MARCO TERENZIO VARRONE
A cura di Marco Machiorletti
Marco Terenzio Varrone nacque a Rieti nel 116 a.C. e morì a Roma nel 27 a.C.
Egli acquisì nel campo della cultura
una tale fama da essere ritenuto in tutta l’antichità, sino al Medioevo, “il
più grande erudito romano”.
Fu questore e, successivamente, tribuno della plebe nonché pretore.
Fu al seguito di Pompeo, che seguì nella guerra contro
Sertorio, in quella contro i pirati e nella campagna contro Cesare: comandò
allora come legato le truppe pompeiane nella Spagna Betica, ma si arrese nel 49 a.C. a Cesare, che lo volle amico e lo propose alla direzione della prima biblioteca pubblica (46 a.C.).
Il secondo triumvirato gli si mostrò ostile e lo proscrisse (46 a.C.), ma fu graziato e poté trascorrere tranquillamente nello studio il resto dei suoi giorni.
Si fece seppellire secondo il rituale pitagorico.
Un catalogo incompleto dei suoi
scritti ci è stato tramandato per mezzo di san Girolamo: ricostruendolo con
altre testimonianze, arriviamo a contare 75 opere in 620 libri, delle quali
possediamo soltanto cinque libri del De lingua latina e il dialogo De
re rustica. Elencando le principali conviene distinguerle in quattro
categorie: le opere di storia letteraria e linguistica,
le opere antiquarie , le opere didascaliche e le opere letterarie.
Le Imagines, in quindici libri, contenevano settecento ritratti di
uomini celebri, sia romani che greci (statisti, poeti e filosofi, ma anche
danzatori e sacerdoti), accompagnati ciascuno da un epigramma e da un riassunto
della vita; il De poematis era un trattato sulla poesia, nello schema
delle artes retoriche; il De scaenicis originibus verteva sulle
origini della drammatica latina; il De comoediis Plautinis e le Quaestiones
Plautinae gettavano i fondamenti della critica plautina, riconoscendo
l’autenticità di ventuno fra le centotrenta commedie che andavano allora sotto
il nome di Plauto. Il De antiquitate litterarum trattava dell’alfabeto;
il De origine linguae Latinae delle origini della lingua.
L’opera linguistica di gran lunga più importante era il trattato in venticinque
libri; il De lingua Latina, composto fra il 47 e il 45 a.C.
La più importante delle opere antiquarie era rappresentata dalle Antiquitates
rerum humanarum et divinarum (Antichità umane e divine) in
quarantuno libri, di cui venticinque per le antichità umane e sedici per le
divine. Dividendo gli argomenti in sezioni (come de hominibus, de
locis, de temporibus, de rebus, de deis), Varrone
ricostruiva la storia dei popoli e dei costumi antichi e tracciava un quadro
completo delle antichità sacre.
Dal punto di vista religioso, egli combatteva le fantasie dei poeti e cercava
di interpretare la religione tradizionale alla luce della teologia di
Posidonio, che concepiva il cosmo retto da un’anima cosciente la cui parte più
nobile è l’etere, che dà origine agli dèi. Attinsero alle Antiquitates
molti scrittori pagani e cristiani, principalmente Agostino; Petrarca, inoltre, si ricorderà di Varrone come del "terzo gran lume romano" dopo Cicerone e Virgilio. Altri importanti
scritti antiquari erano: De gente populi Romani (storia mitica dal
diluvio universale del tempo di Ogige, re di Tebe, al periodo della monarchia
in Roma), De vita populi Romani (la vita e lo spirito della Roma
antica), De familiis Troianis (ricerca araldica sui nomi di famiglie
patrizie romane), Rerum urbanarum (topografia di Roma), Aetìa
(sull’origine di usanze eccentriche).
La principale opera didascalica è De re rustica, scritta nel 37 a.C. e indirizzata alla moglie Fundania in occasione dell’acquisto del podere.
È divisa in tre libri dedicati rispettivamente a Fudania e gli amici Turranio
Nigro e Pinnio e consta di una serie di dialoghi tenuti in date e luoghi
diversi, con interlocutori il cui nome richiama la materia trattata.
Varrone parla ai ricchi possidenti e allevatori amanti del guadagno e del
lusso. Egli dimostra un sincero amore per la campagna e tenta di esprimersi in
una lingua corretta e, talora, artisticamente elevata.
Argomenti di scienza navale affrontava Varrone nelle opere De ora maritima,
De aestuariis ed Ephemeris navalis. Di diritto parlava nel De
iure civili, di diritto e grammatica antiquaria negli 8 libri di Epistolicae
quaestiones, redatti appunto in forma epistolare. Nei 9 libri di disciplinae
(le nove scienze: grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica,
astronomia, musica, medicina e architettura) dava vita alla prima grande
enciclopedia latina e gettava la base della bipartizione medievale delle arti
liberali in «trivio» e «quadrivio» (le ultime due discipline non furono
riconosciute).
