración, proprio perché l’idea dell’illuminazione sarà sempre connessa al movimento degli alumbrados. Un'altra curiosità è che, nel 1545-1546, Cosimo de' Medici farà affrescare da Jacopo Pontormo la basilica di San Lorenzo a Firenze col Catechismo di Valdés; ma l'opera di Pontormo sarà distrutta nel 1638, un po' per il logorio delle pareti, un po' per i mutati gusti e per la mutata sensibilità: l'opera sarà rifatta dal Bronzino, in sintonia coi canoni della Controriforma.                                  

 


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