Cosa vuol dire pensare?
Di Luca Valzesi
Cosa vuol dire pensare? Sono poche le domande che riescono a sembrare nello stesso momento più scontate e più complicate. Il ricordo più antico che conserva la nostra civiltà riguardo ad un concreto tentativo di risposta è sicuramente quello di Parmenide. “lo stesso è pensare ed essere” troviamo scritto in uno dei più celebri frammenti della tradizione filosofica presocratica.
Lo sforzo di definizione che fece Parmenide fu il primo di una lunga serie e il pensiero nella sua essenza è sempre rimasto una questione fondamentale intorno alla quale ben pochi filosofi mancarono di dedicarsi.
I due grandi pensatori della tradizione greca, Platone ed Aristotele, videro nel pensiero quella qualità che fa degli uomini il punto di contatto tra la materia e il divino. Gli animali non possono pensare e gli dei sono il pensiero nella sua purezza; gli uomini, nella loro eccezionale posizione ontologica, sono la meravigliosa via di mezzo che permette alla materia di tornare al divino e al divino di dare un significato alla sua infinita perfezione. Aristotele arriva a dire, in uno dei passi più celebri della sua Metafisica, che “Se l’Intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente, pensa se stessa e il suo pensiero è pensiero di pensiero.” [Metaph., 1074b 15].
La teoria della genesi del pensiero di Aristotele resterà tra le teorie di più complessa interpretazione durante tutta la sua tradizione esegetica. Celebri restano gli esiti raggiunti da Averroè nel tentativo di conciliare la filosofia della Stagirita con la religione islamica. Averroè aveva descritto l’attività di pensiero come un agire che non può non interessare il divino; anzi è proprio il divino il vero protagonista del pensare. Il pensiero diventa così una tensione dell’intelletto verso Dio, tanto da portare il pensatore a dire "chi pensa è immortale , chi non pensa muore", riferendosi al fatto che pensando si partecipa dell'attività del divino e quindi all'immortalità che lo contraddistingue.
Per la cristianità fu Tommaso d’Aquino a riprendere l’opera di Aristotele iniziando quel lungo periodo di incontro/scontro tra ragione e fede che non cessò mai di scuotere l’Europa fino ad arrivare a conclusioni estreme come il rogo di Bruno.
Bisognerà proprio arrivare al XVII secolo per assistere ad un netto spostamento di prospettiva che riporta con forza la trattazione dal divino all’umano. Cartesio è il vero protagonista di questo capovolgimento storico che seppe non solo definire il pensiero senza attributi divini, ma addirittura rendere lo stesso pensiero la cifra essenziale di ogni certezza. Il pensiero torna ad una sorta di corrispondenza parmenidea con l’essere, spostandosi però da un piano ontologico ad uno strettamente gnoseologico. Il pensare è il fondamento assoluto della filosofia di Cartesio e ha il potere, secondo il francese, di ancorare l’essere alla certezza senza temere la sfida degli scettici più convinti.
Una svolta capitale, sicuramente, quella di Cartesio ma assolutamente insufficiente e non ci vorrà molto perché sorga un’argomentazione che metta in difficoltà l’edificio cartesiano nella sua immagine di saldo punto di arrivo. L’opposizione arriverà da lidi molto vicini a Cartesio e dal pensatore che si può forse considerare tra i suoi più grandi rivali: Pascal. Sarà infatti proprio Pascal a spostare l’argomentazione cartesiana verso il suo fianco scoperto: è vero che il pensiero è il cardine essenziale della natura umana ma poi questo pensiero, cos’è?
L’impegno di Pascal naviga spesso verso un orizzonte amareggiato e sospeso e affiancare un punto di domanda a quella che era l’unica certezza a cui sembrava giunto il percorso filosofico rientra perfettamente nel suo sistema di intenzioni. La domanda quindi adempie al suo ruolo e cerca risposte nella menti di altri grandi pensatori. Il filone spiritualista si concentrò con impegno nella ricerca di una risposta a questa domanda e riuscì a costruire una metafisica che partendo da queste sponde si dirigeva verso esiti cristiani. Maine de Biran vedrà il pensiero come una sorta di “senso intimo” che trascende ogni sensibilità permettendo all’uomo di riflettere su di essa. Questo continuo riflettersi della coscienza diventerebbe quindi la fonte di ogni sicurezza religiosa.
Il pensiero cessa di essere una certezza in quanto indiscutibile nella sua sussistenza e diventa l’origine di una pace interiore e di una continua tensione verso Dio. Pare evidente che un simile sistema di pensiero non approda ad esiti religiosi in maniera spontanea ma trova proprio in questi la premessa e il fattore stimolante. Nel tentativo quindi di muoversi contro le correnti positiviste e sensiste che sorgevano dalle congetture cartesiane si rischiava di ritornare verso un climax materia-Dio di memoria platonica.