Di Varrone scrittore si devono citare principalmente le Sature Menippeae,
composizioni miste di prosa e di versi a imitazione del filosofo cinico greco
Menippo di Gàdara (vissuto nel III secolo a.C.); erano raccolte in
centocinquanta libri, dei quali non possediamo che circa seicento frammenti.
Varrone non mostra, nelle Menippae, di aderire a una determinata
filosofia, anzi ritiene che spesso le dispute dei filosofi siano
"logomatie" o puri scontri verbali: e, nonostante il suo ricollegarsi
a Menippo, egli resta lontano dall’anarchismo rivoluzionario e dall’astratto
cosmopolitismo dei cinici greci, richiamandosi di continuo al mos maiorum
romano. Talvolta riesce anche a liberarsi, sia pure per un momento,
dall’oratoria moralistica e a gustare disinteressatamente i multicolori aspetti
del mondo circostante: nascono così tratti descrittivi e lirici che toccano la
poesia: come la lode del vino definito hilaritatis dulce seminarium
("dolce scaturigine di buonumore"), gli agili galliambi in onore di
Cibele e i dimetri anapestici – di levità quasi catulliana – per la gioia di un
ritorno in patria.
Fra le opere letterarie vanno ancora ricordati i Logistorici, una
raccolta di sessantasei libri in ciascuno dei quali era introdotto un
personaggio a ragionare di una determinata questione; il logistorico Pius
aut de pace conteneva cenni biografici su Sallustio. Varrone aveva inoltre
raccolto le sue Orationes in 25 libri, aveva scritto De vita sua
e degli Annales di carattere cronologico.
Varrone – è stato detto – rappresenta "l’apogeo del sapere antico".
Già i contemporanei si resero conto dell’importanza della missione culturale da
lui intrapresa: i suoi lavori di carattere enciclopedico, importanti al
concetto della funzionalità della cultura, aprivano nuovi orizzonti nel
panorama della ricerca scientifica romana.
Più che di una filosofia di Varrone si può parlare di implicanze filosofiche della sua cultura generale. Infatti, propriamente, il nostro autore non si occupa specificamente di filosofia: eppure essa è costantemente presente sullo sfondo dei suoi scritti.
Contrariamente a Cicerone, che segue Filone di Larissa, egli si schiera dalla parte di Antioco, e gli resta in larga misura fedele.
La sua concezione dell’anima come «pneuma» e del Divino come «anima del mondo» sono infatti in perfetta sintonia con l’Eclettismo stoicizzante antiocheo.
La dottrina filosofica per cui egli è più noto consiste nella distinzione delle tre forme di teologia (una distinzione che ha radici molto antiche):
1) la «teologia favolosa o mitica» dei poeti;
2) la «teologia naturale» propria dei filosofi;
3) la «teologia civile», che si esprime nelle credenze e nei culti delle città.
Varrone riteneva la seconda forma di teologia come la più vera; al tempo stesso, egli insiteva molto sul fatto che la religione fosse una creazione umana.
Boyancé rileva quanto segue: «da tempo alcuni filosofi si sforzavano di dare un posto alla teologia dei poeti e delle Città. Si trattava della tradizione storica dei Greci e di Roma e Varrone aveva un rispetto tutto romano di questa tradizione. L’erudito, in lui, rispettoso in particolare della storia delle parole, credeva di poter fondare la verità dei filosofi. […] Tutto ciò non avveniva in Varrone senza esitazioni, dubbi e scacchi, di cui aveva consapevolezza. Ma egli era sostenuto dal fervore delle sue convinzioni e dalla vastità delle sue conoscenze» (Les implications philosophiques des recherches de Varron sur la religion humaine, in «Atti del Congresso Internazionale degli Studi Varroniani», Rieti 1976, I, p. 161. Cfr. vol. X). Si ricordi, infine, l’utopia filosofica tratteggiata da Varrone in un’opera intitolata Marcopolis (letteralmente: La città di Marco): su di essa non sappiamo pressoché nulla perché, purtroppo, è andata perduta; però non è inverosimile pensare che la città utopica così come Varrone la immaginava fosse saldamente legata al passato tradizionale di Roma, e non tanto a valori rivoluzionari. Questo aspetto può essere desunto dal pensiero stesso di Varrone, accanito difensore del “mos maiorum”, ma anche da un’altra sua opera, intitolata Sexagesis, in cui raccontava di un personaggio che, addormentatosi da ragazzo, si svegliava a sessant’anni per accorgersi che a Roma tutto era mutato in peggio. Ancora in un altro passo dei suoi scritti, Varrone guarda con ammirazione alla società perfetta delle api, alla loro operosità e alla loro solidale convivenza.