Il grande giro di boa arriva con il pensiero tedesco e con l’ Ich denke kantiano. La mente umana viene vivisezionata da se stessa alla ricerca delle architetture formali del pensiero. “Io penso” è posto a fondamento dell’atto unificatore nell’attualità del percepire e io devo pensare me stesso come identico per poter comprendere la possibilità dell’appercepibile e quindi del pensiero stesso. Il pensiero non è più l’effetto immateriale di una sostanza, non è più un principio metafisico o l’essenza di una divinità; il pensiero è una funzione. Con Kant il pensiero diventa la funzione essenziale di ogni conoscenza in quanto tale, un principio logico imprescindibile che costruisce attivamente il sapere e il conoscere in base a strutture che lo rendono possibile. Il pensiero costruisce il nostro mondo e lo rende conoscibile inquadrandolo in costruzioni che ci permettono di rappresentarci ogni cosa tramite concetti.
Il pensiero diventa con Kant il centro di gravità attorno a cui orbita ogni forma possibile di sapere. Il pensiero quando riflette su stesso non proietta più fuori di sé le sagome di un’inconsistente perfezione ma al contrario riscopre le sue strutture sotto forma di limite. Nulla che non sia strutturato e unificato nell’ Ich denke può essere conosciuto. Molto può essere non pensato e non capito, ma il compito dell’uomo-che-conosce non deve essere quello di estendere il proprio potere gnoseologico oltre i confini che lo caratterizzano, ma al contrario di volersi assicurare in ogni attimo la più completa autonomia riguardo a ciò che avviene all’interno di quei limiti.
Quello di Kant è una affidamento completo al pensiero, una fiducia sulla quale l’idealismo distenderà tutta la propria potenza speculativa. Hegel fa diradare ogni genere di sussistenza sotto il potere dell’intelletto: l’autoevidenza completa del pensiero rispetto a se stesso diventa il culmine di un processo evolutivo totalizzante. Tutto si risolve nel pensiero senza esclusioni in un circolo metafisico che nasce e muore in istanze di pura intelligenza logica.
L’idealismo predica un pensiero preminente, in grado di includere ogni istanza ed ogni riflessione in un sistema coerente e funzionale dall’architettura complicata ma funzionale. Verso la fine dell’Ottocento però l’idealismo conosce la propria antitesi, ed entra in una profonda crisi dalla quale sorgeranno fortissime inclinazioni intellettuali che caratterizzeranno il ventesimo secolo e ci porteranno fino alla nostra contemporaneità.
Il concetto perde in fretta il primato di essenza, cadono le certezze metafisiche e il pensiero viene declassato ad un mero mezzo tramite il quale la specie umana ha trovato il proprio modo per sopravvivere. Nietzsche si erge ad immagine di questa tendenza e ne diventa una sorta di profeta: il pensiero deve perdere il suo primato perché questo rappresenta solo il rifiuto dell’uomo riguardo la propria dimensione fisica e corporea. L’uomo deve tornare alla forza dinamica ed eccitante della sua potenza e volontà fisica (che lo accumuna alla terra), e non pretendere più di imporre forme pure ed intellettuali che abbelliscano la sua situazione terrena. Dio è morto e con lui tutta la trascendenza nella quale l’uomo ha sempre voluto riporre le sue speranza e sue debolezze, spesso facendo riferimento alla natura misteriosa ed impenetrabile del pensiero.
Lo studio del pensiero si fa sempre più attento e critico nel Novecento. Inizia il complicato dibattito sullo psicologismo (basti citare Husserl) e le capacità dell’intelletto umano vengono portate oltre i limiti spazio-temporali che lo caratterizzano. La logica cerca di controllare il mondo possibile (Frege) mentre la scienza cerca di esercitare il suo dominio sulla natura. Il Novecento è sicuramente il secolo della scienza e della tecnica e sarà Heidegger a preoccuparsi del rapporto tra la scienza e il pensiero. “La scienza non pensa”, questa è la celebre frase con la quale Heidegger cerca di stimolare il dibattito contemporaneo, istigandolo a non identificare il pensiero con quel computare e quantificare tipico della riflessione scientifica.
Togliere al pensiero ogni istanza incorporea per proiettarlo e identificarlo con l’espressione diventa poi il punto cardine del sistema filosofico di un altro grande precettore del Novecento: Wittgenstein.
Nella nostra epoca i potenti mezzi messi a disposizione dall’evoluzione tecnologica ci hanno permesso di rivalutare la questione nei termini delle scienza cognitive. Cos’è la coscienza? È in questo modo che Dennet decide di porre la problematica, cercando di mostrare in che modo i potenti retaggi del cartesianesimo ci impediscano di accettare le grandi rivelazioni che le neuroscienze ci stanno fornendo.
La realtà è però che anche Dennet arriva ad un punto morto nella sua trattazione. Le domande restano e non risulta ancora chiara in che termini si possa definire questa cifra apparentemente essenziale della natura umana. Il pensiero è un problema che ha alla spalle più di duemila anni di ricerca e di confronto, una storia affascinante che mette in luce i grandi interrogativi e le paure dell’essere umano.
Questa storia ci regala comunque una certezza: è viva in noi la convinzione che rispondere alla domanda “Cosa significa pensare?” vuol dire rispondere anche alla domanda “Cosa siamo noi?”.